Autore Giulio Passerini
Titolo Nemici di penna
SottotitoloInsulti e litigi dal mondo dei libri
EdizioneBibliografica, Milano, 2014, i libri di Wuz , pag. 96, cop.fle., dim. 10,4x17x0,7 cm , Isbn 978-88-7075-762-0
LettoreGiorgia Pezzali, 2014
Classe libri , storia letteraria









 

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Indice


Caro amico ti scrivo, così ti distruggo un po'              05

Truman Capote VS Jack Kerouac                               10
William Faulkner VS Ernest Hemingway                        13
Jonathan Franzen VS Philip Roth                             16
Gustave Flaubert VS George Sand                             19
Tom Wolfe VS i tre Marmittoni                               22

Gabriel García Márquez VS Mario Vargas Llosa                25
Salman Rushdie VS John Le Carré                             29
Paulo Coelho VS James Joyce                                 33
Bolaņo VS Pérez Reverte e Isabel Allende                    35
Walt Disney VS Pamela Lyndon Travers                        38

Norman Mailer VS Gore Vidal                                 40
Jennifer Egan VS Jennifer Weiner                            45
Umberto Eco VS Ken Follett                                  49
Bret Easton Ellis VS il fantasma di David Foster Wallace    51
Eduard Limonov VS Fëdor Dostoevskij                         55

George Bernard Shaw VS William Shakespeare                  58
V.S. Naipaul VS Paul Theroux                                61
Mark Twain VS Jane Austen                                   64
Gore Vidal VS Truman Capote                                 67
Gertrude Stein VS Ezra Pound                                70

Antonia Byatt VS Margaret Drabble                           73
Gabriele D'Annunzio VS Filippo Tommaso Marinetti            77
Vladimir Nabokov VS Fëdor Dostoevskij e molti altri         80
Stephen King VS James Patterson                             84
Michel Houellebecq VS sua madre                             86

Conclusioni                                                 90
Ringraziamenti                                              92



 

 

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Pagina 5

Caro amico ti scrivo, così ti distruggo un po'


                                    «L'unico scrittore buono è quello morto»
                                                               Marco Rossari

                                              «Lei è un cretino, s'informi!»
                                                                        Totò



Sapete come si dice, no? Verba volant, scripta manent: quando cominciano a volare parole grosse niente di meglio di un bell'insulto scritto per colpire e far male. E chi meglio di un artigiano delle parole potrebbe comporre i migliori insulti che abbiate mai sentito? Tutto è pronto signore e signori, benvenuti. State per assistere, su queste pagine, ad alcuni dei duelli più celebri della storia della letteratura. I più grandi scrittori di sempre si sfideranno per difendere il proprio onore, la propria donna, i propri scritti e per i motivi più futili e ridicoli fra cui anche la sessualità di un cane. Ma prima di dare inizio allo spettacolo torniamo per un attimo ai fondamentali dell'insulto.

Le tecniche di attacco e difesa personale elaborate nell'antichità nell'estremo oriente prendono il nome di "arti" marziali. Secondo il letterato cinese Liang Shiqiu, anche l'insulto è una di queste e fra le più nobili per giunta. Proprio come il Judo o il Karate, il suo esercizio è sottomesso allo studio di una dottrina e solo successivamente alla sua messa in pratica. L'attacco implacabile e la frase esatta sono infatti frutto di studio e non di semplice esercizio. Non è proprio dell'arte dell'insulto invece nascere dalla disciplina.

Le discipline artistiche come la danza o la ginnastica, infatti, si fondano sulla pratica piuttosto che sulla teoria in quanto è solo attraverso la ripetizione sempre identica di un movimento che si potrà acquisire la naturalezza necessaria per giungere alla perfezione. Un insulto degno di questo nome è invece un gesto ispirato dell'arte, non la ripetizione di un esercizio provato e riprovato mille volte, ma il guizzo improvviso di una mente allenata, la torsione imprevista di un ragionamento implacabile.

