Autore Telmo Pievani
Titolo Evoluti e abbandonati
SottotitoloSesso, politica, morale: Darwin spiega proprio tutto?
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Passaggi , pag. 278, cop.fle., dim. 14x22x1,8 cm , Isbn 978-88-06-21254-4
LettoreCorrado Leonardo, 2014
Classe evoluzione , biologia , psicologia , scienze cognitive , natura-cultura












 

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Indice


  3     Prologo. Un alieno al congresso del Pd

  7 I.  Rimostranze di un cervello dell'età della pietra.
        Piccola antologia di «storie proprio cosí»

 18 II. È piú darwiniano essere di destra o di sinistra?
        Contro la psicologia evoluzionistica pop

 18     È l'economia evoluzionistica, bellezza
 22     La mente umana, terra incognita e inavvicinabile
 25     Guerre evoluzionistiche
 29     Il darwinismo dal volto umano
 32     Non è di politica che si tratta
 37     Il cervello umano, una ben progettata macchina di istinti?
 46     Catalano Science n.1: i contraccettivi servono per ridurre
        il rischio di gravidanza
 57     Catalano Science n.2: è meglio sposare un uomo bello, ricco
        e intelligente, piuttosto che un mostro stupido e senza una lira
 67     Catalano Science n.3: il maschio è cacciatore, alla femmina
        invece piacciono tanto i fiori
 75     Catalano Science n.4: gli uomini a volte sono buoni,
        altre volte cattivi
 81     Tutto da buttare?
 87     Ricominciamo da Charles il timido

 90 III.Pugilato darwiniano.
        Duellanti sotto i riflettori non si accorgono che la guerra è finita

 91     Selezione di gruppo, anatomia di un tradimento
 96     Tanto rumore per nulla?
 99     Dawkins, Wilson e l'ombra lunga di Darwin
108     La soluzione darwiniana: un egoismo imperfetto
114     L'altruismo come egoismo mascherato
117     La selezione di parentela e il paradosso dell'omosessualità
120     L'altruismo «localistico»
124     La sindrome del soldato giapponese
127     E intanto nel magico mondo della psicologia evoluzionistica...

131 IV. Siamo scimmie assassine o scimmie empatiche?
        Quell'insana passione per le domande sbagliate

132     La ghigliottina di Hume si è inceppata
136     La psicologia evoluzionistica non «pensa per alberi»
144     Alla ricerca dei mattoni fondamentali della moralità
148     Una bizzarra miscela di continuità e di unicità
153     La naturale, e radicale, ambivalenza umana
157     La cultura, bestia nera evoluzionistica
16o     Non istinti specializzati, ma precursori naturali
165     L'altruismo come exaptation
170     Cercasi scienza integrata del comportamento umano

174 V.  Il Santo Graal del linguaggio.
        A proposito dello smodato interesse per «ciò che ci rende umani»

174     Le «storie non proprio così» dell'etica e del linguaggio
179     La «complessità» del linguaggio e le sue trappole
184     Apriamo la nuova cassetta degli attrezzi
188     Una cascata di adattamenti e di exaptations
193     L'ecologia del comportamento umano
198     Geni e fonemi: una sorprendente corrispondenza
202     Le specie e le lingue: a passi lievi fra biologia e cultura
205     La scimmia bambina
209     L'ipotesi dell'«ondata finale»

215 VI. Evoluzione con annessi sensi di colpa.
        La contraddittoria idealizzazione dei popoli tribali

216     La lezione delle società tradizionali
218     Nell'evoluzione umana non esistono «fossili viventi»
225     Non piú essenze, ma storie e contesti
229     La botte piena (non sono fossili viventi!)
        e la moglie ubriaca (loro sí che erano puri!)
232     Malintesi relativismi

235     Epilogo. Non siamo i Flintstones.
        Per una scienza integrata del comportamento umano


        Appendici
251     Glossario
257     Riferimenti bibliografici
273     Indice dei nomi


 

 

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Prologo

Un alieno al congresso del Pd


Una notte d'estate, uno scienziato alieno piomba fortuitamente sopra il centro di Roma e incontra per strada uno psicologo appassionato di evoluzione. I due si ritrovano nei pressi di uno schermo televisivo che mostra le immagini di una direzione nazionale del Partito democratico. Lo speaker sta spiegando la situazione e descrivendo i contenuti delle discussioni e dei furibondi litigi fra i partecipanti. Si vedono fogli volare, gente seduta per terra, confabulazioni, sopraccigli inarcati, baffetti che vibrano, maniche di camicia bianca arrotolate, gesticolazioni scomposte, capelli sudati, interminabili diatribe su regole e codicilli. Lo scienziato alieno chiede allo psicologo evoluzionista perché tutta questa gente nervosa e accaldata sia riunita in quella sala. Lo psicologo evoluzionista risponde che il cervello dei maschi della specie Homo sapiens è fortemente predisposto fin dall'età della pietra per le attività politiche, in particolare per la ricerca di alleanze tattiche che lo portino a scalare le gerarchie di dominanza. Inoltre, è un mammifero sociale dotato di linguaggio articolato, i cui comportamenti si sono evoluti per massimizzare le opportunità di riproduzione.

L'alieno fa notare, per inciso, che alla riunione è presente una discreta percentuale di femmine sapiens altrettanto loquaci e agitate. Lo psicologo evoluzionista risponde che si tratta di una moda culturale recente (le quote rosa) e che i giovani maschi dei nostri cugini scimpanzé cercano da sempre uno status sociale elevato per potersi accoppiare con piú femmine possibile. E cosí facciamo anche noi. L'alieno ribatte che certi giovani turchi del Pd non sembrano poi cosí tanto diversi geneticamente dai vecchi oligarchi correntizi che vorrebbero scalzare, e che anzi spesso appaiono persino un po' piú dimessi di loro, cosí scialbi e monotoni che una femmina alla fine, disperata, torna piuttosto a farsi corteggiare dal decrepito patriarca. Lo scienziato alieno aggiunge che non si sono mai visti scimpanzé fondare un partito e litigare fin dalla sua fondazione intralciandosi l'un l'altro in modo tale da ridurre al minimo le possibilità per tutti di vincere le elezioni e di raggiungere cosí la vetta della gerarchia di dominanza. Si tratta infatti di un comportamento disadattativo che consiste nell'arrecare sistematicamente danno agli altri membri del tuo gruppo senza trarne alcun beneficio, e anzi facilitando il successo del gruppo avverso. Nessun gene per questo schema cognitivo specializzato potrebbe essersi mai trasmesso dall'età della pietra, perché i suoi possessori si sarebbero certamente estinti prima di riprodursi.

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Capitolo primo

Rimostranze di un cervello dell'età della pietra

Piccola antologia di «storie proprio cosí»


Dove si comincia da una carrellata semiseria di ipotesi evoluzionistiche sul comportamento umano, e ci si domanda quali siano vere, quali controverse, quali banali o ingiudicabili, quali sgradevoli anche se forse vere, quali sgradevoli e basta, quali invece del tutto assurde.


Dialogando per le strade di Roma con il suo nuovo amico psicologo evoluzionista, lo scienziato alieno fa alcune scoperte sorprendenti. Non crede alle sue orecchie extraterrestri. Pare infatti che il cervello umano sia fermo all'età della pietra. È in ritardo. È atavico. Un residuato bellico ossessionato dal sesso. Un reduce da mille battaglie evoluzionistiche, frustrato e alcolizzato. Arranca. Non ce la fa piú. Questa anticaglia paleolitica non può sopravvivere nella palude di un social network dove tutti si piacciono, si cliccano e poi si insultano. Tanto tempo fa, la selezione naturale lo ha sedotto, plasmato, messo a punto. Pezzo per pezzo, nelle aspre e assetate vallate della savana africana. Lí si moriva presto, è vero, ma almeno le regole erano chiare: i maschi facevano i maschi; le femmine facevano le femmine; qualcuno si riproduceva di piú, qualcuno di meno; predatori e prede se la giocavano; i giovani si mettevano nei guai. Poi sul piú bello la selezione naturale ha abbandonato a se stesso quell'encefalo preistorico e lo ha catapultato in un mondo estraneo. Qui di tanto in tanto sfodera ancora i suoi pezzi migliori di repertorio, ma per lo piú è disorientato. Maledette rivoluzioni (quella agricola e quella industriale). Meglio il far west pleistocenico dove i buoni erano buoni e i cattivi erano cattivi.

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A questo punto c'è da scommettere che il vostro cervello dell'età della pietra ne avrà abbastanza di simili teorie. Anche l'età della pietra, se avesse voce, non sarebbe contenta di queste storielle sul suo conto. Alcune di queste conclusioni suonano del tutto assurde, alcune controverse, altre semplicemente banali, altre sgradevoli anche se forse vere, altre ancora probabilmente vere, altre sgradevoli e basta, altre ingiudicabili. Spazientito, il vostro cervello dell'età della pietra potrebbe persino pensare che se l'alternativa sono questi economisti e psicologi allora forse erano meglio i preti. Almeno quelli un'idea chiara della natura umana e dei suoi peccati ce l'avevano. Fantasia per fantasia, tra il mitico ambiente ancestrale della savana e il deserto mediorientale dei pastori biblici, uno potrebbe anche preferire il secondo. Se la selezione naturale ha le fattezze di un triangolo con un occhio in mezzo - che tutto vede, provvede e decide -, il povero cervello dell'età della pietra potrebbe decidere di tenersi stretto l'irascibile vecchio signore tuonante del Sinai, che almeno ci apre le acque e ci indica la strada.

Ma cosa c'è che non va, esattamente, in molte di queste tesi? Nel 1902 Rudyard Kipling le aveva chiamate «storie proprio cosí». Sono racconti per bambini che imitano i miti delle origini applicandoli agli animali. Cosí scopriamo come fu che l'elefante allungò la proboscide, perché al cammello venne la gobba e al leopardo le macchie, e come il rinoceronte si ritrovò con la pelle rugosa e un carattere assai suscettibile. Il segreto di queste favole risiede nel fatto che tutto ha un senso perché c'è un'intenzione, un cattivo punito, un lieto fine. Il riccio e la tartaruga si trasformano in armadilli «per» sfuggire al giaguaro. Oppure - se preferiamo il settecentesco dottor Pangloss del Candide di Voltaire, parodia del migliore dei mondi possibili - è evidente che il naso si è evoluto per appoggiarci sopra gli occhiali.

