Copertina
Autore Piergiorgio Odifreddi
Titolo Il diavolo in cattedra
SottotitoloLa logica da Aristorele a Gödel
EdizioneEinaudi, Torino, 2003, Biblioteca 164 , pag. 300, cop.fle., dim. 136x209x20 mm , Isbn 978-88-06-16721-9
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe logica , storia della scienza , filosofia , matematica
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Indice

 XI Introduzione

    Il diavolo in cattedra

  3 Preludio all'inferno

    Parte prima. Introduzione storico-filosofica

  9 I.  In principio era la Logica
 10     Il reale è razionale
 11     Il razionale è reale
 14 II. La via dell'argomentazione
 14     La dialettica della dialettica
 16     Tu chiamale, se vuoi, emozioni
 18     L'arte di avere torto
 20 III.La via del paradosso
 20     Le gambe di Achille
 23     Il naso di Finocchio
 27 IV. La via della dimostrazione
 28     Odissea nel piano
 29     Il teatro dell'assurdo
 31     Dalla matematica alla filosofia
 33     Discorso sul metodo (assiomatico)
 36 V.  Sei personaggi in cerca d'autore
 36     Un intellettuale organico
 39     Uno stoico simbolico
 41     Un candido visionario
 44     Un inglese calcolatore
 45     Un tedesco sensato e (in)significante
 46     Un austriaco (mica tanto) completo

    Parte seconda. Logica proposizionale

 51 VI. Le divisioni della logica
 51     Le SSS
 53     L'arsenale atomico
 54     I moschettieri
 56     Parata di greche
 60 VII.Le leggi del pensiero
 61     La contraddizion che nol consente
 63     Ex falso quodlibet
 65     Consequentiae
 67     Reductio ad absurdum
 68     Consequentia mirabilis
 72 VIII.Le tavole della legge
 73     Tertium non datur
 74     Comportamenti stoici
 76     Schemi kantiani
 78     Uno per tutti, tutti per uno
 81     Una deduzione metafisica
 84 IX. L'albero della conoscenza*
 85     Sintesi analitiche
 88     Analisi sintetiche
 90     Opposti estremismi
 95     Metalogica
100 X.  Tertium datur*
101     Tanto rumore per nulla
104     Non c'è il due senza il tre
107     Intender non la può chi non la prova
112     Quel che manca non fa danni
114 XI. Fare di necessità virtú*
114     Contingenze storiche
117     Necessità logiche
119     Possibilità metalogiche
125     Implicazioni della modalità

    Parte terza. Logica predicativa

131     Interludio in terra
131     Gli oggetti del desiderio
134     I termini del discorso
137 XII.In principio era il verbo essere
138     Un dilemma amletico
139     A morte Parmenide
141     Il discorso sui termini
145     La molteplicità dell'essere
147 XIII.Qualcuno, nessuno e centomila
147     Signa quantitatis
149     Formule in predicato
151     La qualità della quantità
158 XIV.Archeologia ellenica*
158     L'invasione dei Barbari
160     Graecia capta ferum victorem cepit
164     Le figure del sillogismo
167     Chi non muore si rivede
170     Appendice. I modi validi del sillogismo
172 XV. L'albero della vita*
172     Risposta a Pilato
178     From Frege to Gödel
185     Cime tempestose
189     Problemi d'identità

    Parte quarta. Teorie matematiche
                  del prim'ordine

197 XVI.Relazioni platoniche
197     Una visione d'insieme
203     Cattive intensioni
206     Il paradiso di Cantor
212     Buone estensioni
216 XVII. Rapporti incompleti*
217     Kantata profana
225     I gioielli della corona
227     Egocentrismo logico
232     Ritorno a Pitagora
234     Fine dei sogni
238 XVIII. Perenne indecisione*
239     L'homme machine
241     La machine homme
246     Fermi tutti
247     Anche la Chiesa dice la sua
250     Un piatto al Curry
255 XIX. Rapporti completi, infine
255     Cause invisibili di effetti visibili
258     La grazia non è mai troppa
262     Decisioni reali

    Parte quinta. Oltre il prim'ordine

267 XX. Per aspera ad astra*
267     L'imperativo categorico
271     Incontri ravvicinati del secondo tipo
275     La scala di Giacobbe

281 Postludio in cielo (o quasi)

287 Bibliografia
295 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 9

Capitolo primo

In principio era la Logica


Il ruolo del pensiero e della parola nella creazione delle cose costituisce uno dei temi classici della mitologia. Ad esempio, la Pietra di Shabaka egiziana narra che il mondo è stato concepito nel pensiero e posto in essere dalla parola del dio Ptah, mentre nel Popul Vuh maya sono Tepeu e Gucumatz a creare il mondo unendo il loro pensiero e le loro parole.

In Occidente, la formulazione piú nota dello stesso mito è l'inizio gnostico del Vangelo secondo Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo». Mentre però l'italiano «verbo» è poco espressivo, l'originale greco logos significa anche troppo: in particolare, può essere inteso come «parola», «ragione» o «frazione».

