Autore Gianfranco Marrone
Titolo La fatica di essere pigri
EdizioneCortina, Milano, 2020, Temi , pag. 164, ill., cop.fle., dim. 12x19,5x1,5 cm , Isbn 978-88-3285-162-5
LettoreGiorgio Crepe, 2020
Classe lavoro , psicologia , sociologia , storia sociale , critica letteraria












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Post-it                                  7

Introduzione                             9

1. L'ozio dei popoli                    17

2. Lingue, detti, storie                55

3. Politiche dell'oblomovismo           83

4. Mitologie di Paperino               113


Finale                                 141

Note e notizie                         151


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Post-it



Questo libro si fonda sul paradosso, espresso già nel titolo, per cui i pigri lavorano moltissimo per riuscire a esser tali. Il libro stava per andare in stampa quando il paradosso si è realizzato per via della pandemia da Coronavirus. Tutti chiusi in casa, tutti costretti a interrompere le nostre attività, a sospendere il nostro lavoro, a poltrire. Con enormi difficoltà, personali e collettive.

Per quanto si dica che il nostro è un paese di fannulloni, stiamo assistendo alla situazione contraria: ci lamentiamo tantissimo di questo ozio forzato, non siamo capaci di star fermi, di non lavorare, di star distesi sul divano di casa a guardare vecchi film in tv o di ritrovarci con la famiglia per fare altro, tutti insieme appassionatamente. Sentiamo sempre più spesso, in questi terribili giorni di reclusione, di tantissima gente che, dinnanzi a questo abisso di tempo libero, resta bloccata, paralizzata, distrutta. E qualcuno ha anche sostenuto, con uno spirito calvinista di dubbio gusto, che è meglio morire piuttosto che non lavorare.

Lafargue, Russell, Barthes inorridirebbero. E con loro Oblòmov e Paperino, Bartleby e Snoopy. Prendiamola allora in modo semiserio: magari costoro hanno qualcosa da insegnarci. Ora più che mai.

g.m. - aprile 2020

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

[...] Proveremo a mostrare che la pigrizia non è - come il senso comune ritiene - la manifestazione di un carattere individuale, la proprietà spirituale di un singolo soggetto. Si tratta piuttosto di un sentimento collettivo, di una passione, o se si vuole di una forma di vita, che può manifestarsi, crescere e trasformarsi in precisi contesti sociali e culturali: quelli dove l'operosità e l'inoperosità, il lavoro e il riposo, il fare e il non fare vengono considerati, per così dire, dati sensibili, elementi centrali - vuoi in un verso vuoi nell'altro - dell'organizzazione sociale e della vita umana nel suo complesso. In altre parole, il pigro non è mai solo. Esso è tale perché reagisce a un sistema di valori e di comportamenti che - più spesso - ripudia l'inattività, considerandola alla pari di un vizio (se non di un peccato), o che - più raramente - al contrario la ritiene una virtù, un pregio, un atteggiamento da perseguire e da lodare.

[...]

Così, se la pigrizia è una passione intersoggettiva, è perché in fondo si tratta di una reazione, o forse anzi di una ribellione, verso coloro i quali ci ingabbiano in una cultura - in un sistema di idee e di principi - che fa dell'attivismo un valore supremo, spesso fine a se stesso. Non solo, dunque, il pigro non è mai solo, ma la pigrizia, più in generale, non nasce dal nulla: è la risposta risentita a chi ci impone, fra il rassegnato e il sadico, di fare e strafare, di darci alle nostre occupazioni con zelo e costanza, totale dedizione e cieca perseveranza. Poltrire è rifiutarsi di agire, considerare l'inazione un obiettivo esistenziale, per resistere a chi vorrebbe farci lavorare, per protestare contro ogni forma di insensato stakanovismo. Obiettivo da raggiungere appieno, resistenza da rafforzare con ogni mezzo, protesta da perseguire ostinatamente.

[...]