E se nel guizzo si sacrificheranno logica, coerenza o buongusto, non ci si dovrà preoccupare più di tanto. Come ha scritto Schopenhauer: «Con l'ingiuria si fornisce una conclusione rimanendo in debito delle premesse»; un debito di cui difficilmente qualcuno chiederà soddisfazione nel corso di una disputa, preferendo in genere ricambiare con gli interessi o pagando pegno con la svalutatissima moneta dell'indignazione.

A tal proposito nel saggio L'arte dell'insulto, contenuto nella raccolta Storia dell'eternità , Borges racconta di un uomo, tal Dottor Henderson, che in occasione di una disputa teologico-letteraria ricevette un bicchiere di vino in faccia dal suo avversario. Senza scomporsi minimamente dichiarò: «Questa, signore, è una digressione: aspetto la sua argomentazione». L'insulto è infatti un meccanismo dannatamente stringente, e non ammette divagazioni. Come le ciliegie, una tira l'altra senza avere neanche il tempo di sputare il nocciolo.

Certo, sulla legittimità morale dell'insultare o meno un avversario sarà necessario interrogarsi di volta in volta, ma in quei casi in cui retorica e falsità minacciano di inficiare qualunque prospettiva di verità è quasi un diritto riportare il nostro avversario alla dura realtà dei fatti con un insulto ben assestato. Ma quando un insulto corrisponde a verità, può ancora dirsi insulto? Senz'altro, e che insulto, il migliore che si possa proferire: vendicare la realtà, fanciulla sempre in pericolo, non può che essere un gesto nobile. Per non parlare dell'importanza igienica del dar sfogo al nostro più profondo sentire. Il suddetto Liang Shiqiu parla chiaro: «Reprimendo costantemente il desiderio di insultare il prossimo, infatti, prima o poi la salute ne risente sviluppando malanni». Insomma, se non legittima, una certa frequentazione con l'insulto è quantomeno consigliabile.

Ciò non toglie che insultare abbia le sue regole e la sua dottrina. Dice ancora Liang Shiqiu: «L'arte dell'insulto richiede un alto livello di risolutezza e di profonda abilità mentale; non significa che ognuno possa fare tutto ciò che gli pare e persino parlare in modo sventato». Ecco dunque le cinque regole per una buona lite letteraria:

1. Per disprezzare devi prima assaggiare: conosci le opere del nemico tuo come le tue tasche.

2. Sfida solo chi è al tuo livello, meglio se ha venduto più copie di te (l'invidia è considerata sempre un'ottima attenuante).

3. Prendersela con un morto è valido solo nel caso in cui abbia il canone mondiale dalla sua parte e il cadavere sia freddo, diversamente non avrai speranze.

4. Ingegno ed eleganza sono armi improprie, non essere così stupido da non usarle.

5. Non cercare la lite per motivi diversi dall'invidia, il tuo ego, l'odio personale o l'amor di realtà. Sono tutte ottime ragioni.


Ci sarebbe poi da fare una postilla sui cosiddetti "insulti che non lo erano", frequentissimi nell'ambiente delle patrie lettere. Un caso su tutti, quello di Stefano D'Arrigo che a un critico che lo definì "sperimentale" replicò offesissimo: «Come si permette! sperimentale io, che mi sono fatto un culo così?».

Manie persecutorie a parte, gli insulti i duelli e le liti scoppiate per motivi più o meno futili non sono certo mancati nel corso della storia della letteratura. I giudizi poco lusinghieri di Mark Twain su Jane Austen sono ormai entrati nel canone così come le intemperanze di Hemingway , Norman Mailer o Gore Vidal. E ancora andranno ricordati i duelli di Tolstoj , Dumas e Proust e le scazzottate di Marinetti , Kerouac e Bukowski. Quanto ai giorni nostri impossibile non fare i nomi di polemisti di razza come Franzen , Bret Easton Ellis e Houellebecq.