Quale strano legame unisce le «storie proprio cosí» di Kipling alla scienza? Gli scienziati cognitivi oggi sanno che le narrazioni finalistiche sono le preferite dalla mente umana. Adoriamo i complotti e ci piacciono le dietrologie. Le troviamo persuasive, indipendentemente dalla loro veridicità, perché soddisfano la nostra spiccata sensibilità verso tutto ciò che è animato, che è portatore di progetti e di intenzioni. E infatti chi racconta le storie che abbiamo riportato sopra ama ripetere spesso che la selezione naturale è «progetto senza progettista». Un orologiaio cieco, d'accordo, ma pur sempre orologiaio. La tentazione di considerare il passato come giustificazione di un presente ottimale è sempre in agguato. E il fascino perenne della teleologia.

In tal senso, gli evoluzionisti hanno il compito piú difficile, perché devono trovare non solo le cause prossime dei fenomeni (come funziona?) ma anche quelle remote (come si è evoluto?), finendo talvolta attratti dal fascino del dottor Pangloss. Per dire che qualcosa è un «adattamento» ereditato, per esempio, dobbiamo individuare il suo vantaggio selettivo rispetto a un ambiente passato e rispetto a chi quell'adattamento non ce l'aveva. Dobbiamo insomma ricostruire una storia, antichi scenari. E il cammino è disseminato di trappole concettuali. Gli occhi servono per vedere? Dunque si sono evoluti «per» vedere. Le orecchie ci permettono di sentire? Quindi le loro delicate componenti si sono evolute «per» sentire. Molto intuitivo, ma non è detto che sia cosí. Se pensiamo che tutti o i piú importanti nostri comportamenti siano stati plasmati come adattamenti funzionali dalla selezione naturale fin dall'inizio, dimentichiamo che quest'ultima (se proprio vogliamo reiterare l'errore di personificarla!) non è un ingegnere, ma un artigiano che fa il meglio che può con il materiale a disposizione.

Insomma, non è sufficiente autodefinirsi «evoluzionisti» per riuscire a esserlo veramente. La biologia evoluzionistica ha oggi a disposizione strumenti sofisticati che rendono confrontabili e controllabili le ricostruzioni che ipotizziamo e le speculazioni alle quali talvolta ci abbandoniamo. Esperimenti in laboratorio, analisi morfologiche, comparazioni, datazioni sempre piú precise, riscontri ecologici, convergenze di dati indipendenti (paleontologici, molecolari e biogeografici), selezioni fra modelli alternativi, simulazioni, valutazioni di probabilità e altre tecniche permettono di fare previsioni circoscritte e di trovare controesempi, smentendo cosí il vecchio ritornello secondo cui la spiegazione evoluzionistica per selezione naturale non sarebbe falsificabile, nel senso cioè che puoi raccontare una storia e il suo contrario tanto è lo stesso. Ebbene, le teorie prima elencate soddisfano gli standard di ricerca raggiunti oggi dalla biologia evoluzionistica?

Non sempre. Come scrisse tempo fa il biologo Michael Ghiselin, «a che cosa serve?» è la domanda sbagliata per un evoluzionista. La domanda giusta è: «che cosa è successo?» In questo libro partiremo da qui, con l'auspicio di offrire qualche sollievo al nostro povero cervello dell'età della pietra. Non gli addosseremo ogni responsabilità. Cercheremo di capire perché non bisogna fidarsi alla cieca di tutte le «storie proprio cosí» sul comportamento umano, e proporremo qualche storia «non proprio cosí». Parleremo di sesso, di bugie, di inganni, di altruismo, di politica, e di altre piú o meno commendevoli abitudini.

Che il dio della biosociologia ci perdoni.

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La mente umana, terra incognita e inavvicinabile.


Dunque, in estrema sintesi, secondo questi psicologi ed economisti sarebbe piú darwiniano essere di destra, ma c'è un retaggio evolutivo di egualitarismo di sinistra che è difficile da estirpare. Ma la mente umana è davvero scolpita in questo modo? Che cosa c'è che non va in queste storie? Su quali evidenze si basano? Prima di introdurre i protagonisti di questo libro dobbiamo condividere qualche antefatto. La storia dei rapporti fra la teoria dell'evoluzione e lo studio della mente umana non cominciò sotto i migliori auspici. Per molto tempo la scienza si tenne lontana dall'indagare i segreti piú reconditi del cervello umano. Persino all'interno della comunità degli evoluzionisti resistette a lungo quella strana «eccezione» antropologica che lo stesso coscopritore della selezione naturale, il grande naturalista vittoriano Alfred Russel Wallace , nel 1869 aveva attribuito alla coscienza umana, suscitando la costernazione di Charles Darwin a dieci anni dalla pubblicazione dell' Origine delle specie. Potremo svelare un giorno la storia naturale di tutte le specie compresa la nostra - ammoní Wallace, nel frattempo attratto dalle sedute spiritiche - ma la teoria della selezione naturale non riuscirà mai a penetrare nella mente di Homo sapiens, luogo eletto dello spirito e del libero arbitrio.

L'argomento per eccezione si basava, in primo luogo, sull'idea che la spiegazione naturalistica dovesse incontrare limiti pregiudiziali e di principio, una sorta di Rubicone oltre il quale il potere della selezione naturale non sarebbe mai arrivato. Tale impossibilità di principio doveva ovviamente includere quelle che allora si definivano le facoltà psicologiche «superiori», in particolare il raziocinio, il linguaggio e il senso morale e religioso. Tutto ciò cozzava frontalmente con il naturalismo metodologico coerente e integrale di Darwin, che non ammetteva come pertinente per la spiegazione scientifica il ricorso ad alcun principio o sostanza o entità sovrannaturali. L'autore dell' Origine dell'uomo era convinto che quella impossibilità di principio fosse in realtà soltanto un'impossibilità di fatto: prima o poi gli avanzamenti della scienza avrebbero permesso di comprendere l'evoluzione della mente in ogni suo aspetto.

La tesi di Wallace riecheggiava però, almeno implicitamente, un'altra obiezione classica alla spiegazione evoluzionistica e un problema che aveva radici profonde nella filosofia naturale moderna: le origini di strutture e comportamenti particolarmente complessi e ben organizzati, aventi cioè l'apparenza di un «disegno», di una progettazione intenzionale. Se nella teologia naturale di William Paley l'argomento del disegno era funzionale a una visione creazionista, l'evoluzione di organi estremamente complessi e perfetti fu uno dei problemi piú spinosi da affrontare per Darwin, che vi dedicò un intero capitolo aggiuntivo nella sesta edizione dell' Origine delle specie, nel 1872. Come può la selezione naturale, che non vede nel futuro e procede per piccoli passi, spiegare l'insorgere degli stadi incipienti di una struttura che richiede il coordinamento di molte parti?

Il naturalista inglese sapeva di non poter rinunciare né al suo gradualismo né al principio in base al quale ogni fase del processo doveva avere una funzione adattativa, affinché la selezione avesse effetto. Dunque l'evoluzione non «prevede» finalisticamente la costruzione di un'ala o di un occhio, né li ha prodotti tutti d'un colpo. Dopo lunghe riflessioni e ricerche Darwin concluse che gli organi di particolare complessità dovevano essere il frutto di un raffinamento graduale per selezione naturale e di eventuali successive cooptazioni funzionali: una soluzione che oggi, 150 anni dopo, si è rivelata come vedremo non soltanto corretta ma di grande efficacia esplicativa, essendo stata confermata da una mole di dati. Eppure, l'idea che esistessero strutture cosí complesse da essere irriducibili alla spiegazione evoluzionistica continuò a viaggiare sotto traccia nel mondo scientifico, riaffiorando piú volte sotto mentite spoglie.

Ancora nel 1986 il grande linguista Noam Chomsky prevedeva che l'evoluzione non avrebbe avuto alcunché di interessante da dire riguardo alla nascita del linguaggio, troppo complesso e integrato (appunto) per essere compreso attraverso un processo graduale di trasformazione per selezione naturale (Chomsky, 1988). Il linguaggio umano non poteva essere una questione di gradazioni, qualcosa di banalmente «piú complesso» rispetto ai linguaggi degli animali. Assomigliava piuttosto a una proprietà emergente qualitativamente diversa. Di fronte al linguaggio articolato umano un evoluzionista avrebbe dovuto rassegnarsi al mistero: hic sunt leones. L'analogia fra la «quasi perfetta ottimalità» del linguaggio e l'evoluzione dell'occhio era esplicita.

L'adesione di Chomsky al naturalismo metodologico piú coerente dimostra che l'avversione alla spiegazione evoluzionistica neodarwiniana non è necessariamente il frutto di un complotto antiscientifico, idealistico, o nato nella mente di sociologi refrattari. Pur nella sua eterogeneità questo atteggiamento di rifiuto vedeva nell'umanità non una differenza di grado rispetto ai comportamenti dei nostri parenti animali, ma una soglia qualitativa radicale, del tipo tutto-o-niente, in taluni casi motivata dall'irruzione di un «salto ontologico» sovrannaturale, in altri da una qualche discontinuità che avrebbe reso la specie umana un'evenienza naturale del tutto eccezionale, una terra incognita e inavvicinabile. Per questo si è cercata per decenni la chiave della specialità umana in qualche dote «superiore» come il linguaggio, l'autocoscienza, il senso morale, la razionalità, salvo ogni volta riscontrare nei nostri cugini animali forme piú o meno sofisticate delle medesime facoltà. Cosí, certi vetusti misteri si trasformarono pian piano in problemi scientifici.

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Pagina 37

Il cervello umano, una ben progettata macchina di istinti?


In questa prospettiva di critica interna, vediamo allora piú analiticamente quali sono i presupposti della psicologia evoluzionistica e che cosa non funziona nella loro applicazione. Secondo due fra i maggiori esponenti di questa corrente, la psicologa americana Leda Cosmides e il marito antropologo John Tooby, entrambi all'Università di Santa Barbara in California, il programma di ricerca della psicologia evoluzionistica si fonda su sei principi, ridefiniti in piú occasioni fra il 1997 e il 2005 e cosí sintetizzabili (2000):

1. Esiste un vasto ed eterogeneo complesso di micromeccanismi computazionali che sorreggono e regolano le nostre competenze naturali: questo macchinario funziona cosí bene che noi non ci accorgiamo della sua esistenza.

2. Il cervello è un sistema fisico e funziona come un computer dotato di «programmi cognitivi». I suoi circuiti sono progettati per generare comportamenti che sono appropriati rispetto alle circostanze ambientali.

3. I nostri meccanismi cognitivi e neurali sono stati progettati dalla selezione naturale per risolvere in modo computazionale problemi che i nostri antenati hanno dovuto affrontare durante la storia evoluzionistica di specie.

4. La coscienza è soltanto la punta dell'iceberg: molto di ciò che avviene nella nostra mente è nascosto alla nostra consapevolezza; ne consegue che la nostra esperienza cosciente può erroneamente indurci a pensare che i nostri circuiti neurali siano piú semplici di quanto in realtà non siano. Molti problemi che a noi sembrano facili da risolvere sono in realtà difficili e richiedono meccanismi neurali complicati. Un'attività è spontanea perché frutto in realtà di un lento raffinamento evoluzionistico.