Poiché etimologicamente la logica è lo studio del logos, dai significati appena citati deriva che questo studio si può intraprendere seguendo almeno tre vie, corrispondenti a tre diverse tradizioni: linguistica, filosofica e matematica. Naturalmente, i tre studi vanno intesi in sensi complementari e non contrapposti, come dimostra la loro simultanea compresenza nelle opere di coloro che possono essere considerati, rispettivamente, il fondatore e il rifondatore della logica: Aristotele nei tempi antichi e Frege in quelli moderni. Dedicheremo dunque i prossimi tre capitoli a esaminare da vicino queste tre anime della logica. Prima, però, vogliamo soffermarci brevemente sulla piú generale reinterpretazione dell'inizio del Vangelo secondo Giovanni data da Agostino nelle Confessioni (XI, 8), in accordo con la discussione precedente: «In principio era la Ragione, e la Ragione era presso Dio, e Dio era la Ragione». In altre parole, vogliamo meditare sul ruolo epistemologico e ontologico, cioè di comprensione e creazione, che l'Occidente ha assegnato nel corso dei secoli al logos.


Il reale è razionale.

Il terzo frammento di Parmenide recita testualmente: «Il pensiero e l'essere sono la stessa cosa». Questa professione di fede nella sostanziale identità tra ciò che sta dentro e fuori della nostra testa costituisce la piú profonda giustificazione per lo studio della logica: se pensiero e universo si rispecchiano reciprocamente uno nell'altro, lo scrutinio del primo può infatti pretendere di essere la via regia per raggiungere la comprensione del secondo. Che l'universo esibisca caratteri di razionalità è la grande scoperta, niente affatto ovvia, che sta alla base della scienza: se tutto fosse casuale, la natura sarebbe solo un gioco d'azzardo e la vita una scommessa. Il primo ad aver asserito l'esistenza di una razionalità dell'universo fu forse Pitagora, sulle cui teorie torneremo in seguito, ma furono Anassagora e Platone a coniarne le descrizioni letterariamente piú felici, chiamandola rispettivamente Intelligenza e Anima del mondo.

L'espressione di questa razionalità richiedeva un linguaggio adatto, che fin dall'inizio fu identificato in quello matematico. In particolare, Pitagora predilisse l'aritmetica, Platone la geometria e la logica. La loro visione collettiva trovò l'espressione definitiva nel Timeo: il Demiurgo modella logicamente la materia a partire dal verbo essere e dai predicati di uguaglianza e disuguaglianza (35), dispone aritmeticamente gli astri secondo rapporti numerici corrispondenti alla scala musicale pitagorica (36) e produce geometricamente gli elementi componendo triangoli elementari in solidi platonici (53-56). La concezione pitagorico-platonica di un universo matematico fu fatta propria da Galileo nel Saggiatore (6), uno dei testi che segnarono l'inizio della fisica moderna:

Questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.

Il linguaggio del libro della natura si è rivelato nel corso dei secoli molto piú complesso e variegato di quanto credesse Galileo, e se ne conosce oggi un'enorme varietà di dialetti: dall'analisi infinitesimale alla teoria della probabilità, dal calcolo tensoriale alla teoria dei gruppi. La visione essenziale della razionalità matematica dell'universo è però rimasta essenzialmente immutata, da Newton a Einstein, al punto che oggi nessuna legge di natura viene considerata scientifica se non è espressa mediante una formula matematica e dimostrata mediante un ragionamento logico, oltre che confermata (o, se si vuole, non refutata) da dati sperimentali. Parallelamente, una visione analoga sta alla base anche della filosofia moderna. In un passo cruciale del Discorso sul metodo di Cartesio - un'opera che troppo spesso si dimentica essere stata soltanto un'introduzione a tre saggi di matematica, fisica e cosmologia - si legge infatti (II, 19):

Quelle catene di ragionamenti, lunghe, eppur semplici e facili, di cui i geometri si servono per pervenire alle loro piu difficili dimostrazioni, mi diedero motivo di supporre che nello stesso modo si susseguissero tutte le cose di cui l'uomo può avere conoscenza, e che, ove si faccia attenzione di non accoglierne alcuna per vera quando non lo sia, e si osservi sempre l'ordine necessario per dedurre le une dalle altre, non ce ne fossero di cosí nascoste che non si potessero scoprire.

Pur non ricevendo un'accoglienza universale e assoluta come nella scienza, l'ideale di perfezione logico-geometrica proposto da Cartesio alla filosofia ha concepito incarnazioni memorabili, dall' Ethica ordine geometrico demonstrata di Spinoza al Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein: un'opera, quest'ultima, che asserisce l'esistenza di un sostanziale isomorfismo tra linguaggio, pensiero e mondo, ed effettua dunque un'ideale chiusura del cerchio aperto dal frammento di Parmenide.


Il razionale è reale.

Se la filosofia non ha raggiunto un accordo sul proprio metodo analogo a quello che caratterizza la scienza, lo si deve soltanto al fatto che è stato lo stesso concetto di razionalità a rivelarsi piú complesso del previsto: la razionalità del reale costituisce infatti la faccia visibile del logos, ma ne esiste anche una faccia nascosta la cui visione disvela la realtà del razionale, secondo il noto aforisma di Hegel.

La giustificazione teorica dell'esistenza degli enti di ragione sta nell'osservazione che ci sono verità che si possono conoscere con il solo pensiero: altrimenti, «non ci sono verità che si possono conoscere con il solo pensiero» sarebbe già una verità che si può conoscere con il solo pensiero. Questo argomento, un'applicazione della cosiddetta consequentia mirabilis che analizzeremo in seguito, mostra che la sola logica è sufficiente a dedurre l'esistenza di verità indipendenti dall'esperienza, e costituisce il punto di partenza di un'indagine conoscitiva complementare alla scienza. I primi risultati di questa indagine risalgono alle due scuole che si formarono in Grecia alla morte di Socrate: la platonica e la megarica. La prima sollevò un lembo del grande velo che nasconde il mondo delle idee: velo che fu poi squarciato a fine Ottocento dalla teoria degli insiemi di Cantor, sulla quale torneremo a tempo debito. La seconda scuola coniò invece il motto: «Ciò che è possibile si realizza», che suggerisce la necessità di estendere l'attenzione dalla contingenza degli oggetti alla possibilità dei concetti.