E i lettori non sono da meno. Nel 2011 due fan di Melville sono stati arrestati a Los Angeles per aver malmenato un seguace di Joyce in seguito ad alcune divergenze letterarie. In Russia, nel settembre del 2013, un sostenitore di Kant per avvalorare le proprie idee ha ben pensato di aprire il fuoco contro il proprio avversario.

Insomma, per quanto possa essere difficile da immaginare, i casi di bullismo letterario sono sempre più spesso all'ordine del giorno. Immaginate la scena? «Ah! Č questo che pensi dell'uso della metonimia nell' Ulisse? Te la sei voluta, ti aspetto fuori». Ma per carità, se proprio dovete scendere in singolar tenzone, almeno insultatevi da persone civili. Le ingiurie che troverete nelle pagine seguenti sono un ottimo punto di partenza.

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Pagina 16

Jonathan Franzen VS Philip Roth


Se i brontolii si potessero raccogliere come i punti del supermercato, Jonathan Franzen si sarebbe già portato a casa una batteria di pentole, una mountain bike, un forno a microonde, un weekend alle terme e una preziosa coperta in lana merinos. Nel frattempo ha messo da parte un National Book Award e una candidatura al Premio Pulitzer che lo hanno consacrato fra i più grandi scrittori contemporanei. Ma non si può negare che in fatto di brontolii resti un venerato maestro.

Come quando se la prese con Ttvitter, per esempio, «indicibilmente irritante» nonché «l'emblema di qualunque cosa io tenti di contrastare», per concludere definendolo «l'ennesimo e il più sconsiderato dei medium. Come scrivere un romanzo senza usare la lettera "p"», con buona pace di Perec (che invece su Twitter si sarebbe divertito moltissimo, potete giurarci).

E dai suoi brontolii non si sono salvati neanche i gatti (colpevoli dello sterminio di migliaia e migliaia di innocenti uccellini), gli ebook («una contingenza radicale di quel tipo non è compatibile con un sistema fondato sulla giustizia o su una condotta responsabile»), internet («non lascia niente all'immaginazione»), i blogger («sento la mancanza dei critici letterari tradizionali. Molto meglio avere cinquanta inflessibili recensori di quel tipo piuttosto che cinquecentomila strilloni incompetenti»), Oprah Winfrey («di bassa lega») e ancora le donne in letteratura, gli smartphone, i social network ecc. ecc. ecc.

Ultimo ma non per questo meno importante (anzi!), Philip Roth. Sì, proprio lui, il grande vecchio della letteratura americana, l'eterno favorito nella corsa al Premio Nobel, vincitore di svariati National Book Award, di un Pulitzer nonché di qualche centinaio di altri riconoscimenti nazionali e internazionali. Insomma, il punto di riferimento assoluto della letteratura americana dell'ultimo mezzo secolo.

Franzen non ha mai fatto mistero di detestare cordialmente il grande scrittore di Newark. In un'intervista rilasciata nel 2007 al Corriere della Sera ha dichiarato ad Alessandra Farkas: «Detesto l'autore di Pastorale Americana, perché non è affatto uno scrittore di talento e nei suoi libri parla soltanto di se stesso, non avendo nient'altro da raccontare. Non è vero che Roth è un misogino: tranne se stesso e suo padre, egli odia democraticamente tutti, uomini e donne, vecchi e bambini. Invece di pensare in modo ossessivo a vincere il Nobel, farebbe meglio a scrivere libri migliori». In un'altra intervista rilasciata alla Barnes & Noble Review, concluse così: «Per quanto posso dire, l'unico scrittore americano di cui a Philip Roth sia mai veramente importato qualcosa è Philip Roth».