5. Differenti circuiti neurali sono specializzati per risolvere corrispondenti problemi adattativi: l'evoluzione è soluzione di problemi (piú eventuali effetti collaterali).

6. Le nostre scatole craniche moderne ospitano una mente dell'età della pietra, conformatasi nel Paleolitico a un «ambiente di adattatività evoluzionistica» (Environment of Evolutionary Adaptedness, EEA, espressione che comparve per la prima volta nella teoria dell'attaccamento di John Bowlby).


Rispetto alla sociobiologia da cui deriva, la psicologia evoluzionistica ha rinunciato ad assumere che ciascun modulo cognitivo, in quanto strategia adattativa fissatasi nel Paleolitico, debba avere una rigida codifica genetica. È sufficiente che si riconoscano le basi neurofisiologiche universali di ciascun modulo cognitivo tipico di Homo sapiens. Data l'insostenibilità ormai acquisita da tempo del determinismo genetico, questo è un bene e rende del tutto superate le critiche mosse al programma di ricerca da questo punto di vista (per esempio quelle di Dupré, 2001, e molte altre precedenti rivolte alla sociobiologia umana). Ma questa rinuncia rischia di essere dolorosa e controproducente: se la codifica genetica non è indispensabile, come abbiamo ereditato moduli adattativi cosí specializzati fin dall'età della pietra? Succede cosí di leggere in Cosmides e Tooby frasi come la seguente, del tutto insensata sul piano evoluzionistico: «Le differenze fra individui non saranno dovute a differenze nei loro geni perché gli adattamenti sono, nella maggior parte dei casi, universali e tipici della specie» (in Barkow, Cosmides, Tooby, 1992, p. 18o).

Come possa, un adattamento, essere universale e specie-specifico senza il precedente contributo di differenze individuali, ereditabili geneticamente, non è indicato. Senza variabilità in ogni momento, «l'unità psichica dell'umanità» prospettata da Cosmides e Tooby, quella «universale e altamente organizzata architettura» è un'essenza senza tempo, una statua di gesso. Non si capisce perché l'universalità comportamentale debba avere un valore adattativo cosí elevato (Lloyd, Feldman, 2002). Inoltre, è falso che gli adattamenti per esser tali debbano essere tipici di una specie nella sua totalità: nelle popolazioni umane esistono molti adattamenti locali e non universali, geneticamente codificati, dal colore della pelle all'intolleranza al lattosio, ai ritmi circadiani. È falso anche il viceversa, cioè che i tratti tipici di specie siano giocoforza adattamenti: potrebbero anche essere caratteristiche non adattative ereditate nella filogenesi, vestigia del passato non piú utili, o altro. Infine, trovare il correlato genetico o neurale di un comportamento (cause prossime e meccaniche) non implica automaticamente avere in mano un'ipotesi evoluzionistica (cause remote). Non bastano la neuroeconomia, la neuropolitica, la neuroetica e la neuroqualcosa per fare ipotesi «evoluzionistiche» su quel qualcosa. Vale anche il viceversa, dalle cause remote alle cause prossime: molti tratti sono chiaramente adattativi per la vita - dai processi ontogenetici al differenziamento cellulare - ma non per questo conosciamo ancora tutto su come funzionano.

Si notino i tre presupposti teorici duri che reggono tutta l'impalcatura: a) il cervello funziona come un computer, con moduli specializzati; b) l'evoluzione è un problem-solving che produce adattamenti per selezione naturale; c) gran parte delle competenze umane sono regolate da istinti innati e inconsci. A questi tre assunti si aggiunge un parametro di contesto: la mente umana è evolutivamente ferma al Paleolitico. Come vedremo, non uno di questi quattro mattoni fondamentali del programma di ricerca regge a un'analisi approfondita. Si consideri, per inciso, l'insistenza sul termine «progettati per», come se la selezione naturale fosse un ingegnere naturale giunto provvidamente in sostituzione del progettista intelligente di Paley (ma con lo stesso afflato teleologico sottostante, un «progetto senza progettista», secondo l'ossimorica e deleteria definizione coniata da Daniel Dennett , 1995), dimenticando che adattamento darwiniano e progetto sono due concetti antitetici.

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[...] Concentrandosi sugli adattamenti come prodotti finiti e completi dell'evoluzione, e non come stadi di una trasformazione in corso, si finisce per leggere la natura umana come un'essenza anziché come un processo, contraddicendo un fondamento della teoria evoluzionistica stessa, che non è una spiegazione di «prodotti» ma di cambiamenti.

Per la stessa ragione non ha senso affermare che dal Neolitico in poi non c'è stato tempo sufficiente per cambiamenti evoluzionistici significativi. Dodici millenni sono sufficienti per osservare cambiamenti genetici adattativi nelle popolazioni umane, a causa dei cambiamenti di clima, di dieta e di esposizione agli agenti patogeni che dipende dalla densità di popolazione (Bolhuis et al., 2011). L'esempio classico è quello delle mutazioni per l'enzima della lattasi (Laland et al., 2010), che rende digeribili il latte e i prodotti caseari anche in età adulta in alcune popolazioni, ma l'elenco include molti altri caratteri (dalla pelle alla corporatura, dall'emoglobina alla tolleranza dell'alcol) che arrecano vantaggi in specifici ambienti. Qui cultura e biologia interagiscono e coevolvono, creando ponti - ha scritto l'etologo Kevin Laland - fra genetica e scienze umane. Esistono dunque adattamenti neolitici e i dati genetici lo confermano (Jones et al., 2013).

[...]

Perché mai la mente umana, proprio e solo la mente umana, dovrebbe essere rimasta invece congelata per migliaia di generazioni umane? Evoluta e abbandonata? Come riportato su «Science» recentemente, oggi si ritiene al contrario che la coevoluzione fra geni e culture abbia apportato cambiamenti significativi e rapidi nell'evoluzione umana in tempi recenti. L'utilizzo del lattosio in età adulta è un cambiamento evolutivo prodotto da un cambiamento culturale. Simon E. Fisher e Matt Ridley (2013) - proprio il Ridley delle teorie piú arrembanti della prima psicologia evoluzionistica (i tempi cambiano, per fortuna) - si chiedono se sia sempre vero che i cambiamenti genetici precedono e causano quelli culturali. In alcuni casi cruciali potrebbe avvenire il contrario: un'evoluzione genetica spinta dalla cultura!

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Come vincere allora, prosegue Rubin, la refrattarietà intuitiva all'economia capitalistica? Dando massima libertà economica e personale a tutti, cioè somministrando proprio l'amara medicina che non dovrebbe piacerci. Poche righe dopo si legge che l'economia statunitense, in particolare, è la piú congeniale alle nostre predisposizioni evolutive verso la libertà individuale. Esattamente il contrario di quanto sostenuto poco sopra. Come è possibile? Beh, perché, come direbbe Catalano, «le gerarchie sono universali negli esseri umani» ma «anche l'opposizione a tali gerarchie è piuttosto comune» (2002, ed. it., p. 211). Le gerarchie paleolitiche infatti non erano assolute poiché esistevano, secondo la teoria dell'antropologo Christopher Boehm (1999), «gerarchie di dominanza inverse» che le sovvertivano attraverso l'intraprendenza di giovani maschi in cerca di autonomia. Ecco un'altra perfetta ipotesi ad hoc, l'assunzione ausiliaria che salva capra e cavoli. Nel Paleolitico c'è tutto ciò che serve per inventarsi una «storia proprio cosí». Inoltre, la selezione si nutre di differenze individuali, «quindi» (va da sé) gli esseri umani sono estremamente individualisti e desiderano l'indipendenza (ibid., p. 74): non fa una piega.

Ma allora questi benedetti marxisti, socialisti e no-global sono contro o a favore della natura biologica umana? Dipende. Se sentite il tipico suono stridente di un'arrampicata sui vetri, non è un caso. C'è tutto e il contrario in questo Paleolitico immaginario, e vi si può attingere per giustificare una tesi e il suo contrario. È la stessa contraddizione fra ottimismo e pessimismo in cui incappa il «paternalismo libertario» (Shermer, 2008): la neuroeconomia ci dice che siamo anarcoindividualisti ma anche sensibili ai valori morali di giustizia e di fiducia? Beh, allora la migliore filosofia politica per scimmie sociali cosí contraddittorie sarà quella di dare loro la massima libertà ma con qualche «aiutino» poco invasivo, come la mosca finta nell'orinatoio maschile che riduce la frequenza di pisciate fuori bersaglio. Ma vi sentite trattati davvero come persone libere e responsabili in questo modo?

Si dice, ed è giusto, che in linea di principio bisogna distinguere i darwinismi politicizzati (gli usi strumentali dell'evoluzione per giustificare le proprie convinzioni politiche preconcette; ve ne sono stati di ogni tipo nella storia) dalla politica darwiniana, cioè dalle indicazioni scientifiche che possono derivare dallo studio dell'evoluzione delle propensioni psicologiche e decisionali umane. Quando però si vanno a leggere i libri che descrivono la seconda non si riesce bene a capire in che cosa si distingua esattamente dai primi. Matt Ridley è convinto che il laissez-faire discenda direttamente dagli istinti umani e che l'utopismo degli statalisti sia deleterio: egoismi e disparità sono scritti nella natura umana e vanno lasciati esprimere in un regime di libera concorrenza affinché sprigionino le loro potenzialità cooperative (1996). Se (citiamo ancora da Rubin) le scienze sociali e gli studi umanistici devono essere ricondotti alla selezione naturale in virtú di un'analogia profonda con la biologia (2002, ed. it., p. 65), se alla luce di questa emergenza spontanea dell'ordine dal basso il libero mercato è piú darwiniano del controllo statale, se la diseguaglianza è naturale e ineliminabile, e se il «raggiungimento degli obiettivi della nostra evoluzione» si traduce nella progettazione di istituzioni politiche adeguate (ibid., p. 42), in che senso questa «politica darwiniana» sarebbe qualcosa di diverso da una nuova versione, piú liberaldemocratica, dei vari tentativi di interpretare Darwin in salsa conservatrice?