La rilevanza di queste posizioni è evidente per la teologia, uno dei cui obiettivi cruciali è appunto la giustificazione dell'esistenza di un ente presente soltanto al puro pensiero. In Oriente i buddhisti Dignaga e Dharmakirti usarono la logica a fini teologici fin dai secoli VI e VII, assegnando a Buddha il titolo di Pramana-bhuta, «Logica incarnata», e proponendo prove dell'esistenza di un essere assoluto nel Pramana-vartika, «Compendio di logica». In Occidente la scolastica medioevale procedette su vie parallele, dal programmatico motto intelligo ut credam, «capisco per credere», di Abelardo, alle prove dell'esistenza di Dio fornite da Anselmo d'Aosta nel Proslogion e Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae. Altrettanto evidente è la rilevanza del logos per la matematica, che deve rendere conto dell'apparente oggettività degli enti astratti di cui essa tratta. L'autonomia e l'indipendenza che gli oggetti matematici manifestano nell'esperienza della quasi totalità degli addetti ai lavori, cosi come la sostanziale univocità e universalità di questa esperienza, sembrano infatti difficilmente spiegabili senza postulare un'esistenza indipendente di quegli stessi enti.

Non a caso questa posizione, detta platonismo, costituisce la filosofia della maggioranza silenziosa dei matematici. Meno evidente sembrerebbe invece essere la rilevanza del logos per la scienza, che a prima vista appare basata piú su induzioni a posteriori che su deduzioni a priori. Cosí non era, però, per la scienza greca, che al contrario di quella moderna sembrava interessarsi piú di come le cose dovrebbero essere che non di come sono effettivamente. Cosi non è neppure per una parte eccellente della scienza contemporanea, dalla relatività generale di Einstein alla meccanica quantistica relativistica di Dirac, i cui risultati epocali sono stati ottenuti con analisi puramente logiche, ispirate da considerazioni metafisiche sulla natura ed estetiche sulla matematica. E cosi non sarà, soprattutto, per le grandi unificazioni della scienza del futuro, che dovranno rendere conto di eventi relativi a livelli di energia dimostrabilmente inaccessibili a qualunque verifica sperimentale. Anche nella scienza il logos ha dunque una sua funzione e costituisce la sola speranza per la conoscenza del reale nel momento in cui vengono meno gli strumenti sensibili. Per quanto possa apparire irragionevole, l'efficacia della logica offre l'ultima ancora di salvezza al sapere, e si fonda sulla constatazione che tutto ciò che possiamo conoscere dell'universo deve comunque adattarsi al nostro pensiero e trovare spazio nella nostra testa, secondo il motto dell'Amleto: «Vivere nel guscio di una noce, ma sentirsi re d'uno spazio infinito».

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Pagina 36

Capitolo quinto

Sei personaggi in cerca d'autore


Percorrendo le tre vie (linguistica, filosofica e matematica) a cui abbiamo brevemente accennato, la logica si è sviluppata nel corso di piú di due millenni come una grande impresa collettiva, che ha coinvolto una moltitudine di pensatori, grandi e piccoli. Prima di passare a descrivere in maniera impersonale questo sviluppo, ci soffermiamo brevemente sulle personalità piú significative: i visionari, cioè, che hanno indicato le strade maestre lungo le quali si è proceduto con successo.


Un intellettuale organico.

Il padre fondatore della logica come disciplina autonoma, come lui stesso afferma orgogliosamente nelle Confutazioni (183b-184a), è Aristotele, che visse nel periodo fra la Novantanovesima e la Centoquindicesima Olimpiade: tradotto in termini meno sportivi, fra il 384 e il 321 a.C.

A diciassette anni entrò all'Accademia, la scuola che Platone aveva fondato nel 387 in seguito ad avvenimenti che meritano di essere ricordati. Platone, andato in Sicilia per visitare i pitagorici, aveva infatti indisposto il tiranno di Siracusa con le sue posizioni politiche, finendo venduto come schiavo. Un amico aveva radunato i soldi del riscatto, che fu però cancellato quando si venne a sapere di chi si trattava. La somma raccolta fu usata al ritorno del filosofo per fondare una scuola nel parco dedicato all'eroe Accademo, da cui prese il nome.

Aristotele rimase all'Accademia per vent'anni, sperando forse di ereditare la cattedra di Platone. Cosa poco probabile, tuttavia, visto che il maestro si era lamentato dicendo: «Aristotele mi ha calpestato come i puledri calpestano la cavalla dopo essere stati partoriti». Dopo la morte di Platone nel 347, Aristotele se ne andò da Atene. Grazie alle conoscenze del padre, che era medico e amico del re, nel 342 fu chiamato alla corte macedone come tutore di Alessandro, al quale inculcò la cultura greca.

Quando il pupillo sali al trono nel 335, il maestro tornò ad Atene e poté aprire una sua scuola: questa volta nei giardini dedicati ad Apollo Lykeios, «luparo» o «che protegge dai lupi», da cui il nome di Liceo. Piú che di un odierno liceo si trattava però di una vera e propria università, con duemila studenti che vivevano nel campus, un'enorme biblioteca che divenne il modello di quella di Alessandria, e dipartimenti di ogni genere, sia scientifici (logica, matematica, fisica, biologia, medicina, zoologia, agraria) sia umanistici (filosofia, filologia, politica). Aristotele riservò per sé il rettorato dell'università, e affidò la direzione dei vari dipartimenti ai suoi migliori allievi.