Ma Roth, troppo impegnato a misurare l'abissale eterna oscurità della condizione umana, ha ben altro per la testa che prendere in considerazione un'ulteriore manifestazione del nostro mediocre destino. La sua reazione fu di una signorilità a dir poco esemplare. In occasione della pubblicazione dell'ultima collezione di saggi del suo giovane collega, Più lontano ancora, Roth, sollecitato dall'editore, accettò di scrivere un blurb promozionale per la copertina: «Ci sono circa venti grandi scrittori americani nella generazione successiva alla mia. Il più grande è Jonathan Franzen». Gioco, set, match, uno a zero e palla al centro.

Di fronte a una superiorità morale tanto smaccata, il povero Franzen non poté che ritirarsi in buon ordine, dichiarando in un'intervista successiva che Il teatro di Sabbath è stato per lui uno fra i cinque libri più influenti di sempre, precisando: «Ci sono intere parti del Teatro di Sabbath che si possono saltare tranquillamente, ma le parti grandiose sono grandiose sul serio».

Insomma, da una parte Franzen, che se gli sputi i semi d'anguria in spiaggia ti insulta. Dall'altra Roth, più dell'opinione di prendersela con la schiatta delle angurie tutte. Complice un'allocazione dell'odio più oculata, pace fatta.

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Pagina 29

Salman Rushdie VS John Le Carré


Quella tra Rushdie e John Le Carré è un'inimicizia di lunga data. La faida cominciò nel settembre del 1988 quando lo scrittore britannico pubblicò I versi satanici. Nel giro di pochi mesi il romanzo fu giudicato blasfemo dall'ayatollah Khomeyni e contro il suo autore venne emessa una fatwa. Era una condanna a morte.

La maggior parte degli intellettuali britannici si schierò risolutamente con Rushdie a favore della libertà di espressione. Altri, pur stigmatizzando l'estremismo di cui Khomeyni si faceva interprete, posero l'accento sulla questione del rispetto religioso. Fra questi c'era anche John Le Carré che, pur condannando la fatwa, scrisse un articolo in cui lasciava intendere che chi pretendeva di insultare impunemente una religione aveva le sue responsabilità.

Le librerie che esponevano l'opera furono vandalizzate, i librai vennero minacciati, Ettore Capriolo, il suo traduttore italiano, venne accoltellato nel suo appartamento. William Nygaard, il suo editore norvegese, fu ferito a colpi d'arma da fuoco. Il suo traduttore giapponese, Hitoshi Igarashi, venne addirittura ucciso in un agguato. Furono in molti a chiedere che la ristampa del libro venisse bloccata per fermare le violenze. Le Carré, ancora una volta, era fra questi.

Sul momento Rushdie non rispose: essere in pericolo di vita dovette far passare decisamente in secondo piano la prospettiva di impegnarsi in una disputa letteraria. Ma quando anni dopo fu Le Carré a trovarsi sotto i riflettori per un'accusa di razzismo, ebbe l'occasione di prendersi la rivincita.

Era il 1996 quando apparve sul New York Times una recensione dell'ultima fatica di Le Carré, Il sarto di Panama. Al suo autore, Norman Rush, non andava giù che ancora una volta fosse un ebreo a fare la parte del traditore e velatamente accusava Le Carré di antisemitismo. Per quanto innocenti possano essere state le sue intenzioni, aggiunse, la cosa gli lasciava un certo disagio.

Le Carré ne soffrì: «Capii che non avevamo a che fare con un'accusa non convenzionale di antisemitismo, quanto piuttosto con tutto il peso opprimente del politicamente corretto, una sorta di maccartismo al contrario». Nella lettera di protesta che inviò al Times accusò il giornalista lamentandosi di essere stato «incatramato dalla spatola dell'antisemitismo». Rush, per tutta risposta, negò. La vicenda tornò di attualità un anno dopo, quando il Guardian pubblicò un estratto del discorso tenuto da Le Carré presso l'Anglo-Israel Association di Londra, in cui lo scrittore citava l'episodio incriminato. Fu allora che Rushdie sferrò il suo attacco. Scrisse una lettera al Guardian in cui si diceva che forse ora, dopo che nell' '89 Le Carré aveva unito le forze con chi aveva lanciato una fatwa contro di lui, avrebbe capito come ci si sentiva a essere un bersaglio a causa dell'intolleranza di stampo religioso.