A questo punto lo psicologo evoluzionista si schermisce dicendo che se un'attitudine comportamentale umana è piú in sintonia con la nostra evoluzione per selezione naturale (ovvero è piú naturale e intuitiva per noi), non per questo deve essere ritenuta eticamente e politicamente preferibile. Cosí facendo, però, non si accorge di essere transitato nuovamente nella piú totale infalsificabilità: il libero mercato senza freni va bene perché è darwiniano; il conflitto etnico invece non va bene anche se è darwiniano, perché nel mondo di oggi comporta troppi costi. Pertanto, il fatto che una preferenza comportamentale sia darwiniana o no è del tutto ininfluente. Stiamo semplicemente descrivendo le nostre preferenze, senza spiegare scientificamente alcunché. Spunta cosí nuovamente il nostro Catalano, eccolo in versione Rubin: «la costante di preferenze e comportamenti politici evolutivi può a volte portare a esiti positivi, altre volte invece a esiti negativi» (ibid., p. 42); «gli umani possono imparare a essere xenofobi e possono ugualmente imparare a non esserlo» (ibid., p. 47); «anche se gli esseri umani sono piuttosto egoisti, in diversi contesti si comportano in modo collaborativo» (ibid., p. 48); i maschi umani hanno sempre cercato il potere politico come modo per avere accesso alle femmine, ma gli esseri umani hanno anche cercato di evitare di essere dominati (ibid., p. 264). È la filosofia del «ma anche».

Se ancora non è chiaro il nocciolo della Catalano Science, vediamo analiticamente le quattro possibilità inquadrandole in una griglia cartesiana. Su un asse mettiamo il grado di adattatività darwiniana di un tratto, rispetto al mitico ambiente paleolitico. Sull'altro mettiamo il livello di gradimento di quel tratto rispetto ai valori liberali e conservatori. Ecco il risultato:


Prima possibilità: un tratto comportamentale umano è stato selezionato nel Paleolitico e ci piace (ad esempio la libera difesa degli interessi personali, l'autonomia individuale, il voler essere indipendenti), dunque è un punto di vista morale e politico consono all'evoluzione della natura umana, non ci obbliga a forzarla come invece vorrebbero marxisti, no-global, movimenti dei consumatori e teorici della decrescita, e quindi per definizione va benissimo.

Seconda possibilità: un tratto è stato selezionato nel Paleolitico ma non ci piace (ad esempio l'egualitarismo dei cacciatori-raccoglitori, l'invidia verso i ricchi, il conflitto etnico, tutte le intuizioni naturali di tipo illiberale), allora diremo che nel mondo moderno, cosí diverso dal Paleolitico grazie al progresso umano e alla scienza, non è piú opportuno perseguirlo perché ha effetti collaterali troppo costosi o controproducenti (come il protezionismo e il proibizionismo).

Terza possibilità: un tratto non è darwiniano, è controintuitivo, difficile da accettare, ma ci piace (ad esempio l'economia di mercato, la democrazia), e allora diremo che nel mondo moderno, cosí diverso dal Paleolitico grazie alla cultura e all'insegnamento, pur non essendo darwiniano è opportuno (paternalisticamente) perseguirlo, creando una nicchia ecologica che lo favorisca o indottrinando le persone affinché vi aderiscano.

Quarta possibilità: un tratto non è darwiniano e non ci piace (ad esempio il socialismo, la teoria della giustizia di John Rawls ), e anche se il mondo di oggi è cosí diverso dal Paleolitico, in questo caso è necessariamente nefasto perché contrario alla natura umana evoluta.


Come si può notare, la proprietà dirimente è data dalle preferenze politiche (legittime) dello psicologo evoluzionista, non certo da quelle dell'evoluzione darwiniana. È del tutto indifferente che una preferenza sia frutto o meno dell'evoluzione. Con il «modello standard delle scienze sociali» ci eravamo illusi di esserci liberati dal giogo degli istinti, d'accordo, ma qui siamo caduti dalla padella nella brace. Gli istinti esisteranno anche, ma non conta molto se poi scopriamo che sono in contraddizione gli uni con gli altri e possiamo eluderli secondo le circostanze.

Chiaramente ciascuno può difendere le proprie idee politiche come vuole, ma il punto controverso qui è che vengono presentate come conclusioni «scientifiche». Se confermiamo i valori a priori in cui crediamo — in certi casi assecondando la nostra natura biologica, in altri casi andando contro di essa — funzionerà sempre, con buona pace della logica e della scienza. Davvero «sorprendente» la conclusione di Rubin, quindi: «Questo lavoro giunge a una conclusione sorprendente: le nazioni moderne occidentali, e soprattutto gli Stati Uniti, sono le società che piú efficacemente appagano le nostre preferenze politiche evolutive» (ibid., p. 42). Aspettiamo ansiosamente che uno psicologo evoluzionista zulu ci spieghi in che modo le «preferenze politiche evolutive» siano — sorprendente coincidenza — meglio appagate dalla società zulu.

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Ricapitolando, le critiche alla psicologia evoluzionistica si possono raggruppare in sei categorie principali, che d'ora in avanti applicheremo ad altri casi concreti.

1. È dubbio che il cervello umano sia un computer progettato dalla selezione naturale per estrarre informazione dall'ambiente attraverso centinaia di «micromacchine» specializzate. Diverse scoperte neuroscientifiche smentiscono questa immagine semplificata, compresa l'ipotesi di ottimalità adattativa che la sottende (Marcus, 2008).

2. Le analisi funzionali prodotte dal programma di ricerca sono non soltanto difficilmente verificabili, ma in parte infalsificabili, per tre ragioni precise: a) un qualsiasi programma cognitivo attuale può essere ritenuto oggi adattativo oppure frutto di mismatch, in modo arbitrario di caso in caso; b) il richiamo ai fattori culturali è usato in modo strumentale per aggiustare i dati, senza una spiegazione delle reali interazioni tra fattori biologici e fattori culturali; c) le «storie proprio cosí» a cui si approda in molte analisi della psicologia evoluzionistica sono compatibili con qualsiasi dato sperimentale, purché si modulino di caso in caso gli elementi di intuitività e controintuitività di un comportamento umano, e postulando ad hoc una variabilità individuale o di popolazione. Come risultato, le teorie proliferano di ipotesi ausiliarie, di eccezioni e di clausole ad hoc, tutti segni, secondo la metodologia di Imre Lakatos (1978), che il programma di ricerca è regressivo e in decadenza.

3. L'ambiente di adattamento evoluzionistico ancestrale non è mai esistito nei termini di stabilità e di uniformità presupposti dalla psicologia evoluzionistica, cosí come è ormai smentita da piú parti l'idea che dal Neolitico in avanti non vi sia stata evoluzione (biologica e culturale) in Homo sapiens. Dunque l'intera base empirica di contesto della psicologia evoluzionistica è inadeguata.

4. Se anche per assurdo fosse esistito questo fantomatico ambiente ancestrale, è del tutto escluso che il cervello umano, che si sviluppa per due terzi dopo la nascita ed è profondamente influenzato dalle esperienze ambientali e sociali, sia ancora quello dell'età della pietra. Ciò presupporrebbe un gradualismo estremo e una dinamica problem-solving tra organismi e ambienti che non corrispondono alle nostre conoscenze attuali sull'evoluzione biologica.

5. Il metodo adattazionista dell'ingegneria inversa conduce spesso a risultati assurdi o banali, perché non sempre la forma segue necessariamente dalla funzione, l'attribuzione di adattamenti in base al «design» apparente è rischiosa, la storia filogenetica è importante, e i vincoli storici, fisici e di sviluppo non possono essere sottovalutati come rumore di fondo. Il principio di cautela si applica parimenti ai tratti neurali: trovare una regione discreta del cervello preposta a un determinato compito non implica necessariamente che essa sia un adattamento per quel compito.

6. Cosmides, Tooby e altri sono soliti citare un gruppo ristretto di autori (in primis Richard Dawkins , Edward O. Wilson e Daniel Dennett ) come rappresentanti del pensiero evoluzionistico nella sua interezza, come se fossero «la» biologia evoluzionistica. Non citano i testi fondativi o i manuali di riferimento della disciplina. Preferiscono affidarsi a una cerchia ristretta di evoluzionisti di fiducia, non tutti peraltro biologi e non tutti impegnati in ricerche sul campo. Il punto è che la psicologia evoluzionistica si fonda sull'applicazione inaccurata e tendenziosa di una versione ipersemplificata della teoria dell'evoluzione neodarwiniana (di tipo panselezionista) posta in seria discussione da molta parte dei biologi evoluzionisti (Lloyd, Feldman, 2002). L'armamentario teorico del programma di ricerca neodarwiniano attuale è molto piú ricco. La psicologia evoluzionistica non ha quindi titoli per presentarsi come l'interprete legittima di alcuna ortodossia.

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[...] Teniamo a mente che la teoria dell'evoluzione darwiniana ha una struttura bipolare: la discendenza comune con modificazioni (l'albero della vita) e la selezione naturale come (principale ma non unico) meccanismo (Sober, 2010). Ciascun polo fornisce evidenze indipendenti che corroborano o falsificano le assunzioni dell'altro polo. Da lí occorre ripartire, su «fondamenta» darwiniane opportunamente aggiornate ma anche piú fedeli all'originale (e a dire il vero poco spenseriane).

Fra queste, il principio darwiniano (enunciato alla fine dell' Origine dell'uomo) secondo cui l'evoluzione produce incessantemente cambiamento, e quindi novità. Produce novità nella continuità di un processo sospinto dalla selezione naturale e dagli altri fattori di cambiamento. In una fase che si colloca in Africa fra 80 e 60 000 anni fa, quel processo fa sí che una popolazione di Homo sapiens inizi a incidere oggetti con disegni simbolici, a dipingere caverne, a suonare il flauto, a seppellire i defunti con elaborati rituali, a inventare parole e associarle a oggetti, a adornarsi di gioielli. Poco dopo, quella stessa specie comincia a porsi domande sulla natura, sul cielo stellato e su se stessa. Siamo, fra tante, un'altra specie unica, sul piano anatomico, cognitivo e sociale. Come ha scritto Michael Ghiselin, l'evoluzione ci insegna che la «natura umana», se intesa come un'essenza monolitica definita una volta per tutte, è l'ultima delle superstizioni.


Nei capitoli che seguono proveremo a ripensare ad alcuni temi classici della psicologia evoluzionistica con in testa la convinzione che Homo sapiens non sia una banale macchina di istinti, programmata dalla selezione naturale nella savana paleolitica e ora lasciata a se stessa in un mondo alieno, ma una giovane specie in divenire, ultimo ramoscello di un albero cespuglioso di specie un tempo assai piú rigoglioso, uno fra i molti modi di «essere umani» che l'evoluzione ha sperimentato. Proveremo a inoltrarci, con prudenza e circospezione, nella pars construens di una possibile psicologia evoluzionistica del futuro. Come esseri umani, con 200 000 anni di evoluzione alle spalle e sottopelle un impasto di biologia e di cultura, non siamo stati sedotti e abbandonati dalla selezione naturale. L'evoluzione non ha ancora finito il suo lavoro con noi. L'evoluzione continua, con i buoni vecchi mezzi di una volta, e con qualcuno di nuovo.

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Pagina 108

La soluzione darwiniana: un egoismo imperfetto.