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Un candido visionario.

«L'effimera sottigliezza scolastica» (come la chiamò Kant) non aggiunse molto alle scoperte greche, per lo meno dal punto di vista della logica matematica: al piú, contribui a riscoprire ciò che era stato dimenticato. Simbolo della schola fu Pietro Abelardo, evirato nel 1119 a causa dell'amore passionale di Eloisa, condannato al rogo dei libri dal concilio di Soissons nel 1121, scomunicato nel 1140 per effetto dell'odio mistico di Bernardo di Chiaravalle e ricordato nel suo epitaffio sepolcrale come «il Socrate delle Gallie, il grandissimo Platone d'Occidente, il nostro Aristotele, superiore o uguale a tutti i logici che siano mai vissuti».

Nonostante queste esagerate affermazioni, un logico della levatura di Aristotele e Crisippo non rinacque fino al 1646, quando venne alla luce Gottfried Wilhelm Leibniz: con la scienza infusa, evidentemente, visto che nella Dissertatio de Arte Combinatoria anticipò, a soli vent'anni, il metodo di aritmetizzazione, oggi una delle tecniche fondamentali della moderna logica matematica.

A dieci anni la lettura di Aristotele e la scoperta della sillogistica lo avevano salvato da una carriera di poeta latino, una lingua che aveva imparato da solo a sei anni leggendo Tito Livio: la regola di evitare i classici non si addice ai geni. A quindici anni si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza e a vent'anni aveva già pubblicato una tesi di laurea su questioni di filosofia del diritto e una tesi di dottorato sulle antinomie giuridiche, i casi cioè in cui la legge permette di dar ragione a entrambe le parti. Quest'ultima tesi proponeva, come possibili soluzioni, verdetti di indecidibilità e salomoniche decisioni casuali, dopo un appropriato tiro di monetina.

Arruolato immediatamente al servizio del Grande Elettore di Mainz, Leibniz ricevette come primo incarico la redazione di una memoria sull'elezione del re di Polonia. Dopo mesi di lavoro produsse un testo di 360 pagine in forma assiomatica intitolato Modello di dimostrazioni politiche per eleggere il re di Polonia, in cui dapprima veniva dimostrata l'ineleggibilità di tutti i candidati meno uno, e poi venivano date venticinque dimostrazioni diverse della necessità di eleggere l'unico rimasto: che, per un caso fortunato, era anche quello proposto dal datore di lavoro di Leibniz. Per un caso sfortunato, però, il lavoro fu finito di stampare troppo tardi e non evitò l'elezione di un ineleggibile.

[...]

Proprio la logica fu il centro della sua filosofia, al punto che la sua metafisica è stata da qualcuno definita un panlogismo. L'idea essenziale è che ci sono due tipi di verità: quelle di ragione, necessarie, e quelle di fatto, contingenti. Tutte le verità di entrambi i tipi possono essere provate logicamente, ma con dimostrazioni sostanzialmente diverse: finite le prime, la cui ragion necessaria è alla portata delle nostre menti, e infinite le seconde, la cui ragion sufficiente può essere percepita compiutamente solo da Dio.

Mentre le verità di ragione sono vere in tutti i mondi possibili, quelle di fatto sono vere solo nel nostro, che è il migliore dei mondi possibili: se la cosa non ci appare cosi evidente, è proprio perché non siamo in grado di cogliere il punto di vista di Dio. In particolare non lo fu Voltaire, che mise alla berlina questa idea nel Candide, il «diabolico libretto» che costitui il maggior successo editoriale del Settecento, in cui il dottor Pangloss incarna in maniera caricaturale questo aspetto della filosofia leibniziana.

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Pagina 45

Un tedesco sensato e (in)significante.

Il saggio al quale toccò realizzare la seconda parte del sogno di Leibniz fu Gottlob Frege, uno schivo professore di Jena vissuto fra il 1848 e il 1925, che nel 1879 pubblicò un'opera quale non se ne erano viste da due millenni: l' Ideografia. Un linguaggio in formule del pensiero puro a imitazione di quello aritmetico.

Il primo risultato di Frege fu appunto quello descritto dal titolo del suo libro: la creazione di quella characteristica universalis che, come aveva anticipato Leibniz, sarebbe diventata un misto di formule algebriche e ideogrammi cinesi. Il secondo risultato fu, se possibile, ancora piu importante: mostrò che era possibile superare i confini della logica proposizionale e sillogistica, dai quali neppure Boole era uscito, sviluppando un sistema di assiomi e regole per la logica predicativa.

Frege si lagnò in seguito che questo suo epocale libro non ricevette attenzione da nessuno. Non dai matematici, i quali appena incontrano espressioni come «concetto», «relazione» o «giudizio», fuggono dicendo: Metaphysica sunt, non leguntur. E neppure dai filosofi, i quali appena vedono una formula ribattono analogamente: Mathematica sunt, non leguntur. Naturalmente, non aiutò per nulla il fatto che il simbolismo scelto da Frege fosse oggettivamente indisponente: oggi se ne usa uno molto piu snello, sviluppato sostanzialmente da Giuseppe Peano.

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Pagina 47

Un austriaco (mica tanto) completo.

Se il merito di Boole e Frege è quello di aver descritto matematicamente le potenzialità della logica, Kurt Gödel è passato alla storia per aver dimostrato logicamente le limitazioni della matematica.