Da qui il nucleo centrale della pigrizia, quella che potremmo chiamare la sua essenza: non è vero che il pigro non fa nulla; il pigro fa di tutto per riuscire a non far nulla: si adopera freneticamente per fabbricare le condizioni che gli consentano di attivare la sua inerzia simbolicamente efficace. Sembra un paradosso, ma non è così.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 14

Questo libro proverà ad argomentare e, sperabilmente, avvalorare queste tesi. Lo farà in molti modi, usando materiali discorsivi e documenti culturali differenti per genere e per numero, per qualità e per rilievo, nel tentativo di ricostruire la configurazione formale della pigrizia, i suoi tratti relativamente invarianti e il dispositivo che rende conto delle possibili modificazioni nel tempo e nello spazio, nelle società e nelle culture.

La pigrizia - declinata anche attraverso i suoi numerosi sinonimi (ozio, indolenza, accidia, inerzia, apatia, infingardaggine...) o antonimi (solerzia, operosità, dinamismo, sollecitudine...) - è stata più volte oggetto di riflessione, filosofica e no, con alterne vicende e insperate fortune. Il primo capitolo cercherà di individuare le linee di continuità e i punti di rottura in quella che, un po' approssimativamente, potremmo chiamare una teoria della pigrizia: la quale vanta figure di rilievo come Seneca e Bertrand Russell, François de La Rochefoucauld e Paul Lafargue, Robert L. Stevenson e Lin Yutang, o nomi forse meno noti ma non meno basilari come il pensatore giapponese Yoshida Kenkō. L'approdo alla contemporaneità vedrà la condizione della pigrizia più problematica che mai, in una società dei consumi che muta a gran velocità in una società della prestazione.

L'accostamento linguistico-comunicativo alla questione non può non seguire. Una ricostruzione dell'area semantica del termine pigrizia, dei suoi derivati, dei sinonimi e dei contrari, anche in altre lingue, darà inizio al secondo capitolo. Che si occuperà inoltre di detti e proverbi, per sfociare nel folklore più pieno: quello della narrazione orale a carattere fiabesco, dove la figura del pigro, intrecciandosi con quella dello stupido, ha grande rilievo.

Fra la fiaba, specie se russa, e il romanzo, del medesimo paese, c'è una sotterranea linea di continuità. Il terzo capitolo dirà del più celebre e più complesso pigro letterario, l'Oblòmov di Ivan Gončarov. Non senza una breve nota sul suo avatar americano, il Bartleby di Melville. Con tali figure la pigrizia assurge al suo massimo e, proprio per questo, viene decostruita l'ideologia che, proponendola al mondo, la respinge in toto.

Il mondo dei fumetti e dei cartoni animati, riformulando a suo modo questi temi quasi universali, racconta di una modernità che è ancora la nostra. È per questo che il quarto capitolo discuterà dell'universo Disney, dove accanto ad avventurieri ed eroi ci sono anche - talvolta entro il medesimo personaggio - molte figure di lazzaroni e infingardi, inetti e soprattutto pigri. A iniziare da Paperino, la cui utopia lavorativa, si ricorderà, consiste nel diventare collaudatore di materassi. Con una coda essenziale sullo Snoopy dei Peanuts.

Esaminando alcune affermazioni di Roland Barthes , le considerazioni finali ritorneranno sul nostro presente e, per le tracce che possiamo intravederne, sul nostro prossimo futuro. In un mondo in cui è il concetto stesso di lavoro a essere profondamente trasformato, e con esso la sua pratica, il non far nulla cambia di significato e di valore. Anche perché, nel frattempo, la società continua a chiederci di dedicarle l'intera nostra vita, le nostre giornate, il nostro corpo nella sua complessità. Come esercitare, oggi, la fatica necessaria per essere pigri? Dalle piccole tattiche quotidiane di rottura del tempo alla pratica intransitiva della scrittura, passando dall'implicito dettato di chi inneggia al vivere piuttosto che all'essere, la risposta potrebbe risiedere nella progettazione di una nuova forma d'esistenza: alleggerire di parecchio il peso della soggettività; prendersi molto meno sul serio; ritirarsi in un sé poco oneroso. E sorriderne.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 18

L'opposizione fra lavoro e ozio ha attraversato fasi diverse; possiamo individuarne alcune usando maglie larghe. La storia è nota: a seconda del modo in cui, volta per volta, è stato concepito il lavoro - maledizione, schiavitù, servaggio, dovere sociale, lode a Dio, essenza dell'uomo, realizzazione di sé, aspirazione inarrivabile... -, è stato inteso l'ozio: opportunità per coltivare le arti e le scienze, vizio che ne genera tanti altri, meritorio tempo libero susseguente gli impegni dovuti, esercizio di felicità, avvilente forma di disoccupazione. Eccetera.