Nel 1871, ne L'origine dell'uomo, spaziando ora dall'evoluzione delle caste sterili negli insetti eusociali allo sviluppo della moralità umana, Darwin accoglie altre significative obiezioni all'«egoismo individuale» della selezione, aprendo alla possibilità di una competizione e quindi di una selezione tra famiglie, tribú e gruppi. È evidente che i comportamenti animali sono frequentemente altruistici - al punto da minacciare in alcuni frangenti la vita stessa dell'individuo - e che la cooperazione è ampiamente riconosciuta come una potente strategia evoluzionistica. Una parte di questi comportamenti può essere facilmente interpretata alla luce della selezione naturale classica, in quanto essi offrono vantaggi al contempo individuali e di gruppo, come nei casi di cooperazione nella caccia (si ottengono migliori risultati, sia individuali sia di gruppo, cacciando insieme), di mutualismo e di alleanze difensive. In questa categoria rientrano anche i tanti comportamenti altruistici con reciprocità, descritti negli anni settanta del Novecento da Robert Trivers: faccio un favore all'altro nell'attesa che mi venga prima o poi restituito, all'interno di una comunità dove sono importanti gli obblighi sociali e la reputazione (e dove ci sia buona memoria!)

È invece piú difficile spiegare l'origine di comportamenti sociali all'apparenza intuitivamente e spontaneamente altruistici, senza remunerazioni reciproche attendibili. Essi producono simultaneamente uno svantaggio per l'altruista e un vantaggio indiretto per l'egoista, che può approfittare delle azioni degli altruisti attorno a lui senza costi per se stesso. Che cosa innesca questi comportamenti? Perché i «battitori liberi» egoisti non prevalgono immediatamente, interrompendo ogni «esperimento» di cooperazione sociale incipiente? In fondo, l'evasore fiscale applica una strategia potentemente darwiniana: fa i propri interessi individuali, non paga niente e gode dei servizi finanziati con le tasse degli altri. Dovrebbe avere il massimo della fitness e riprodursi bellamente alle spalle degli altri. Invece (a parte alcuni paesi come l'Italia) le percentuali di questi soggetti devianti in una popolazione restano sotto controllo. Qui per Darwin una logica di soli individui non è piú sufficiente.

Nel caso dell'evoluzione umana, la nozione centrale per Darwin è quella di istinto sociale, che si sviluppa per selezione naturale da stadi piú elementari a espressioni piú complesse: il fondamento delle qualità morali e sociali risiede negli istinti sociali vieppiú raffinati, inclusi i vincoli familiari, l'«amore» e le emozioni di «simpatia». Nelle conclusioni dell' Origine dell'uomo, Darwin scrive che gli animali dotati di istinti sociali traggono piacere dalla compagnia l'uno dell'altro, si avvisano del pericolo, si difendono e si aiutano in molti modi. Tuttavia, «questi istinti non si estendono a tutti gli individui della specie, ma solo a quelli della stessa comunità. Poiché sono assai utili per la specie, probabilmente sono stati acquisiti attraverso la selezione naturale» (1871, ed. it., p. 969).

[...]

In linguaggio moderno: la selezione naturale fornisce alla mente umana la dotazione di istinti sociali che rendono possibile la socialità. Su questa «base per lo sviluppo del senso morale» si innestano altri fattori (culturali e ambientali) che portano, nella specie umana, alle qualità morali piú progredite, quelle che poco dopo Darwin definisce le facoltà superiori e piú nobili della mente umana. Quanto al peso relativo dei diversi fattori, l'evoluzione della moralità umana dipende oggi «molto di piú» dagli effetti educativi e culturali che non dagli istinti stessi, benché questi ultimi permangano come vincoli influenti del passato.

Proviamo a questo punto a ricapitolare l'articolata posizione darwiniana sull'argomento. Il vantaggio del singolo individuo è la premessa metodologica di fondo: sopravvivenza e riproduzione sono connesse agli organismi, le unità di base dell'evoluzione, e nessun «bene per la specie» è contemplato. Detto ciò, Darwin riconosce che la natura è ricca di tratti apparentemente svantaggiosi per gli individui portatori e adattativi a livello dei gruppi o delle colonie. Come può un comportamento prosociale essere favorito dalla selezione naturale? Se porta vantaggi in termini di sopravvivenza e di riproduzione alla comunità, è possibile che persino la morte del singolo (l'ape che ha punto) sia tollerata dalla selezione. È un sacrificio a favore dell'intero alveare. Nel caso invece della sterilità di intere caste all'interno di una specie, la selezione non ha lavorato sulla sterilità/fertilità della prole, ma sulle strategie riproduttive differenziali delle regine. Si instaura una sopravvivenza differenziale fra comunità (proporzionale al grado di divisione del lavoro), grazie alle diverse strategie riproduttive dei componenti fertili del gruppo. La selezione parentale (fra regine) gradualmente crea le condizioni per la selezione di gruppo (fra colonie).

Potremmo definire la posizione darwiniana come un «egoismo imperfetto» (Pievani, 2013a). Ovunque ve ne siano le condizioni e come spiegazione di base, il comportamento prosociale va ricondotto alla selezione individuale normale. Ma non è sempre possibile. Nell'evoluzione umana, a causa di particolari condizioni nella struttura e nell'ecologia delle popolazioni, la selezione può agire anche tra famiglie e tribú, favorendo al contempo la cooperazione e l'altruismo all'interno del gruppo (in group) e l'aggressività e la violenza fra gruppi (out group), anticipando quell'idea di ambivalenza del comportamento umano oggi sottolineata da Wilson e da altri autori, come Samuel Bowles su «Nature» nel 2008. Infine, nell' Origine dell'uomo leggiamo che la specie umana possiede capacità di raziocinio e di giudizio morale tali da permetterle di alimentare (o di contrastare) queste attitudini evolutive attraverso i tratti culturali, le abitudini e l'educazione, compresi il conformismo sociale e le funzioni coesive delle religioni. Esiste pertanto un'interazione causale tra fattori biologici e fattori culturali che produce l'evoluzione delle virtú morali umane.

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Pagina 138

[...] La cruda realtà è che Homo sapiens fa parte di un gruppo zoologico declinante, con poche specie sopravvissute, con antenati comuni vissuti dai 6 ai 16 milioni di anni fa. Con materiale cosí povero il metodo comparativo va applicato con scrupolo, anche perché è bene distinguere i comportamenti osservati in cattività da quelli registrati in natura.

Alcuni indizi ci sono: il dimorfismo sessuale (la differenza media di dimensioni fra maschi e femmine), per esempio, è proporzionale al grado di poliginia, e nell'evoluzione umana diminuisce molto con la comparsa del genere Homo, un genere quindi tendenzialmente monogamico. Ma è meglio non spingersi oltre nelle generalizzazioni. L'organizzazione sociale e riproduttiva dei primati a noi piú strettamente imparentati (scimpanzé, gorilla, oranghi e gibboni) è all'insegna della massima variabilità. Scegliendo ad hoc un'analogia superficiale si può scrivere tutto e il contrario di tutto: siamo monogami come i gibboni? O poligami come i gorilla? Solitari come gli oranghi? Versatili come gli scimpanzé? Bisessuali come i bonobo? Ce n'è per tutti i gusti fra gli ominidi.

Qual era l'organizzazione sociale ancestrale dell'antenato comune fra tutte le scimmie antropomorfe? Non lo sappiamo. E la socialità degli ominini, i membri della nostra sottofamiglia? Non lo sappiamo. In passato le specie ominine sono state tante e questo complica ulteriormente il quadro. Si dimentica infatti che fra noi e l'antenato comune con il genere Pan sono intercorsi sei milioni di anni di cambiamenti, realizzatisi nella bellezza di piú di venti specie, suddivise in almeno quattro generi distinti (ardipitechi, australopitecine, parantropi, Homo), ciascuna portatrice di un proprio mosaico di caratteri unici. Alcune forme non antenate nostre, come i massicci parantropi masticatori di tuberi, hanno pure loro il dimorfismo ridotto. L'evoluzione è sperimentazione, diversità, possibilità. E si declina sempre al plurale.

Non ha piú alcun senso utilizzare versioni moderne della scala naturae quando si parla di evoluzione umana, come se l'approdo a Homo sapiens fosse giunto al culmine di una sequenza di stadi lineari di trasformazione, con «antenati» che diventano «sempre piú intelligenti e piú sofisticati» in società vieppiú complesse (Rubin, 2002, ed. it., p. 59). In psicologia evoluzionistica è ancora abituale leggere descrizioni dell'evoluzione sociale umana come se fosse stata una passeggiata trionfale da H. habilis a H. erectus, a Neandertal e poi a H. sapiens. Siamo lontanissimi dalla realtà. L'evoluzione non è solo genealogie nel tempo, ma anche diversità nello spazio biogeografico. È diversità fra specie e diversità all'interno delle specie. I ritmi del cambiamento evolutivo variano molto da un ramo all'altro della filogenesi. L'instabilità ecologica e le contingenze ambientali hanno fortemente influenzato le diversificazioni di tutti gli ominidi. Di ramo in ramo, nel mosaico di tratti di ogni specie, un carattere può essersi evoluto per certe ragioni adattative iniziali in un dato ambiente e poi essere stato cooptato per tutt'altro.

Ma piú di ogni altra cautela conta il fatto che la teoria dell'evoluzione non è solo selezione naturale: è discendenza comune con modificazioni, l'albero della vita, la cui linfa è sospinta da processi selettivi, da derive genetiche, da cambiamenti ecologici su larga scala e da altri fattori storici (Pievani, 2010). Qui risiede la ragione profonda per cui la mera presenza di un carattere non implica che sia gioco forza un adattamento. Vediamo perché. Il fatto è che nella psicologia evoluzionistica mancano quasi completamente la filogenesi, cioè lo studio delle parentele genealogiche fra le specie, e il metodo comparativo. Facciamo un esempio. La spermatogenesi deve avvenire a una temperatura leggermente inferiore a quella del corpo. Il fatto che in alcuni mammiferi molto diversi fra loro - come un elefante, un dugongo, una procavia e un oritteropo - i testicoli siano stranamente all'interno del corpo, e non in una sacca esterna alla cavità corporea come in tutti gli altri, noi compresi, non è un adattamento spuntato chissà come in queste specie e non in altre. È piú semplicemente un'eredità filogenetica: quelle specie sono le ultime discendenti sparse di un antico gruppo di mammiferi africani, gli Afroteria, il cui antenato comune aveva evidentemente le gonadi maschili all'interno (Pilastro, 2007, pp. 190-91). Se ci mettessimo a cercare la funzione adattativa ottimale del tenere i testicoli dentro il corpo, in queste specie e non in altre, prenderemmo una serie di cantonate. Il tratto in sé non è adattativo, anzi è probabilmente costoso nella termoregolazione. È il frutto di pura storia, cioè della discendenza comune: dell'albero della vita.