Il giorno dopo Le Carré gli rispose sulle stesse pagine, e dopo aver dato a Rushdie dell'arrogante, del presuntuoso e del colonialista, aggiunse: «Come sempre Rushdie piega la verità secondo i suoi scopi. Non ho mai fatto parte dei suoi aggressori. Ma non ho neanche scelto la strada più semplice, vale a dire proclamare l'innocenza cristallina di Rushdie. La mia posizione era che non esiste una legge in natura o nel consesso civile che dice che le grandi religioni possano essere insultate impunemente».

Rushdie scrisse nuovamente al giornale chiamando il collega "pompous ass" (più o meno "stronzo di un pallone gonfiato") e sulle stesse pagine apparve anche un articolo di Christopher Hichens in cui il giornalista mostrò di appoggiare Rushdie.

A sua volta Le Carré rispose «Chiunque ieri abbia letto la lettera di Rushdie e di Hichens potrebbe ben chiedersi in quali mani sia caduta la grande causa della libertà di parola [...] due ayatollah inferociti non avrebbero saputo fare di meglio» e proseguì accusando Rushdie di autoincensarsi e di ignorare per avidità il pericolo che rappresentava il suo libro per la vita delle persone.

Per anni i due continuarono a scambiarsi gentilezze di questo tipo, dentro e fuori la carta stampata. Almeno fino al 2012, quando alcune dichiarazioni sembrarono mettere fine alla lunghissima faida. Per primo fu Rushdie a compiere un gesto di riconciliazione dichiarando in occasione del Cheltenham Festival la sua ammirazione per le opere del collega: «Penso che La talpa sia uno dei grandi romanzi del dopoguerra britannico». Da parte sua, Le Carré ha da poco annunciato al Times di essersi pentito: «Ammiro Salman per il suo lavoro e per il suo coraggio e rispetto la sua posizione». E pur continuando a chiedersi: «Dobbiamo ritenerci liberi di bruciare i Corani e prenderci gioco delle religioni a cui altri sono devoti?», ribadirà: «Se incontrassi Salman domani, stringerei calorosamente la mano di un brillante collega». Pace fatta, pare.

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Pagina 33

Paulo Coelho VS James Joyce


Secondo Oscar Wilde , l'uomo può credere all'impossibile ma non crederà mai all'improbabile. Č questa la regola numero uno dell'arte della panzana: se vuoi essere creduto sparala grossa, anzi enorme.

Volete un esempio? Eccolo qua: «L' Ulisse di Joyce è dannoso per la letteratura». Lo ha dichiarato qualche tempo fa Paulo Coelho , in un'intervista al quotidiano brasiliano Folha de S. Paulo che ha subito fatto il giro del mondo. «Oggi gli autori scrivono per impressionare i loro colleghi - ha dichiarato -. Uno dei libri che ha causato questo male all'umanità è stato l' Ulisse, che è soltanto stile. Non c'è nulla, lì dentro».

E già, il conflitto fra stile e trama è antico quanto il mondo. I problemi sono cominciati fin dall'inizio: Adamo ed Eva tenevano per lo stile, il serpente invece per la trama. E per fortuna! Grazie a quell'affare della mela abbiamo avuto di che divertirci per svariati millenni: pensate che noia se si fosse rimasti nel meraviglioso giardino dell'Eden a interrogarsi sull'ontologia della sineddoche per l'eternità.