Bertrand Russell, con la limpidezza che lo contraddistingue, ha scritto su questo tema pagine notevoli. In un breve saggio del 1932 intitolato " Elogio dell'ozio ", il filosofo inglese propone un'utopia educativa: insegnare ai giovani il non far nulla. "Se ciò accadesse davvero - commenta - non sarei vissuto invano". L'etica protestante che fa del lavoro un dovere sociale al quale chiunque deve adeguarsi è secondo Russell fallace per varie ragioni. Da un canto non è detto che tutti vi si adeguino: c'è un'élite di persone, come i proprietari terrieri e parecchi datori di lavoro, che non solo non fa nulla, ma tiene l'ozio ben stretto a sé, come una personale prerogativa. Più gli altri lavorano, più loro possono non far nulla. D'altro canto, una buona parte dell'attività dei lavoratori non è affatto necessaria, poiché è destinata a produrre merci in sovrappiù. Sarebbe più logico diminuire le ore di lavoro e aumentare quelle destinate al tempo libero. Inoltre, gli enormi progressi della tecnica permetterebbero di accorciare il tempo destinato al lavoro per aumentare le ore d'ozio. "L'etica del lavoro è l'etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi." In altri termini, il concetto di dovere, secondo Russell, è uno strumento escogitato dagli uomini che stanno al potere per indurre i lavoratori a fare gli interessi dei loro padroni piuttosto che i propri.

[...]

Eppure, conclude Russell, "l'ozio è essenziale per la civiltà": esso non implica né frivolezze né débauche. L'ozio non è il padre di tutti i vizi ma atteggiamento foriero di cultura, esercizio intellettuale, capacità critica, felicità e benessere, miglioramento generale delle condizioni di esistenza dell'umanità. Esso non implica mancanza di operosità ma diminuzione del lavoro cosiddetto utile, di tutte quelle attività che servono a qualcos'altro, ovvero sempre, alla fin fine, a produrre denaro.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 21

Un'apologia dell'ozio è stata scritta per esempio nel 1877 da Robert L. Stevenson , l'autore del Dottor Jekyll e Mister Hyde. "La cosiddetta pigrizia [idleness] - scrive -, che non consiste nel non far nulla, ma nel fare tanto di quel che i dogmatici formulari della classe dirigente non riconoscono, possiede un pari diritto ad affermare le sue prerogative di quanto ne abbia l'operosità stessa." Così, non c'è miglior ozio, per Stevenson, di quello che si pratica marinando la scuola, quando si imparano cose basilari della vita come suonare il violino o saper riconoscere un buon sigaro. L'ozioso è personaggio positivo, capace di curare il corpo e lo spirito molto meglio di qualsiasi indefesso lavoratore.

A Stevenson farà eco Oscar Wilde (e non potevamo non aspettarcelo), il quale amava ripetere che il non far nulla è il lavoro più duro di tutti. "L'azione - leggiamo nel Critico come artista - è il rifugio di persone che non hanno assolutamente niente da fare. [...] La sua base è la mancanza di fantasia, è l'ultima risorsa di coloro che non sanno sognare". Da qui, anticipando Russell, la sua presa di distanza dal socialismo: "È deplorevole che una parte della nostra società sia praticamente ridotta in schiavitù; ma proporsi di risolvere il problema asservendo la società intera è puerile".