Raramente è possibile ricostruire in modo lineare una storia, adattativa o meno che sia, dagli antenati ai discendenti attuali, come in un carosello di cambiamenti. Bisogna guardare alle specie imparentate, fare confronti tra mix di caratteri. Ogni tratto evolutivo, quindi, va innanzitutto studiato sul piano filogenetico e la spiegazione adattativa non è l'unica possibile. Facciamo un esempio: il bipedismo e la forma globulare del cranio sono due tratti di Homo sapiens; entrambi si sono evoluti; ma il primo è condiviso con molti altri ominini mentre il secondo è tipicamente nostro. Non avrebbe senso quindi sostenere che il bipedismo è un adattamento al nostro ambiente ancestrale. Quanto al cranio globulare, è solo nostro, ma è per forza un adattamento? O è forse un effetto collaterale di altre modificazioni, per esempio nello sviluppo? Per capirlo bisogna unire dati molecolari, morfologici e paleontologici, e fare comparazioni. Queste sono le cautele e le attenzioni che abbiamo imparato applicando il «tree thinking», il pensare per alberi (cioè per ramificazioni filogenetiche) che caratterizza la biologia evoluzionistica contemporanea.

[...]

Non tutto è adattamento. La storia conta. Non sempre utilità attuale e origine coincidono. Se cosí si dipana la storia naturale, non resta che concludere che l'ingegneria inversa è fuorviante come analisi funzionale dell'evoluzione animale, a maggior ragione in psicologia evoluzionistica. Dennett scriveva che Archaeopteryx aveva gli artigli, che gli artigli sono utili per arrampicarsi, e che quindi in Archaeopteryx si erano evoluti per l'arrampicata sugli alberi. Chi «pensa per alberi» sa che questa conclusione è avventata e può dimostrarlo. Archaeopteryx poteva usare i suoi artigli per arrampicarsi, ma li ha evoluti per questa ragione? Decisamente no. Basta infatti allargare lo sguardo sull'albero della vita e osservare che la struttura del piede dei teropodi in generale è molto simile e questi animali hanno già gli artigli. Difficilmente però un Tyrannosaurus o un Velociraptor salivano sugli alberi! Usavano gli artigli e i denti (che possiede anche Archaeopteryx) per cacciare. La filogenesi ci suggerisce quindi che gli artigli si sono evoluti molto prima di (e indipendentemente da) qualsiasi stile di vita arboricolo del nostro Archaeopteryx. Non ha senso affermare che gli artigli si sono evoluti per l'arrampicata: sono piuttosto un adattamento predatorio. Archaeopteryx li poteva usare anche per arrampicarsi (come una gallina odierna, peraltro), ma non sono stati selezionati per quella funzione.

[...]

Il pensare per alberi permette anche di evitare domande evoluzionistiche sbagliate. Per spiegare l'ovulazione nascosta delle femmine umane sono state proposte le piú svariate funzioni: obbligare i maschi a presidiare una femmina soltanto per essere sicuri della paternità, riducendo cosí la conflittualità fra maschi; impedire alle femmine di controllare il proprio stato di fertilità. Ma uno sguardo alla filogenesi ci mostra che non si tratta né di un adattamento recente né tipicamente umano (Laland, Brown, 2002). La maggior parte dei primati ha l'ovulazione nascosta, mentre i nostri cugini stretti scimpanzé e bonobo presentano l'ovulazione manifesta. Le femmine comunicano di essere in calore. Quindi sono questi ultimi ad aver sviluppato l'estro esplicito dopo la separazione dall'antenato comune con gli ominini. Allora la domanda non è: «perché le femmine sapiens hanno evoluto l'ovulazione nascosta?» La domanda interessante è: «perché le femmine di scimpanzé e di bonobo hanno l'estro manifesto?»

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Questo è un esempio di come potrebbe essere ripensata la psicologia evoluzionistica del futuro. Quella attuale si focalizza sul comportamento umano, lo scompone nei suoi ascendenti modulari e poi cerca di inferire storie evoluzionistiche. Bisogna invertire la logica. Poste tutte le cautele evoluzionistiche e le critiche precedenti, si dovrebbe ripartire dalla mole di dati accumulati fino a oggi nella psicologia animale e nella psicologia comparata animale e umana (come viene proposto per esempio nell'approccio etologico e comparatistico di Tartabini, 2012), interpretando questi dati secondo le metodologie filogenetiche piú aggiornate ed evitando di attribuire qualsiasi tratto disinvoltamente, in assenza di evidenze robuste, alla sola selezione naturale o sessuale. Siamo lontani dall'ingegneria inversa, perché si parte dagli animali e dai loro comportamenti reali (non da stereotipi sulla natura umana), per poi gettare prudentemente ponti con la psiche umana, ponderando caso per caso analogie e differenze, continuità e innovazioni, tra natura e cultura.

Il vantaggio di queste ricostruzioni «dal basso» è che si basano esclusivamente su dati empirici corroborati, per quanto frammentari, distinguendo accuratamente comportamenti che si presentano solo episodicamente nelle altre specie (e dunque sono soltanto il segno di una potenzialità di espressione) e comportamenti che iniziano invece a manifestarsi in modo sistematico (avendo quindi una presumibile pressione selettiva stabile che li fissa nella popolazione). È bene però ricordare che nessuno conosce in dettaglio quali forme di organizzazione sociale avessero le molte specie ominine che ci separano dall'antenato comune con gli scimpanzé. Il pericolo è quello di incappare nuovamente in narrazioni di progresso, da uno stadio all'altro, giusto un po' mitigate dalle cautele filogenetiche.

[...]

Dalle cure parentali alla consonanza empatica di intenzioni, la moralità umana non si sviluppa dal nulla, nel vuoto. Non sarebbe possibile elaborare un principio astratto di solidarietà se non avessimo già al nostro interno una propensione sociale: le condizioni di possibilità di quel giudizio morale vengono dunque dal basso, non dall'alto di un principio trascendentale o dogmatico. Fin qui gli elementi di continuità. È il proseguimento del programma di ricerca dell' Origine dell'uomo di Darwin: non c'è differenza fondamentale fra l'uomo e i mammiferi superiori in fatto di facoltà mentali. Lo scimpanzé però non sembra possedere le caratteristiche di un «essere morale», nel senso che non ha un giudizio morale argomentato attraverso ragioni astratte, non possiede principi universali che abbraccino, per esempio, la «dignità assoluta della vita umana». Inoltre, non discute di valutazioni sul bene, e sul male di comportamenti e azioni che non lo riguardano direttamente. E ancora, non ha giudizi sulla «naturalità» o meno di un comportamento sessuale, sperimentando liberamente come sappiamo l'eterosessualità, l'omosessualità e la bisessualità. In altri termini, non manifesta astrattezza e ambizioni di coerenza logica di un sistema di norme morali. Del resto, perché dovrebbe?

[...]

La forte innovazione comportamentale umana non è una disobbedienza né una rivoluzione né un salto ontologico né alcunché di drammatico. Il processo della selezione naturale, continuativo e amorale, va infatti distinto dai suoi possibili prodotti, fra i quali un essere capace di giudizio morale e di decisioni che indeboliscono (ma non annullano) gli effetti stessi della selezione naturale sulla specie umana. Se invece, contrariamente a Darwin, pensiamo che la selezione sia l'unico, assoluto e onnipotente meccanismo di cambiamento evolutivo, allora qualsiasi deviazione dal processo sarà giudicata impossibile: un tradimento del presunto «algoritmo darwiniano universale». Ma non è cosí. L'evoluzione coltiva nel suo seno la novità, anche radicale. L'evoluzione, a differenza degli ultradarwiniani, evolve. E noi, semplicemente, ci siamo evoluti a modo nostro.

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Non istinti specializzati, ma precursori naturali.


La proposta, in sintesi, è quella di sostituire gli «istinti del ragionamento» specializzati, tanto amati dagli psicologi evoluzionisti, con la nozione di «precursori naturali». Le competenze, le preferenze, le predisposizioni, le attitudini che hanno un'origine evolutiva sono vincoli che il passato ci restituisce. Come tali, influenzano i nostri modi di pensare e di agire. Si pensi alle intuizioni della psicologia ingenua e della fisica ingenua con le quali siamo equipaggiati fin dalla nascita, senza bisogno di apprendimenti specifici iniziali: spazio, tempo, rapporti di causa-effetto, aritmetica. Si tratta di dotazioni che Homo sapiens condivide con una vastissima schiera di animali, dai mammiferi agli insetti, e che pertanto non solo non sono specie-specifici ma non sono nemmeno adattamenti alla vita tutto sommato recente dei cacciatori-raccoglitori pleistocenici. È un patrimonio filogenetico molto piú antico. Oggi sappiamo che anche gli uccelli sono in grado di compiere addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni, divisioni e operazioni d'ordine (Rugani et al., 2009).

Queste competenze filogenetiche profonde costituiscono i precursori naturali della cognizione umana, per esempio nella transizione dalla geometria naturale intuitiva alla cognizione spaziale (Tommasi et al., 2012), o dalle rappresentazioni non verbali della numerosità allo sviluppo del concetto di numero. Non solo, esse limitano e incanalano le nostre possibilità di apprendimento. Non possiamo imparare indefinitamente qualsiasi cosa: in alcuni casi l'apprendimento è piú facile e spontaneo, in altri meno. I precursori naturali sono innati, universali, evoluti, ma non ci portano alle affrettate conclusioni iperadattazioniste della psicologia evoluzionistica. Ancora una volta: un conto è sapere che si sono evoluti (e non c'è alcun dubbio), altro conto è ipotizzare come si sono evoluti, cioè attraverso quale storia reale di adattamenti, exaptations, vincoli, contingenze storiche e ambientali sono stati declinati nella specificità umana.

I precursori naturali condividono con gli istinti il fatto di essere innati, universali e influenti fin dalla nascita senza uno sforzo cosciente, senza esperienze specifiche o istruzioni. Presentano però quattro distinzioni salienti: 1) sono vincoli filogeneticamente molto antichi, non hanno il grado di specializzazione modulare previsto dalla psicologia evoluzionistica e sono cooptati dalla selezione naturale al mutare delle circostanze (quindi la loro funzione attuale non coincide necessariamente con la loro origine storica); 2) tali cooptazioni sono accentuate dal fatto che la specie umana è un'incessante costruttrice delle proprie nicchie ecologiche, sul piano sia biologico sia culturale; 3) in alcuni casi questi precursori naturali hanno oggi una bassa cogenza nello sviluppo, il che fa sí che possano essere controbilanciati dall'educazione e dai condizionamenti ambientali; 4) gli uni in relazione agli altri possono essere contraddittori e ambivalenti, perché risultato di pressioni selettive antagonistiche e di ripetute cooptazioni funzionali.