Nato nel 1906 in Moravia, che allora era austroungarica e in seguito divenne cecoslovacca, da bambino Gödel fu tanto curioso da meritarsi l'appellativo di Herr Warum, «Signor Perché». A sei anni ebbe una febbre reumatica da cui secondo i medici guarí perfettamente, ma che secondo lui gli lasciò una lesione permanente al cuore: nacquero cosi, simultaneamente, l'ipocondria e la sfiducia nei medici che Gödel coltivò per tutta la vita. Oltre alle malattie fisiche immaginarie ne ebbe comunque anche di mentali ben reali, e finí internato a piú riprese in ospedali psichiatrici.

Entrato all'Università di Vienna nel 1925, fu immediatamente catturato nell'orbita di Moritz Schlick, il filosofo della scienza attorno a cui ruotava il cosiddetto Circolo di Vienna. Gödel frequentò sia le riunioni nelle quali prese forma il positivismo logico, sia le lezioni di Rudolf Carnap dalle quali nacquero La sintassi logica del linguaggio e La costruzione logica del mondo.

Non si lasciò però fuorviare dalla filosofia, e preferí invece affrontare alcuni problemi matematici proposti da David Hilbert. Anzitutto, indagò se fosse possibile estendere la logica predicativa di Frege, che a sua volta aveva esteso la sillogistica di Aristotele. Nella sua tesi di laurea del 1929 Gödel ottenne il suo primo grande risultato, dando una risposta negativa: il sistema di Frege era completo e non ammetteva ulteriori estensioni.

Subito dopo Gödel affrontò un altro problema di Hilbert: se fosse cioè possibile assicurarsi contro le brutte sorprese, dimostrando che negli usuali sistemi matematici non era possibile derivare contraddizioni come quella che Russell aveva scovato nel sistema di Frege. Nella sua tesi di dottorato del 1931 Gödel ottenne il suo secondo grande risultato, dando ancora una volta una risposta negativa: nessun sistema matematico sufficientemente complesso può dimostrare di non essere contraddittorio, e deve cercare all'esterno le assicurazioni della propria consistenza.

[...]

Come dimostra il fatto che oggi il suo nome si nomina troppo spesso invano, Gödel è stato un Dio della logica. Volendolo paragonare a qualche grande del passato, viene anzitutto in mente Gauss, il principe dei matematici: entrambi pubblicarono col contagocce, secondo il motto pauca sed matura, «poco ma bene», e tennero nel cassetto risultati che avrebbero inorgoglito chiunque altro. Se il paragone piú scontato è con Aristotele, quello piú appropriato è con Archimede: nessuno dei due creò infatti la propria disciplina, ma entrambi la cambiarono per sempre con i propri risultati, riuscendo a raggiungere profondità apparentemente insondabili.

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Capitolo sesto

Le divisioni della Logica


Completati i preliminari relativi alle origini oggettive e soggettive della logica passiamo ora in rassegna le sue truppe, in attesa di lanciarle all'attacco nei capitoli seguenti. Dedichiamo cioè questo capitolo a rispondere alla parafrasi della domanda che Stalin fece sul Papa e il Vaticano: «Quante divisioni ha la logica matematica?».


Le SSS.

L'analisi logica di una frase ne separa tre aspetti complementari: l' enunciato linguistico, il giudizio mentale e la proposizione cognitiva. Sui tre fronti coinvolti, che sono il linguaggio, il pensiero e il mondo, la logica schiera le sue tre divisioni: la semiotica, la sintassi e la semantica, che arruolano rispettivamente i segni, i sensi e i significati, determinandone in particolare le condizioni di correttezza grammaticale, validità formale e verità sostanziale.

Il termine semiotica, «scienza dei segni», fu adottato per la prima volta nel secolo II d. C. da Galeno, la massima autorità medica dell'antichità, per indicare lo studio dei sintomi. L'estensione del termine alla logica fu invece effettuata da Locke alla fine del Saggio sull'intelletto umano (IV, 21):

La terza branca della scienza dell'intelletto si chiama semiotica, o dottrina dei segni. Poiché i piú comuni di essi sono le parole, la si chiama appropriatamente anche logica: il suo scopo è considerare la natura dei segni che la mente usa per capire le cose, o trasmettere la propria conoscenza ad altri. Infatti, poiché delle cose che la mente contempla nessuna, a parte la mente stessa, è direttamente presente alla comprensione, qualcos'altro deve essere presente a essa, come un segno o una rappresentazione delle cose considerate.

Noi ci atterremo a quest'accezione, benché oggi la semiotica sia principalmente intesa come scienza della semiosi, cioè del processo mediante il quale i segni svolgono la loro funzione di segni.

La sintassi, «ordinamento» o «sistema», era intesa, in origine, nel senso di un generale ordinamento di parti: ad esempio, Crisippo chiamava «sintassi del tutto» il destino del mondo. Oggi è, piú semplicemente, l'insieme delle regole che determinano la validità di un giudizio sulla base della sua sola forma.

La semantica, «scienza del significato», infine, è l'insieme delle regole che determinano la verità di una proposizione sulla base del rapporto fra i segni e gli oggetti ai quali essi si riferiscono. Il termine fu introdotto già da Aristotele, ma il suo uso moderno per indicare una specifica disciplina risale al Saggio di semantica, scienza dei significati di Michel Bréal, del 1897.

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Capitolo ottavo

Le tavole della legge

Nel capitolo precedente abbiamo determinato la validità di alcuni assiomi e regole della logica proposizionale, usando soltanto considerazioni intuitive. Questo procedimento è però troppo laborioso, e simile piu a un'arte che a una scienza. In particolare, non fornisce alcun metodo generale per determinare la validità di formule arbitrarie.