Così uno scrittore satirico come Jerome K. Jerome , nei suoi Pensieri oziosi di un ozioso, tesse le lodi non del dormire, ma - vera arte del pigro - del restare a letto dopo che ci si è svegliati: "Ah! Com'è delizioso voltarsi dall'altra parte e tornare a dormire: 'proprio solo per cinque minuti'. [...] Ci sono delle persone per le quali alzarsi all'ora giusta è assolutamente impossibile. Se per caso devono alzarsi alle otto precise, allora se ne stanno sotto le coperte fino alle otto e mezzo. Se le circostanze cambiano, e alzarsi alle otto e mezzo diviene relativamente presto per loro, allora devono suonare le nove prima che possano buttar giù le gambe dal letto [...]. Tentano tutti i sistemi possibili. Comperano sveglie (ingegnosi apparati che suonano all'ora sbagliata e svegliano persone che non c'entrano) [...]. Ho conosciuto un tale che arrivava fino ad alzarsi e a fare un bagno freddo, ma nemmeno questo gli serviva, poiché un minuto dopo saltava di nuovo nel letto, per riscaldarsi".

Emergono alcuni evidenti tratti, non dell'ozio, ma proprio della pigrizia, come la tematica del caldo e del freddo, il fantasma della sveglia e i mille raggiri necessari per continuare - o cominciare - a poltrire (tutte cose che ritroveremo più avanti). Similmente Gilbert K. Chesterton sul suo On Lying in Bed si scaglia contro la supposta moralità dell'alzarsi presto al mattino, mettendone in crisi le ragioni: "Il tono che oggi si assume comunemente nei confronti del fatto di restare a letto è ipocrita e morboso. Invece di considerarlo, così come dovrebbe essere, una questione di convenienza e appagamento personale, il fatto di alzarsi presto la mattina è giunto a essere considerato da molti come se facesse parte dei principi morali fondamentali. Certo riguarda il senso pratico nel suo insieme; ma in esso non c'è nulla di intrinsecamente buono, né c'è qualcosa di cattivo nel suo contrario".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 24

Il peccato originale dà luogo - e costituisce preliminare scusante - all'ingiustizia sociale, a quella di genere, a quella di specie.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 28

Il calvinismo detterà pure, come sappiamo, lo spirito del capitalismo, ma per farlo si ritrova un'eredità niente male: quella di secoli e secoli di requisitorie teologiche contro la pigrizia riletta come accidia, dell'inoperosità pensata come peccato.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 33

È in questo quadro che occorre inserire il celebre pamphlet di Paul Lafargue Il diritto alla pigrizia (1883), che qualche problema in casa Marx finirà per comportare. Paul sposa Laura Marx, figlia di Karl, e il pranzo domenicale in famiglia si trasforma in una dotta, e agguerrita, disputa sul lavoro e la sua natura, sul riposo e il suo senso, sulla pigrizia e le sue ragioni. Tralasciando le storie personali, interessanti sino a un certo punto, Lafargue nel suo librino usa uno stile che mima il Manifesto del suocero. Ecco per esempio l' incipit, con tutta la sua enfasi politica, le riprese retoriche, lo stile oracolare, la teoria di affermazioni sentenziose: "Una strana follia si è impossessata dei lavoratori delle nazioni in cui domina la cultura capitalistica. Questa follia trascina con sé le miserie individuali e sociali che da due secoli torturano la triste umanità. Questa follia è l'amore per il lavoro - è la moribonda passione per il lavoro - spinta sino all'esaurimento delle forze vitali dell'individuo e della sua progenie". E anche il titolo del testo ha valore retorico, opponendosi antifrasticamente agli slogan diffusi sui diritti al lavoro e schierandosi in posizione complementare ai celebri diritti dell'uomo che nel 1848 erano stati potentemente rivendicati.

Da cui il messaggio di fondo: la pigrizia rispetta i diritti dell'uomo ben più che il lavoro. Proclamare che il diritto dell'uomo è quello di poter lavorare sempre e comunque è ribaltare le condizioni naturali dell'esistenza, facendosi ingannare dalle morali sociali che íl Cristianesimo prima e il capitalismo dopo hanno spacciato per universali. "Per arrivare alla consapevolezza della propria forza, bisogna che la classe lavoratrice calpesti i pregiudizi della morale cristiana, economica e libero pensatrice; bisogna che ritorni agli istinti naturali, che proclami i diritti della pigrizia, mille e mille volte più nobili e sacri dei tisici diritti dell'uomo, elaborati dagli avvocati metafisici della rivoluzione borghese. Che vi sia l'obbligo di lavorare solo tre ore al giorno, di fannullare e di fare bisboccia per il resto della giornata e della notte".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 50