Non che Coelho rifiuti lo stile, sia chiaro. «Checché ne dicano i critici, sono uno scrittore moderno», ha aggiunto, «sono moderno perché faccio sembrare semplice quello che è difficile, e così posso comunicarlo al mondo intero». Vero, giusto, sacrosanto. D'altronde i dieci comandamenti in fatto di modernità e semplicità sono l'ultimo grido.

Ma d'altronde come contraddirlo. Il vangelo secondo Coelho, baciato dal dono di parlare ben 73 lingue, ha venduto oltre 150 milioni di copie in 200 paesi nel mondo. Neanche a paragone con quel veterotestamentario di Joyce e il suo sermone da 265.000 parole scritto con un lessico di 30.000 vocaboli incomprensibili e in buona parte inventati di sana pianta.

Anche secondo lo scrittore Roddy Doyle l'irlandese avrebbe fatto bene a tagliare qualcosina qua e là, magari con l'aiuto di un buon editor. E prima di lui era stata Virginia Woolf a descrivere l' Ulisse come «l'opera di un nauseabondo studente universitario che si schiaccia i brufoli».

Ma la verità non sta nel giardino dell'Eden, né fra le aspre rocce del Sinai. Per dirla con una formula cara allo scrittore brasiliano, la verità sta nel deserto della vita. «Non hai bisogno di capire il deserto», scrive Coelho nell' Alchimista al suo popolo (e)letto, «tutto quello che devi fare è contemplare un semplice granello di sabbia, lì vedrai tutte le meraviglie del creato».

Ma per una volta siamo d'accordo con lui. D'altronde, secondo Salman Rushdie, «a partire da un granello di sabbia Joyce ha costruito un intero universo». E così sia, in Coelho et in terram, andate in pace.

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Pagina 35

Bolano VS Pérez Reverte e Isabel Allende


Una volta, a un giornalista che gli chiese se avesse più amici che nemici, Bolaņo rispose: «Di amici e nemici ne ho abbastanza, tutti ingiustificati». Ma non è del tutto vero.

Che Bolaņo fosse uno scrittore molto amato è un fatto conclamato, così come è un fatto che non fosse facile amarlo: amici e nemici, infatti, avevano ottime ragioni tanto per amarlo quanto per detestarlo.

Per dirne una, «Bolaņo era sicuro della propria grandezza» ricorda Santiago Gamboa , «non gli interessava il giudizio degli altri scrittori, perché si sentiva al di là di tutti loro [...] quello che gli piaceva di più era andare controcorrente, lo faceva per un esercizio sofistico». Per dirne un'altra, la sua mostruosa bravura. D'altra parte se scrivi un libro come 2666 , delle dimensioni di una scatola di fiocchi d'avena e con un numero di personaggi di poco inferiore a quello degli elementi della tavola periodica, è naturale che l'autostima diventi l'ultimo dei tuoi problemi. Il suo era un ideale di letteratura totale che meritava una dedizione assoluta e sacra, una ricerca continua e inesausta di nuove frontiere.

Si comprende allora perché trovasse tanto irritanti le opere di romanzieri meno letterari ma ben più letti di lui, in particolare quelle di Isabel Allende e Arturo Pérez Reverte. Quando un giornalista gli chiese che effetto gli faceva sapere che Pérez Reverte era lo scrittore di lingua spagnola più letto nel mondo, rispose: «Pérez Reverte o Isabel Allende, fa lo stesso. Feuillet (da cui il genere feuilletton, nda) era l'autore francese più letto della sua epoca». Romanzacci d'appendice, insomma, buoni per incartare il pesce il giorno dopo al mercato. E a chi gli faceva notare che l'autore spagnolo era entrato fra i membri della Real Academia, la massima istituzione letteraria del paese, rispondeva che persino Paulo Coelho era un membro dell'Academia brasileņa.

Riguardo a Isabel Allende fu persino più duro. Una volta disse: «fra la padella e la brace, scelgo Isabel Allende». Un'altra volta in occasione della candidatura della Allende al Premio Nacional de Literatura, uno dei premi letterari più importanti del Cile, dichiarò: «Mi sembra che sia una cattiva scrittrice, puro e semplice, e chiamarla scrittrice è fin troppo. Non credo nemmeno che sia una scrittrice, è una scribacchina».