Per raggiungere l'obiettivo ci manca ancora un ingrediente essenziale: una definizione esplicita del comportamento di ciascun connettivo, che si può dare in maniera sia semantica che sintattica. Percorreremo la seconda via nel prossimo capitolo, mentre in questo affrontiamo la prima. Č giunto, cioè, il momento di parlare esplicitamente dei significati delle proposizioni, che secondo la terminologia di Frege vengono chiamati valori di verità.

E a proposito della verità, che è ovviamente l'argomento centrale della logica, notiamo di passaggio che essa si chiamava in greco aletheia, «non dimenticanza» (si ricordi il dantesco fiume Leté, «là dove vanno l'anime a lavarsi quando la colpa pentuta è rimossa», Inferno, XIV, 136-37). Per i Greci la verità era dunque un concetto negativo, che si potrebbe tradurre con «disvelamento», «rivelazione» o «scoperta», tutti termini che indicano il sollevamento dei veli o delle coperte che nascondono la realtà producendo un falsum, un «inganno».

La veritas latina, invece, non significa «disinganno». La parola ha un'origine completamente diversa, di natura giuridica: essa indicava ciò che veniva stabilito con un verdictum, un «verdetto», e che andava dunque accettato sulla parola del giudice. E poiché il diritto aveva un'origine divina, verità era «ciò che è degno di fede» e si può credere, un significato che si è mantenuto fino a oggi nella parola «vera», che sia in italiano che in russo significa ancora «fede» (in un caso matrimoniale, nell'altro religiosa).

Č proprio l'ambiguità della traduzione di aletheia con veritas, a partire da Cicerone, che ha generato una confusione che dura tuttora: l'illusione cioè che ci siano due tipi di verità e che si possa parlare sensatamente di «verità di fede» e «verità di ragione». Un'illusione che, si spera, lo studio della logica possa contribuire a scalzare, dando a Dio ciò che è di Dio (la fede) e al Diavolo ciò che è del Diavolo (la ragione).

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Pagina 100

Capitolo decimo

Tertium datur*

La restrizione a due soli valori di verità impone alla logica classica una rigidità manichea in cui tutto risulta bianco o nero, cioè vero o falso. Il grande vantaggio è che le cose si semplificano enormemente; ma si tratta, come disse Russell, del vantaggio del furto nei confronti del lavoro onesto. La semplificazione si ottiene infatti al caro prezzo dell'appiattimento dell'analisi logica su due soli connettivi: la negazione e la congiunzione. In particolare, la definizione vero-funzionale dell'implicazione la riduce a una parodia del ragionamento che potrà anche andare bene per una dialettica grossolana, ma non certo per una filosofia o una matematica raffinate. Il che non significa, naturalmente, che i ragionamenti della pratica filosofica o matematica non siano veri classicamente; piuttosto significa che molti lo sono anche in sensi piú profondi, che la logica classica non è in grado di descrivere.

In questo rispetto la logica classica è simile alla meccanica newtoniana: entrambe descrivono situazioni drasticamente semplificate, che costituiscono solo prime approssimazioni di realtà enormemente piú complesse. Voler affrontare immediatamente la complessità e cercare di ottenere tutto subito sarebbe stato pretenzioso e prematuro, oltre che quasi sicuramente votato all'insuccesso: come già ammoniva Platone nel Sofista (218d), «prima di affrontare i problemi grandi e difficili, bisogna risolvere quelli piccoli e facili» (un ammonimento che la filosofia, contrariamente alla scienza, ha spesso dimenticato). Ma affezionarsi alla semplicità e ostinarsi a non guardare al di là del proprio naso è infantile e anacronistico. Una volta comprese le situazioni semplici arriva il momento di andare avanti e passare ad altre piú complesse, in un processo graduale di approfondimento che solo gli ingenui possono credere debba necessariamente arrivare a una fine.

Come l'estensione relativistica della meccanica newtoniana si ottiene considerando velocità trascurate, vicine a quelle della luce, cosí possibili estensioni della logica classica si ottengono considerando valori di verità trascurati, diversi da vero e falso. Purtroppo, parte della difficoltà dell'estensione deriva dal fatto che, mentre la logica classica, come diceva Gadda, «è una e non tentenna», le logiche non classiche sono tante. Anzi, decisamente troppe. Per evitare di confondere le idee al lettore ci limiteremo dunque a menzionarne alcune delle piú popolari, confessando in anticipo il carattere riduttivo della scelta.

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Pagina 114

Capitolo undicesimo

Fare di necessità virtú*


Le logiche a piú valori e la logica intuizionista estendono la logica classica, assegnando interpretazioni non classiche a disgiunzione e implicazione. Un'estensione alternativa consiste invece nell'introdurre nuovi connettivi, non definibili in maniera vero-funzionale a partire da negazione e congiunzione. In altre parole, invece di considerare valori di verità trascurati, si considerano connettivi trascurati: precisamente, «necessario» e «possibile».


Contingenze storiche.

Aristotele spiega la possibilità o necessità di un trattamento logico delle nozioni di possibilità e necessità negli Analitici Primi (I, 29b):

Poiché c'è una differenza tra essere, dover essere e poter essere (perché molte cose sono senza dover essere, e altre possono essere ma né sono né debbono essere), è chiaro che ci saranno sillogismi in tutti questi casi, e che i termini non saranno collegati nello stesso modo, bensi in un caso le premesse asseriranno un'attualità, in un altro una necessità, e in un altro ancora una possibilità.