"La cultura, a mio credere, è essenzialmente un prodotto dell'ozio. L'arte della cultura è quindi, essenzialmente, l'arte di oziare. I saggi non sono troppo occupati, e i troppo occupati non sono saggi." [ Lin Yutang ] Così, dice il saggio, il tempo è utile purché non sia usato.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 118

Una delle caratteristiche peculiari di Paperino che permette per gran parte di motivare la sua natura mitica, íl suo dualismo intrinseco, il continuo rischio di dispersione mitigato dalla tendenza opposta verso l'unitarietà, è quella che ci riguarda da vicino, ovvero la sua proverbiale pigrizia. Essa difatti permette di conciliare alcune delle caratteristiche a prima vista contrapposte del personaggio, come l'essere iperattivo da una parte ma estremamente ozioso dall'altra. Basta intendersi su che cosa significa pigrizia; o, meglio, in che modo e in che termini Paperino può dirsi pigro.

Per farlo, innanzitutto, occorre mettere in relazione Paperino con altri personaggi del suo universo narrativo e, più in generale, dell'universo Disney. In questo mondo difatti non solo esistono molti pigri, molti tipi di pigri, ma anche molti iperattivi: come dire che l'opposizione - vedremo, meno netta di quanto non si pensi - fra operosità e inoperosità è in questo universo assai pertinente, presente sottotraccia nella maggior parte delle storie e situazioni.

La prima opposizione, in negativo, è quella classica fra Topolino e Paperino, ovvero fra due figure mutuamente esclusive, rispettivi rappresentanti di quei due mondi senza soluzione di continuità che sono Topolinia e Paperopoli. I due personaggi, assai diversi, rappresentano le due facce opposte dell'americano medio; dunque, se accostati, ben rendono la costitutiva schizofrenia di quest'ultimo. Quanto Topolino è uomo d'ordine, rispettoso della legge e dello status quo, tanto Paperino è uomo del disordine, se non anarchico in ogni caso assolutamente distante da ogni forma di legalismo, per nulla interessato a perseguire i malfattori se non quando gli viene espressamente richiesto, il più delle volte come ingiunzione, dallo zio Paperone. Topolino lotta per un futuro migliore, crede nelle magnifiche sorti e progressive dell' american way of life. Paperino vede nella società una macchina generatrice di angherie, e non manifesta alcun ottimismo circa il progresso. Topolino accetta il mondo per come è, e ne difende í principi di fondo. Paperino è un assoluto individualista, un individualismo critico nei confronti del suo prossimo. Topolino è un eroe, e agisce sulla base di un volere e un saper-fare che possiede e maneggia con disinvoltura ed efficacia. L'agire di Paperino è da antieroe, poiché si basa su una sistematica mancanza di volontà, e dunque piuttosto su un dover-fare che percepisce come autoritario e violento. Insomma: quanto Topolino è solerte, tanto Paperino è pigro.

Ma di che tipo di pigrizia si tratta? Una pigrizia, evidentemente, molto diversa da quella degli altri pigri della sua congrega. Prendiamo il già menzionato cugino Gastone: costui è inattivo per la semplice ragione che non ha alcun bisogno di lavorare per vivere: il denaro gli piove addosso ogniqualvolta ne ha bisogno. Allunga la mano e afferra al volo bigliettoni da mille. È talmente fortunato da gestire la sua pigrizia in modo euforico e, in definitiva, assai irritante. Paperino, invece, è irrimediabilmente scalognato: si sfianca oltre misura per tirar su quelle sommette che gli potrebbero servire per far bella figura con Paperina o per pagare le vacanze ai nipotini. Ma si tratta di fatica sprecata: le sue gesta non portano mai a una soluzione positiva della vicenda. Paperino è un loser mentre Gastone è un winner: ma le sue sono vittorie banali, minimali, il più delle volte limitate alla lotteria di quartiere. Entrambi sono egoisti, disimpegnati, fannulloni; gli esiti di questa profonda indolenza sono però diametralmente opposti: laddove Gastone gode del dolce far niente, e pure ottiene tutto ciò che desidera, Paperino il riposo deve conquistarselo col sudore della fronte. Per lui la pigrizia è un'utopia, non una condizione reale di esistenza. Eppure, Gastone resta un persopaggio secondario, un deuteragonista sommamente antipatico sul quale si riflette, in negativo, il travaglio fantasioso di Paperino, le sue peregrinazioni, le sue collere, le sue sconfitte, la sua attrattività. Gastone è un personaggio piatto, Paperino una figura a tutto tondo.