Lo ricorda così Isabel Allende: «Bolaņo parlava male di chiunque. Era un tipo straordinariamente conflittuale che non ha mai detto niente di buono su nessuno». Con meno aplomb invece Pérez Reverte ha dichiarato che i suoi libri non sarebbero certo quelli a cui penserebbe se la sua biblioteca andasse a fuoco: «Preferirei salvare le avventure di Tintìn». Aggiunse poi dopo la sua scomparsa: «Mi sembrava incredibilmente acido e noioso da vivo, continua a sembrarmi tale da morto».

Diceva Bolaņo al suo amico Santiago Gamboa: «Morirò, scomparirò e lascerò un po' di miei libri». Ma a dieci anni dalla sua scomparsa il grande scrittore cileno è più vivo che mai, anche per i suoi nemici.

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Pagina 49

Umberto Eco VS Ken Follett


Ladies and Gentlemen, benvenuti. Questa sera si scontreranno su queste pagine, in un match senza esclusione di colpi, due veri pesi massimi della letteratura. All'angolo sinistro, il professor Umberto Eco: filosofo, autore di best seller mondiali, docente di semiotica, bibliofilo, medievista e pluricuratore di grandi opere. All'angolo destro, mister Ken Follet: scrittore di razza, bestsellerista di mestiere, bassista di talento, creatore di alcuni dei libri più avvincenti che possiate trovare sugli scaffali della vostra libreria di fiducia ma anche di ogni altra.

I loro titoli più famosi, Il nome della rosa e I pilastri della terra, sono spesso accostati per l'ambientazione (il medioevo), lo stile (entrambi valicano le frontiere del romanzo storico per sconfinare nei territori del giallo e del mistery) e per aver venduto alcune milionate di copie, ma le similitudini finiscono qui. Se c'è una cosa che i due non amano, infatti, è venire paragonati fra loro.

Al TG1, in occasione della pubblicazione della sua riscrittura dei Promessi sposi, Eco ha espresso un giudizio decisamente poco lusinghiero sul romanziere statunitense: «Mi hanno paragonato a Ken Follett? Un parallelo nato da I pilastri della terra, ambientato nel Medioevo, che ha però un lungo pezzo centrale che mette in scena troppe improbabili avventure, in maniera sciatta, inverosimile, noiosa. A Ken Follett preferisco il più che mai attuale Alessandro Manzoni [...] Oggi ho riscritto il capolavoro del Manzoni affinché la generazione più giovane non si annoi leggendo delle sciatterie nanesche come quelle di Ken Follett».

La replica non si è fatta attendere. In occasione della pubblicazione in Italia del romanzo Mondo senza fine, il seguito dei Pilastri della terra, mister Follett gli avrebbe risposto per le rime ribattendo: «Mi hanno paragonato a Umberto Eco? Un parallelo nato dal Nome della rosa, romanzo ambientato nel Medioevo, che ha un lungo pezzo centrale molto descrittivo e noioso. Io invece cerco di evitare di annoiare mortalmente i lettori. A Eco preferisco Dan Brown».

Per quanto ci riguarda, siamo sicuri che se Eco un giorno decidesse di scrivere Il nome della noia e Follett la Caduta dei nani dalle spalle dei giganti, si tratterebbe comunque di due bestseller più che avvincenti.

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Pagina 58

George Bernard Shaw VS William Shakespeare


La prima cosa che deve fare un artista per diventare un artista è cercare di diventare un artista. La seconda è uccidere il padre. L'invidia della penna è un intrico ben più complesso di quella robetta astrusa dell'invidia del pene e un secolo di psicanalisi non ci ha ancora aiutato a fare chiarezza sul perché. Ma veniamo ai fatti.