I punti 2 e 3 sottolineano l'importanza di una teoria delle interazioni tra fattori biologici e fattori culturali per comprendere il ruolo di queste propensioni evolutivamente sedimentate.

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Capitolo quinto

Il Santo Graal del linguaggio

A proposito dello smodato interesse per «ciò che ci rende umani»


Dove si discute di altre dicotomie infondate, questa volta applicate all'evoluzione del linguaggio umano, con chomskyani allergici all'evoluzione e ultradarwinisti dal grilletto facile, e si propone una terza via in cui continuità e innovazione non sono viste in contrapposizione: l'evoluzione è un mosaico di adattamenti e di «exaptations».


Adesso tra l'alieno e lo psicologo evoluzionista c'è reciproca curiosità. Si annusano e si aprono spiragli di condivisione inaspettati. Il messaggio del capitolo precedente è che non è necessario aderire all'adattazionismo di principio della psicologia evoluzionistica per concordare sul fatto che persino la morale abbia avuto una sua storia evolutiva continuativa. È nata dal lavorio della natura, non dall'alto o da un "nessun luogo" esterno. Tutto ciò non implica, però, che la si voglia banalmente ridurre alla sola biologia. Se smetterete di pensare che la cultura sia un salto ontologico o una nuova dimensione dell'essere, rifugiandovi cosí in una non spiegazione - nota l'alieno - potrete finalmente apprezzarla nella sua radicale novità. Nell'evoluzione compaiono innovazioni senza precedenti, che cambiano il mondo e cambiano persino le regole del gioco evolutivo, ma che non per questo smettono di essere integralmente il frutto di una storia naturale. E cosí ci riavviciniamo al linguaggio umano, quel prodigio di ottimalità tutto-o-niente che a tanti studiosi, anche naturalisti, è parso cosí unico e formidabile da non poter avere un passato evolutivo.

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L'ecologia del comportamento umano.


Siamo dunque dinanzi sia a un cambiamento teorico (il programma di ricerca evoluzionistico è cambiato e certe guerre sono finite) sia all'accumulo di nuovi dati e di nuove domande di ricerca. Aggiungiamo qualche altro indizio. Lo studio dell'evoluzione umana è in questi anni soggetto a notevoli e appassionanti aggiornamenti, con profonde revisioni di modelli antiquati che si erano trascinati per decenni (Manzi, 2013). Inoltre, gli intrecci fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale allontanano sempre piú l'idea di poter ridurre l'una all'altra. La nostra specie nasce anatomicamente in Africa intorno a 200 000 anni fa, ma esibisce in modo sistematico i tratti tipici dell'intelligenza simbolica soltanto a partire da 60 000 anni fa, dopo una serie di avvisaglie precedenti riscontrate nel continente africano (Cavalli Sforza, Pievani, 2011). Un'importante domanda di ricerca dei prossimi anni riguarda proprio i rapporti tra queste due «nascite» apparentemente distinte di Homo sapiens: la prima anatomica e morfologica, la seconda cognitiva e comportamentale. Discipline molto diverse fra loro — come paleontologia, biogeografia, paleoecologia, biologia molecolare, archeologia, demografia — sono indotte a collaborare e a far convergere i loro dati, per capire in che modo la rapida e tumultuosa evoluzione culturale umana si è innestata in quella biologica, piú lenta. Quale ruolo ha avuto il linguaggio articolato? È anche questa una premessa nuova per definire meglio i rapporti tra la facoltà di parola, e i correlati biologici che la sottendono, da una parte, e dall'altra l'evoluzione delle lingue storiche, senza colonialismi disciplinari ma anche senza considerarli universi inconciliabili.

In sordina, l'«ecologia del comportamento umano» da una quindicina d'anni si occupa proprio dell'evoluzione del comportamento umano in relazione ai cambiamenti nelle condizioni ecologiche (in senso lato: fisiche, biologiche, sociali). Secondo una recente panoramica di questi studi apparsa su «Behavioral Ecology» (Nettle etal., 2013), la sua metodologia è in esplicito contrasto con la psicologia evoluzionistica: niente ipotesi speculative su ambienti ancestrali, niente questionari qualitativi, niente situazioni sperimentali astratte, niente simulazioni e giochi, niente generalizzazioni semplificate sugli «universali umani». Al loro posto: dati quantitativi diretti e su larga scala (attraverso aggiornate statistiche demografiche e sociali) riguardanti i comportamenti umani (in tre domini principali: produzione del cibo; distribuzione sociale; riproduzione), gli ambienti e i loro vincoli, le comparazioni fra le popolazioni, le relazioni filogenetiche fra i ceppi del popolamento umano. Anche qui l'ipotesi di partenza delle analisi è graniticamente evoluzionistica (strategie adattative per massimizzare la riproduzione), ma l'esito è opposto a quello degli psicoevoluzionisti: Homo sapiens deve la sua fortuna alla variabilità, all'adattabilità a contesti eterogenei, alla plasticità, all'apprendimento sociale, alla trasmissione culturale e alla diversità culturale (la cui produzione nella nostra specie è eccezionale). Tutti, a modo loro, adattamenti bioculturali, imparentati con la plasticità dell'intelligenza sociale che si nota anche in altri primati.

[...]

In sintesi, abbiamo a disposizione un ricco e rinnovato armamentario per capire in che modo l'evoluzione biologica è stata precondizione di quella culturale e come i due processi ancora oggi interagiscono (Richerson, Boyd, 2005). Ora dobbiamo imparare a usarla per aprire terreni inediti di confronto con altre discipline, distinguendo però con precisione ambiti di ricerca che hanno finalità differenti, in particolare:

1. la ricerca delle precondizioni del linguaggio come facoltà umana (i «building blocks», sia nella filogenesi sia nell'ontogenesi), coinvolgendo etologia cognitiva, antropologia fisica, neuroscienze, e la loro messa in comparazione con i substrati fisiologici in altre specie;

2. l'individuazione di possibili modelli evoluzionistici per l'emergere del linguaggio umano e delle sue successive diversificazioni, compito assai piú delicato del precedente perché implica l'individuazione non soltanto delle cause prossime del linguaggio (le sue condizioni biologiche di possibilità) ma anche la ricostruzione delle sue cause remote, cioè storiche, attraverso i pattern plurali messi a disposizione dal programma di ricerca evoluzionistico contemporaneo;

3. nel mezzo, si profilano sovrapposizioni specifiche di modelli che richiedono adeguate interpretazioni, in particolare fra alberi genealogici genetici e linguistici (a) e fra le distribuzioni della diversità biologica e della diversità linguistica (b).


Ridefinito in questo modo il «paesaggio» teorico del confronto, possiamo evitare alcuni fraintendimenti. Notiamo, per esempio, che la comparazione tra le capacità linguistiche umane e non umane (ambito 1) di per sé offre solo un indizio, insieme ad altri, per possibili ipotesi evoluzionistiche (ambito 2). Le scimmie antropomorfe con le quali ci confrontiamo non sono nostri antenati diretti, ma cugini che hanno avuto milioni di anni di evoluzione autonoma rispetto a noi. Ciò che condividiamo può essere appartenuto al nostro antenato comune (probabile nel caso di omologie strutturali) oppure essersi evoluto in parallelo per convergenza adattativa (probabile nel caso di comportamenti funzionali per la sopravvivenza in ambienti simili). Qui dobbiamo cercare le componenti piú antiche del linguaggio, i suoi precursori naturali.

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Come si può notare l'evoluzione non è un'ottimizzazione funzionale, ma un gioco di compromessi fra pressioni selettive antagoniste, e fra pressioni selettive e vincoli di sviluppo, in transizioni che avvengono a mosaico con piú specie coinvolte. Non mira all'ottimalità, e pur tuttavia riesce a generare innovazioni spettacolari. Dunque la neotenia è importante per le ragioni esattamente opposte a quelle enfatizzate dagli psicologi evoluzionisti: essa fa sí che la nostra specie abbia un cervello malleabile che si sviluppa per due terzi dopo la nascita, un cervello letteralmente plasmato sul piano fisiologico dalle esperienze individuali, dall'educazione, dagli influssi ambientali, dalla società e dalla cultura di appartenenza. E dato che le condizioni in cui si sviluppano i cervelli oggi sono completamente diverse — per esplicita ammissione degli stessi psicologi evoluzionisti — da quelle del Paleolitico, non vi è ragione alcuna per pensare che il nostro cervello sia ancora «fermo all'età della pietra». Tutto ciò, si noti, non perché la cultura litiga con la biologia o la tradisce, ma perché la cultura può essere un'ottima (anche se talvolta costosa) strategia adattativa, basata sulla plasticità fenotipica e dello sviluppo, in un mammifero sociale capace di adattarsi ad ambienti molto diversi.

Questa modificazione neotenica nel processo di sviluppo, grazie all'apprendimento sociale e imitativo, potrebbe aver favorito l'equipaggiamento cognitivo necessario per l'emergere dell'intelligenza simbolica tipica di Homo sapiens (e finora riscontrata solo occasionalmente nei Neandertal). Il problema è che apparentemente i prodotti tipici di questa intelligenza (sepolture rituali, ornamenti corporei, pitture rupestri, incisioni, sculture, variazioni culturali regionali e cosí via) compaiono tutti insieme e tardivamente, non prima di 75 000 anni fa. Un «pacchetto modernità» consegnato in ritardo. Come mai?

Dopo la sua speciazione africana di circa 200 000 anni fa, Homo sapiens è uscito dal continente a piú riprese, a partire si pensa da 120 000 anni fa. La prima ondata di popolamento del Medio Oriente non sembra avere avuto successo (tanto che si trovano siti neandertaliani posteriori a quelli di H. sapiens nella valle del Giordano). Una possibile seconda ondata, intorno a 85 000 anni fa, portò i nostri simili lungo le coste della penisola arabica e dell'oceano Indiano verso est, ma anch'essa sembra interrompersi, forse a causa dei cambiamenti climatici. In queste ondate si notano i primi segni di intelligenza simbolica (per esempio collane di conchiglie lavorate e colorate), ma niente di comparabile all'esplosione che comincia 60 000 anni fa.

I gruppi di cacciatori e raccoglitori sapiens hanno incontrato altre forme umane (i Neandertal in Europa e Asia, i Denisoviani sui Monti Altai, e forse anche il piccolo ed elusivo Homo floresiensis in Indonesia) e sono rimasti da soli dopo un'ultima espansione fuori dall'Africa (intorno a 60 000 anni fa) da parte di gruppi, di origine sudafricana (Jacobs, Roberts, 2009), che per la prima volta mostravano un comportamento cognitivamente moderno. La paleoecologia, la demografia e la biogeografia della nostra specie, associate ai resti di comportamenti cognitivamente moderni, sembrano confermare questo quadro della «grande espansione umana» (Pievani, 2012d; Henn, Cavalli Sforza, Feldman, 2012). Qualcosa di importante si nasconde in quella «ondata finale».