Un'altra forma di pigrizia è quella di Paperoga, anch'egli cugino di Paperino e suo comprimario in moltissime avventure, a iniziare dal lavoro comune al Papersera, il quotidiano di cui è proprietario Paperone. Per Paperoga - tanto trasandato quanto Gastone è elegante - la pigrizia è l'esito delle sue azioni, non la causa. Laddove Paperino lotta e s'affatica per riuscire a distendersi sull'amaca, Paperoga fa moltissimo, s'imbarca in mille sgangherate attività, cercando dappertutto compagni d'avventura, ma non gli riesce nulla: è troppo goffo, incapace, inconcludente. Al punto che il suo fare inefficace finisce per essere analogo al non far nulla, la sua sicura conseguenza. Paperoga è il nonsense, l'assurdo per antonomasia; Paperino sguazza nell'eccesso di significazione. Paperoga è l'eroe dell'incompetenza, del non-saper-fare; Paperino, rispetto a lui, è un tipo capace - lo abbiamo detto - di cambiare molti mestieri, di coltivare tanti hobby. Così, Paperino è la vittima di Paperoga, il destinatario delle sue azioni maldestre, inutili, pericolose.

Un pigro, diciamo così, puro è Ciccia, l'oca paffuta che passa il tempo a dormire all'ombra degli alberi della fattoria di Nonna Papera: tanto quest'ultima è lavoratrice, al punto che nonostante l'età avanzata manda perfettamente avanti baracca e burattini, quanto Ciccio, più che incapace, è scansafatiche. Schiva ogni faccenda Nonna Papera gli affidi, si distrae, lascia a metà i lavoretti; e viene sistematicamente perdonato per questo. È un pigro felice, godereccio, epicureo: interrompe l'eterno riposino esclusivamente per coltivare l'altra sua grande passione: il cibo, che si manifesta sotto forma dei manicaretti giornalmente preparati da Nonna Papera, e che lui sbafa oltre misura. Anche Paperino è goloso, forse l'unica prerogativa che condivide con Ciccio. Per il resto i due incarnano le due facce opposte dell'inoperosità. Ciccio, buono sino all'esasperazione, è più che altro un ozioso atavico; mentre Paperino, con i suoi continui scatti d'ira, ha la pigrizia come ideale di vita.

Infine, la poltroneria di Paperino si edifica e si misura rispetto al suo unico reale comprimario nelle vicende di Paperopoli, ovvero lo zio Paperone, lo Scrooge di Dickens fatto papero e per questo reso ridicolo. Anche di Paperone, difatti, sappiamo tutto; e anche lui vanta caratteristiche ambivalenti che lo fanno assurgere al mito: taccagno sino alla follia, ambiguo e volubile, iroso e patetico, coraggioso e vigliacco, intraprendente e malaticcio, uomo di potere ma anche capace delle più inaspettate compassioni verso il prossimo bisognoso. I continui dissidi con Paperino dicono della profonda affinità, e del sicuro affetto, fra i due. Non potrebbero essere più diversi: Paperone s'è fatto da sé, ha sempre lavorato, accumulando miliardi e miliardi, e sempre lo farà, continuando a produrre un ammasso di monete d'oro. S'è fatto le ossa nel Klondyke alla ricerca di miniere aurifere, ma la smania di guadagnare non lo abbandona mai. Unico piacere, per lui, è fare il bagno nelle monete, segno d'estrema taccagneria e d'estremo infantilismo. Paperone è uomo d'altri tempi, ha una tempra che tutti gli riconoscono e che nessuno, nelle generazioni successive alla sua, riesce a vantare. Tutto l'opposto di Paperino: quanto lo zio sta dal lato della produzione di beni e dell'accumulazione capitalistica, tanto il nipote si schiera dal lato del consumo generalizzato, dello spreco inutile e lussuoso. Tirchio vs scialacquatore: niente di più chiaro; analogamente: competente vs incapace, occupatissimo vs disoccupato, ricchissimo vs squattrinato e via dicendo. Ma in fondo, se i due possono continuamente litigare, è perché al fondo si capiscono: ambedue umani, troppo umani, nei loro desideri semplici, ingenui, bambineschi; entrambi americanissimi, rappresentanti di un mondo che non ha rivali perché non ne vuol sapere di averli. Le loro rispettive identità si costituiscono, così, reciprocamente, in quelle mille e mille situazioni narrative dove lo zio costringe il nipote a lavorare e quest'ultimo fa di tutto per evitarlo; oppure - che è lo stesso - dove il nipote sta steso sull'amaca a riposare in pieno giorno e lo zio irrompe all'improvviso in giardino per proporgli, con miserevole autoritarismo, l'ennesima fatica, agitando - al consueto diniego - il solito insulto e l'usuale minaccia: "infingardo, ti diseredo".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 135