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Pagina 131

Interludio in terra


Finora ci siamo limitati all'analisi delle proposizioni composte, ottenute attraverso i connettivi, e abbiamo rimosso le proposizioni atomiche dietro la finzione delle lettere proposizionali. E però giunta l'ora di tornare coi piedi per terra e lasciar cadere il paravento che nasconde la struttura piú profonda delle proposizioni atomiche.

L'analisi logica riduce le piú semplici proposizioni del linguaggio alla struttura «oggetto-predicato», dove per «oggetto» si intende qualunque cosa che fa parte del mondo, e per «predicato» qualunque modo di pensare a oggetti (attraverso aggettivi e verbi che ne descrivono proprietà e azioni). Piú concisamente, per dirla con Fichte, gli oggetti sono dati (materialt) e i predicati sono posizioni (mentali). Agli oggetti dedicheremo questo capitolo, e ai predicati il prossimo.

Prima di affrontare gli aspetti logici della struttura «oggetto-predicato», vale comunque la pena di accennare al fatto che essa si basa quasi certamente su un substrato biologico. Sembra infatti che i bambini che iniziano a parlare rivelino una predisposizione a distinguere gli agenti dalle azioni e i nomi dai verbi. Inoltre, sia ontogeneticamente che filogeneticamente, gli agenti sembrano essere piú «naturali» delle azioni: i bambini piccoli imparano prevalentemente nomi comuni piuttosto che verbi, e le lingue parlate hanno in genere molti piú sostantivi che verbi.

Per ridurre (per ora) tutto a un motto, potremmo dire che per i bambini, così come per Parmenide e il Vedanta, «in principio era il nome», nel senso dell'oggetto, mentre per Eraclito, il Buddhismo e Goethe (Faust, I,1237), «in principio era il verbo», nel senso dell'azione.


Gli oggetti del desiderio.

Nella logica proposizionale il legame fra sintassi e semantica, cioè fra linguaggio e mondo, era talmente sfumato da apparire quasi evanescente. Gli unici «oggetti» di cui tratta la logica proposizionale sono infatti i valori di verità, che a rigore non appartengono affatto al mondo materiale, bensi a quello delle idee.

Il linguaggio naturale, invece, parla continuamente degli oggetti del mondo reale. Anzi, poiché proprio in questo risiede la sua funzione primaria da un punto di vista evolutivo, il linguaggio ha sviluppato una serie di categorie che gli permettono di riferirsi agli oggetti: direttamente attraverso i nomi, e indirettamente attraverso le descrizioni. A seconda che si riferiscano a individui isolati o a gruppi di individui, quali le specie o i generi, i nomi sono poi classificati in propri o comuni. Ad esempio, «Socrate» è un nome proprio, «filosofo» è un nome comune e «maestro di Platone» è una descrizione.

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Pagina 137

Capitolo dodicesimo

In principio era il verbo essere


Il verbo essere è certamente la piu importante e complessa parte del linguaggio, o almeno di ciò che si intende per linguaggio in Occidente. Non può dunque stupire che il suo studio costituisca una parte essenziale della logica, o almeno di ciò che si intende per logica in Occidente, e che la sua ignoranza stia alla base di epocali cantonate che hanno preso molti filosofi.

Per non parlare dei teologi, i quali hanno avuto il loro daffare con il famoso pronunciamento ehyeh asher ehyeh che l' Esodo (III, 14) attribuisce a Dio stesso, e che a seconda dei casi essi traducono come «Io sono ciò (o colui) che è», «Io sono ciò (o colui) che sono», «Io sono ciò (o colui) che sarò», «Io sarò ciò (o colui) che sarò», e cosí via, e interpretano come «Io sono immutabile», «Io sono eterno», «Io ci sarò sempre», «Io sono in divenire», «Io non ci sono ancora», e cosí sia.

Naturalmente, non sono stati soltanto gli ebrei ad assegnare valenze teologiche al verbo essere. Anche Platone, nel suo esoterico dialogo Timeo, descrive una costruzione logica del mondo a partire dall'Essere, dall'Identico e dal Diverso (35). Quanto ai tempi del verbo essere, egli nota che solo il presente si addice all'eterno: passato e futuro sono riservati alle cose temporali, e il tempo è un'immagine mobile dell'eternità o del presente (37-38).

Senza voler naturalmente competere con grandiose e inconcludenti cosmogonie, bibliche o platoniche, questo capitolo affronterà, piu modestamente ma piu concretamente, alcuni aspetti linguistici e logici del verbo essere. Cercando, in particolare, di dipanare l'arruffato gomitolo di accezioni che si nasconde dietro di esso, e di dissipare la confusione che sta alla base dei deliri che vengono spesso spacciati sotto il nome di «filosofia dell'essere».


Un dilemma amletico.

Nel VI secolo a.C. Parmenide produsse un argomento logico a prima vista sconcertante, che suona cosi. Per sua stessa definizione, il non-essere non è niente. D'altra parte, il non-essere è qualcosa: appunto, il non-essere. Ma non si può, allo stesso tempo, non essere niente ed essere qualcosa. Dunque il non-essere non è. Fine dell'argomento.

L'essenza del ragionamento di Parmenide consiste nell'equilibrismo semantico che fa passare dall'affermazione di una negazione, cioè «essere il non-essere», alla negazione di un'affermazione, cioè «non essere l'essere», e dunque «non essere niente». Per strano che possa sembrare, però, questo non è affatto un errore. Anzi, è semplicemente la definizione di verità della negazione, che abbiamo già usata nella logica proposizionale, e che continueremo a usare in quella predicativa.