Siamo a Dublino, negli anni '70 dell'Ottocento. George Bernard Shaw è solo un giovane studente quando scopre il teatro di William Shakespeare e ne rimane folgorato. Legge tutto il possibile, studia quanto è stato scritto sulla sua opera, non si perde un festival o una rappresentazione: il Bardo diventa per lui un idolo, un modello, un'autorità di grammatica e poesia, un padre. Ma, come è destino di ogni padre, presto suonerà la sua ora.

Man mano che la vocazione per il teatro si fa più salda nell'animo del giovane drammaturgo, nel padre amatissimo comincia a intravedere il rivale. Era necessario lanciare una sfida per raggiungere la vera grandezza. «A eccezione di Omero ,» dichiarerà, «non c'è grande scrittore che io riesca a disprezzare così integralmente come disprezzo Shakespeare quando paragono la mia mente alla sua».

Invidia o ammirazione? A parità di intelletto Shakespeare sarebbe stato baciato da una fama del tutto fuori misura? O il disprezzo dell'irlandese andrà riferito ai risultati poetici ottenuti dal Bardo ritenuti da Shaw non all'altezza di una mente come la sua? Probabilmente l'una e l'altra cosa. Di certo, non riusciva a darsi pace.

«L'intensità della mia insofferenza nei suoi confronti di tanto in tanto raggiunge picchi tali che sarebbe un grande conforto per me disseppellirlo e prenderlo a sassate, sapendo - come so - quanto lui e i suoi adoratori siano incapaci di capire qualunque forma meno ovvia di indignazione».

Erano molte le cose che Shaw non riusciva a perdonare a Shakespeare. Una di queste era «la sua completa ignoranza della sfera più alta del pensiero, in cui la poesia abbraccia la religione, la filosofia e la morale». Smascherare il Bardo, come dichiarerà, era diventata una missione: «Ho lottato duramente per aprire gli occhi inglesi sul vuoto della filosofia di Shakespeare, su quanto la sua morale sia superficiale e di seconda mano, sulla sua debolezza come intellettuale e sulla sua incoerenza, sul suo snobismo, sui volgari pregiudizi, sulla sua ignoranza, sulla sua totale inadeguatezza a qualunque caratura filosofica sia mai stata invocata per lui». Ma inutilmente.

Fu lui infatti a coniare il termine "Bardolatria", entrando così di diritto nel club esclusivissimo dei più efferati fra i suoi detrattori. L'onore era toccato per primo a Voltaire , quando in uno scritto definì l' Amleto «un'opera volgare e barbara che non avrebbe potuto incontrare il favore del peggior pubblico di Francia o d'Italia [...] Si potrebbe ritenere che sia il frutto dell'ispirazione di un selvaggio ubriaco». A un secolo di distanza gli aveva fatto eco Tolstoj affermando che il Bardo altro non era che un dilettante ampolloso, e anche il giudizio di Wittgenstein non fu dei più teneri.

Ma fra gli iscritti del club, solo Shaw ebbe il coraggio di affrontare l'autore faccia a faccia e, da grande artista quale era, lo sfidò sul palcoscenico migliore: quello della sua ultima opera. Nel 1949 Shakes versus Shav venne messo in scena nel teatrino delle marionette Foley House Lanchester: durava appena venti minuti e metteva in scena un duello a colpi di citazioni fra i due grandi drammaturghi. L'uno accusava l'altro di essere un parvenu, l'altro rispondeva attaccando il primo sulla qualità delle sue opere.

Fu l'ultima sfida e l'ultimo omaggio a un autore amato e odiato come nessun altro, il cui tentato omicidio è destinato a restare impunito a lungo. D'altronde, vostro onore, «la bellezza da sola persuade gli occhi degli uomini senza aver bisogno d'avvocati» (Lucrezia violata, atto I). E noi, giurati, comunque applaudiamo.

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