Nel variegato mondo dei fumetti e dei cartoni animati i pigri non mancano. Da Arcibaldo a Mafalda, da Garfield ai Ronfi, da Tired Mask al Bradipo, da Andy Capp a Romer Simpson c'è l'imbarazzo della scelta. Ma ai nostri scopi l'imbarazzo non c'è, perché scegliamo senza dubbio Snoopy, che è un pigro puro, perfetto. Inimmaginabile uno migliore: non a caso è stato più volte paragonato a Paperino, soprannominato il Donald Duck dei Peanuts. Analogia che regge fino a un certo punto, perché se il celebre bracchetto di Schulz è un ozioso, questa sua prerogativa si distacca da quella di Paperino.

Diversamente da Paperino, per Snoopy la pigrizia non è un traguardo da raggiungere, un gesto di resistenza rispetto a chi vuoi farlo lavorare, ma uno stato acquisito, un dato di fatto. Il celebre bracchetto passa il suo tempo in una posizione incongrua, dorme sul tetto a spiovente della cuccia, in quello che dovrebbe essere un crinale spigoloso e che lui trova invece comodissimo. Ricorda l'Eta Beta disneyano, alieno simpatico e sodale di Topolino in tanti intrecci polizieschi, che riposa soporitamente sul pomello del letto. Snoopy dorme e basta, non ha doveri da scansare come animale domestico, sfamato regolarmente da quel suo padroncino sfigato che è Charlie Brown (il "bambino dalla testa rotonda", lo chiama lui con estremo snobismo). Nessuno gli chiede di fare il cane da guardia, oppure da caccia, come la sua razza di appartenenza richiederebbe (è un beagle), e nemmeno da compagnia. Snoopy non è un pet, un "cucciolo caldo", come certo banale merchandising ha provato a rivendercelo: ha una sua autonomia cognitiva, per non dire emotiva; fa quel che vuole, quando e come vuole. E gli viene lasciata l'opportunità di non far nulla, di poltrire appunto. Anche quando Linus, per rimettere le cose a posto, prova a lanciare un bastoncino chiedendogli di riportarlo, Snoopy corre a prenderlo ma, per così dire, al secondo grado: non per obbedire al bambino, per fare il cane, ma semmai per divertirsi, per vedere l'effetto che fa. Risemantizza il frame cane/padrone, come è suo costume fare a ogni momento. In due sole situazioni Snoopy palesa la sua specie di origine (della quale, pure, è profondamente orgoglioso): quando ha a che fare col terribile gatto dei vicini che gli distrugge la cuccia con una sola zampata; ma più che altro nel suo rapporto famelico col cibo. Aspettando che Charlie Brown gli porti la ciotola col pranzo, è capace, come appunto fanno i cani, di fissare la porta sul retro della casa per ore e ore: Snoopy vince su tutto e tutti tranne che sul suo stomaco bestiale - attore, del resto, con una propria autonomia narrativa.