In altre parole, l'argomento non è un paradosso ma una dimostrazione: il problema è capire di quale teorema si tratti, e in questo Parmenide prese un tremendo abbaglio. Confondendo infatti la sintassi con la metafisica, egli credette di aver dimostrato la contraddittorietà del non-essere come entità: una ipostatizzazione del linguaggio che costituí il peccato originale della filosofia occidentale, ed ebbe come effetto immediato quello di impedire per due millenni lo sviluppo di una concezione occidentale dello zero in matematica e del vuoto in fisica.

Non bisogna comunque essere troppo severi con Parmenide, perché la sua riflessione non era probabilmente altro che un tentativo di penetrare l'essenza degli avvenimenti linguistici che stavano avvenendo nella lingua greca. C'era, da un lato, una progressiva presa di coscienza dei vari significati del verbo essere, complicata dall'introduzione di un suo uso esplicito come copula, che era fino ad allora sottointesa nelle frasi nominali. E si verificava, dall'altro lato, una progressiva confluenza di due tipi diversi di negazioni del verbo (il controaffermativo ou per i modi oggettivi o attuali, e il proibitivo me per i modi soggettivi o potenziali) in uno solo.

Poiché il problema del non-essere era di natura linguistica, anche la soluzione di Parmenide avrebbe dovuto essere interpretata linguisticamente: in altre parole, come una dimostrazione non della contraddittorietà del non-essere come entità, ma dell' inconsistenza o inconcludenza dell'esistenza come predicato. Se la filosofia avesse preso questa strada, non avrebbe per secoli scambiato le difficoltà del linguaggio per problemi metafisici, e avrebbe potuto dire, alla maniera di Duchamp, che in metafisica non ci sono soluzioni, perché non ci sono problemi. O meglio, i problemi stanno nel linguaggio, e le soluzioni non sono altro che le sue peculiarità. Il che avrebbe permesso di annettere ai discorsi sul nulla tutti i discorsi metafisici, compresi quelli sul nulla.

Ma a questa conclusione, temporanea come ogni altra in filosofia, si è arrivati soltanto recentemente. Prima di allora, e nonostante la buona volontà di Parmenide, il non-essere non finí comunque nel cestino dei rifiuti della storia filosofica. In particolare, già nel secolo V a.C. il sofista Gorgia proponeva, nell'opera Sul non-essere, un nichilismo radicale a tutti i livelli (realtà, conoscenza e linguaggio): «Niente è. Se anche fosse, sarebbe incomprensibile. E se anche fosse comprensibile, sarebbe indicibile».

Le vicissitudini dell'essere assoluto di Parmenide e del non-essere assoluto di Gorgia, che estendono le loro ramificazioni sino alla filosofia del Novecento, da Heidegger a Severino, non hanno però apportato niente di significativo alla logica: abbandoniamole dunque alloro «destino», per seguire un altro percorso.

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Pagina 216

Capitolo diciassettesimo

Rapporti incompleti*


Succede raramente che un teorema evada dal ristretto ambito dei libri di matematica per rifugiarsi nel piu vasto mondo della cultura: gli esempi si contano sulla punta delle dita, e forse il piu significativo è il teorema di Gödel. Tra le sue citazioni piu improbabili possiamo infatti ricordare il Secondo Concerto per Violino di Hans Werner Henze, la poesia Hommage à Gödel di Hans Magnus Enzensberger, il film Genio per amore di Fred Schepisi, la collezione di puzzle Perennemente indeciso di Raymond Smullyan, e un'intera serie di romanzi di fantascienza: Golem XIV di Stanislav Lem, Software di Rudy Rucker, La macchina della realtà di William Gibson e Bruce Sterling, Einstein perduto di Samuel Delany, e chi piu ne ha piu ne metta.

Parte del fascino del teorema sta nelle estrapolazioni, piu o meno arbitrarie, che ne sono state fatte, soprattutto nel dibattito sull'Intelligenza Artificiale: a favore, come in Gödel, Escher, Bach di Douglas Hofstadter, o contro, come in La mente nuova dell'Imperatore di Roger Penrose. Umoristici abusi del teorema sono riportati in un apposito capitolo di Imposture intellettuali di Alan Sokal e Jean Bricmont: ad esempio, un tal Régis Debray ha sostenuto che l'incompletezza dell'aritmetica permette di spiegare «perché bisognava mummificare Lenin ed esporlo in un mausoleo». Insomma, il nome del povero logico è stato tanto spesso invocato invano, da far esclamare a qualcuno: «Non se ne può piu, di questo Gödel».

Lasciando da parte le esagerazioni, bisogna comunque riconoscere che un teorema che tratta dell'impossibilità di dimostrare teoremi è una tipica espressione culturale del Novecento, un secolo che ha visto artisti di ogni genere descrivere le limitazioni di espressione del proprio mezzo mediante il mezzo stesso. Come esempi, valgano fra tutti Sei personaggi in cerca di autore di Luigi Pirandello in letteratura, 8 e 1/2 di Federico Fellini nel cinema, 4'33" di John Cage in musica e le tele monocrome di Yves Klein in pittura.

Poiché il fenomeno culturale legato al teorema di Gödel è complesso, per dipanare l'aggrovigliata matassa di fatti e finzioni a esso relativi sarà necessario muoversi con circospezione. Prima di affrontare gli aspetti tecnici introdurremo dunque alcune metafore e anticipazioni, che permettono di inquadrare il problema e la sua soluzione in contesti che sono, allo stesso tempo, piu semplici e piu ampi.

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