Eppure, questo suo poltrire inesauribile ha, un po' come in Paperino, un contraltare solo apparentemente paradossale sul coté immaginativo. Avendo, per così dire, tanto tempo a disposizione, Snoopy lo adopera per inventare, ammobiliare e vivere mondi possibili d'ogni tipo e natura. Al loro interno si agita moltissimo, fa un sacco di robe, ma tutte sul piano dell'irrealtà, un'irrealtà che però scompagina uomini e cose, trascinandoli ogni volta a partecipare a essa. La sua pigrizia si fa stimolo per l'immaginazione, motore di decine e decine di narrazioni fantastiche, produttrice di moltissimi avatar.

Per comprendere meglio questo gioco fra pigrizia e attivismo che caratterizza il personaggio, facciamo un passo indietro e ricostruiamo i tratti essenziali del mondo dei Peanuts, ambiente entro cui Snoopy ha senso e valore.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 141

Finale



                                 Je voudrais rendre grâce à ce maître en sagesse
                                 Qui ne demandait gue le droit à la paresse.

                                 GEORGES MOUSTAKI



Pochi mesi prima della morte Roland Barthes rilascia un'intervista dal titolo "Osons être paresseux": osiamo essere pigri. È strano: l'autore di Miti d'oggi e Frammenti di un discorso amoroso ha concesso nel corso della sua carriera decine di interviste, e tutte sui temi presenti nei suoi scritti: dall'insorgenza dei mass media all'esperienza del nouveau roman, dalla costruzione della semiologia al piacere del testo, dal cinema d'autore all'amore scandaloso dei nostri giorni, dal ruolo polemico della critica letteraria all'intimità fotografica e così via. Ma lui sulla pigrizia non ha scritto nulla, neanche di passata. Che avrà da dire un intellettuale raffinato come Barthes su un argomento di questo tipo, su un tema così legato alle contraddizioni della modernità occidentale e così lontano - apparentemente - dall'utopia dell'impero dei segni? A leggere domande e risposte, lo si vede subito: parecchio, e in modo assai innovativo. Barthes, si sa, lavora sul crinale di una modernità che è al tramonto, e in vista di una nuova era che è ancora la nostra, di cui egli intravede con sagacia i primi barbagli. Che ne è della pigrizia nell'epoca del post (moderno, industriale, strutturale, coloniale, umano, urbano, mediale, occidentale, esotico...), dove ogni cosa sembra già passata o di là da venire? Le argomentazioni di Barthes ne dicono qualcosa. Seguiamole dunque, in chiusura di questo libro: non a mo' di conclusione ("la bêtise consiste à vouloir conclure", diceva Flaubert) ma di rilancio propositivo. Se la pigrizia ha un futuro - e non è certo -, proviamo a tracciare alcune delle vie che dovrà o potrà percorrere in esso. Anche e soprattutto alla luce di ciò che è stata in passato, delle sue numerose avventure filosofiche, delle storie di cui è stata protagonista. Sarà un modo per tirare le fila del lavoro (!) svolto sin qua.

Ripartiamo dall'inizio, da quella che potremmo chiamare l'ambivalenza della pigrizia: "Ciò che è terribile della pigrizia - dice a un certo punto Barthes - è che può essere la cosa più banale, più stereotipata, meno pensata del mondo, come può essere quella più pensata. Può essere una disposizione ma anche una conquista". In questa doppiezza si intravede il principio di fondo che la giustifica: quello della narratività - che anche noi abbiamo più volte riscontrato nei capitoli precedenti. La pigrizia cambia di senso, e perciò di statuto e di valore, a seconda della congiuntura narrativa in cui viene a trovarsi: può essere una disposizione d'animo, e partecipare con ciò alla costituzione di un'ipotetica competenza del soggetto, oppure può venire collocata alla fine di una storia, ed essere intesa come una conquista, l'esito di una vittoria. Così, nel corso dell'intervista Barthes nomina diverse forme di pigrizia, ne propone quasi una tipologia, avendo sempre in mente, se pure implicitamente, una specie di generale struttura narrativa nella quale inserirle.

Collocando in ordine logico-temporale le varie pigrizie nominate da Barthes, avremo un quadro del genere, dove emergono molte delle figure di inattività che abbiamo incontrato nel corso del libro.

| << |  <  |