I dettagli dell'impresa sono rivelatori. In Sudafrica, fra 71 e 60 000 anni fa, si notano alcune «fiammate di innovazione» culturale e tecnologica, associate a espansioni di popolazione e a migrazioni (Jacobs, Roberts, 2009). Grazie a sistemi di datazione sempre piú precisi, è oggi possibile individuare la durata di queste punteggiature episodiche, frutto di innovazioni comportamentali e tecniche (come la cultura delle punte di Still Bay, fra 71 e 70mila anni fa, e la cultura di Howieson's Poort fra 65 e 60mila anni fa). Secondo gli studiosi, le espansioni di popolazioni - alternate a contrazioni e prodotte dalle fluttuazioni climatiche - influenzarono le reti sociali e crearono la massa critica per queste innovazioni. A loro volta, retroattivamente, le novità culturali favorirono il successo ecologico di questi gruppi, alimentando la fiammata di innovazione e la fuoriuscita di queste genti dalla regione. L'ipotesi è che, dopo vari tentativi falliti in Sudafrica, dove il clima era particolarmente favorevole, una di queste fiammate abbia condotto al successo duraturo di una popolazione umana portatrice di comportamenti sociali e culturali piú avanzati. Una traccia molecolare, nascosta nel Dna dei mitocondri, lo confermerebbe.


L'ipotesi dell'«ondata finale».

Che cosa avevano di tanto nuovo questi nostri antenati cosí intraprendenti e mobili, e cosí mentalmente diversi dai loro predecessori che pure erano già anatomicamente sapiens? Forse una rivoluzione culturale, come pensa Ian Tattersall , innescata dal completamento dello sviluppo del linguaggio articolato e dalle sue conseguenze exattative sia sull'organizzazione sociale sia sull'universo mentale e comunicativo (ricorsività, astrazione, innovatività permanente), (Tattersall, 2012). Oppure si trattò della nascita della progettualità astratta prodotta da una nuova organizzazione neurale e da un nuovo tipo di processo cognitivo computazionale, che purtroppo non lascia segni fossili ma che si può ipotizzare da studi sul coordinamento delle aree cerebrali (Amati, Shallice, 2007). O ancora, secondo un sunto recente apparso su «Nature Neuroscience», l'esplosione culturale di Homo sapiens potrebbe essere stata guidata da poche mutazioni nell'espressione di alcuni geni coinvolti nella genesi delle sinapsi e nella regolazione dello sviluppo (Somel, Liu, Khaitovich, 2013). L'evoluzione del cervello umano e della sua fluidità cognitiva ha avuto comunque due fasi ormai evidenti: un lungo trend graduale di espansione e di riorganizzazione della corteccia (da 2,4 milioni di anni fa), seguito da una fase recente (in Homo sapiens) di abnorme rimodellamento nello sviluppo di alcune regioni. Forse aveva ragione François Jacob nel dire che siamo figli di un bricolage cerebrale, con un encefalo sproporzionato in certe parti e cresciuto troppo rapidamente.

In Sudafrica un gruppo, caratterizzato da particolari variazioni nel Dna dei mitocondri (la variante L3), riscuote un successo demografico ed ecologico senza precedenti. Si sposta e migra nelle altre regioni del continente africano. È possibile che proprio questa popolazione sia stata la protagonista della terza ondata fuori dall'Africa, intorno a 60mila anni fa. Sorprendentemente, tutti gli esseri umani di oggi, non africani, portano infatti con sé un Dna mitocondriale che deriva da quella variante L3. Anche se non c'è connessione tra tale materiale genetico e le facoltà cognitive, l'ipotesi è che questo gruppo di successo portasse con sé gli elementi dell'intelligenza simbolica (Jacobs, Roberts, 2009).

Si tratta di un momento cruciale perché quelle fiammate di innovazione potrebbero corrispondere al momento in cui l'evoluzione culturale umana scaturisce letteralmente dalla biologia (e dall'ecologia umana). Preceduta anch'essa da molti precursori, la cultura di Homo sapiens comincia a correre per conto suo, trasformandosi e diversificandosi di pari passo con le separazioni di gruppi umani. Da lí in poi, l'evoluzione biologica della nostra specie sarà sempre piú condizionata da quella culturale, perché la nostra specie modifica l'ambiente attorno a sé e quindi modifica anche le pressioni selettive che retroagiscono su di essa. Diventiamo assidui costruttori delle nostre nicchie ecologiche, sempre piú culturalmente impregnate. Come hanno scritto di recente Simon E. Fisher e Matt Ridley su «Science» (2013), i cambiamenti culturali hanno modificato le nicchie ecologiche umane, favorendo la comparsa di nuove variazioni genetiche. Questa «evoluzione genetica guidata dalla cultura» potrebbe spiegare anche la rivoluzione dell'intelligenza simbolica in Africa.

La coevoluzione fra geni e cultura accelera il processo evolutivo e si basa sull'assunto che le specie, soprattutto quelle sociali, modificano e «costruiscono» le nicchie ecologiche in cui sono immerse (Odling-Smee, Laland, Feldman, 2003). Le popolazioni biologiche non si limitano cioè a subire passivamente una sequenza di problemi preesistenti, posti dall'ambiente, atomizzati, ma modificano attivamente (con il metabolismo, la ricerca del cibo, la costruzione di ripari, gli spostamenti) i parametri ecologici esterni e con essi il quadro delle pressioni selettive che poi retroagiranno su di loro. Il banale problem-solving della psicologia evoluzionistica è davvero acqua passata.

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Malintesi relativismi.


Gli invasori hanno ucciso, torturato e depredato molto di piú, non c'è dubbio, e non dobbiamo stancarci un momento nel denunciare l'estinzione di massa vergognosa delle culture native e l'omologazione forzata delle diversità culturali che prosegue in tutto il mondo nell'indifferenza generale. La diversità culturale, benché sia stata nella storia umana corresponsabile di conflitti e violenze, è un valore intrinseco da ritenersi in tutto e per tutto pari a quella biologica. Del resto, diversità culturale e biodiversità si sono evolute insieme: dove è ricca l'una è ricca anche l'altra (Pievani, Serrelli, 2007). Ora vanno difese insieme, come ha proposto a piú riprese proprio Edward O. Wilson (2002). Dunque, non vale alcun argomento assolutorio del tipo «siamo tutti cattivi, pari e patta».

Ma questo è forse un motivo valido per prendersela con un libro che racconta come anche loro abbiano ucciso e fatto la guerra in determinate circostanze? Siamo sicuri di difenderli correttamente idealizzandoli in questo modo per nostre esigenze polemiche tutte occidentali? I capi di alcune tribú della Papua Occidentale si sono risentiti per le ricostruzioni a loro avviso fuorvianti dei conflitti fra gruppi, riportate nel libro di Diamond. La protesta è rimbalzata sui siti occidentali ed è stata fatta propria da alcuni movimenti di difesa dei nativi. Ma perché dobbiamo automaticamente considerare piú attendibile il punto di vista interno di un capo villaggio o di uno stregone rispetto a quello di uno studioso che ha lavorato sul campo per decenni e che propone statistiche e comparazioni? La difesa delle diversità culturali non dovrebbe spingerci fino ad assecondare tutti i particolarismi solo perché sono «diversi».

Come notava Giovanni Jervis criticando un malinteso «relativismo» multiculturalista (2007), in certi dibattiti sembra quasi che le posizioni tradizionali abbiano acquisito uno status di extraterritorialità: sono insindacabili. Cosí però le diversità culturali smettono di essere esplorazioni di possibilità umane, in osmosi l'una con l'altra, e diventano gabbie concettuali, ghetti chiusi, nidi di fanatismo ed estremismo. Non vi è alcunché di illegittimo nel difendere l'universalità di alcuni valori di base del pensiero laico e democratico, e affermare con serenità e fermezza che chi per esempio distrugge opere d'arte millenarie, o proibisce la musica e la danza, o impicca un ragazzo omosessuale per motivi religiosi è fuori dal consesso della civiltà. Non è un «diverso», è un nemico di qualsiasi possibilità di convivenza umana perché lede l'universalità dei diritti fondamentali.

La polimorfa società industrializzata, inquinante e schiacciante, ci coinvolge tutti, con i nostri desideri e i nostri consumi: non basta radicalizzare una buona causa per illudersi di essersene tirati fuori. Lo sguardo eterodosso di Diamond — un po' biologo, un po' fisiologo, ornitologo, antropologo, geografo, ecologo — ha questa colpa imperdonabile: il decentramento dell'approccio evoluzionistico, che svela la radicale ambivalenza di noi loquaci mammiferi sociali. È innamorato degli ultimi cacciatori-raccoglitori rimasti, ma tenta comparazioni che i militanti non amano. Investigando le sue tanto care «cause remote» e non soltanto quelle prossime, si avventura con fare naïf in territori presidiati, da un secolo e mezzo, da scontri accademici all'arma bianca fra culturalisti ed evoluzionisti. Ha l'ardire di rifiutare qualsiasi essenzialismo (compreso quello di chi attribuisce agli uni o agli altri particolari meriti cognitivi e biologici innati) e di puntare tutto sulle contingenze ambientali che hanno spostato i destini dei popoli. Cerca di mettere insieme, caso per caso, invarianti oggettive e tratti storico-culturali indipendenti, dati quantitativi e qualitativi. Gli piace il rischio e continua a camminare sul suo filo teso. Per chi sta sotto, è piú rassicurante raggomitolarsi nel proprio senso di colpa e travasarlo nella nostalgia per un tempo che non è mai esistito.

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Epilogo. Non siamo i Flintstones

Per una scienza integrata del comportamento umano


Ricordate in che modo aveva preso avvio il dialogo fra l'alieno e lo psicologo evoluzionista nel nostro Prologo? Era un'esemplificazione buffa per mostrare come pertinenza e rilevanza siano due concetti distinti. Considerare l'evoluzione biologica è senz'altro pertinente, e in molti casi importante se non essenziale, per capire meglio i comportamenti umani e le loro motivazioni. Non è detto però che sia rilevante per spiegare come mai vostro zio apprezza di piú Bach rispetto a Mozart, o perché la nonna nel segreto dell'urna quella volta ha votato un partito anziché un altro. La cultura, l'educazione, e soprattutto la storia — nella sua irriducibile unicità — contano. Queste ultime non sono dimensioni estranee alla biologia, ma interagiscono con essa e rientrano a pieno titolo nel mondo dei fenomeni naturali, in particolare rientrano nei modi attraverso cui la mente umana sta continuando ad adattarsi e a riadattarsi alle mutevoli condizioni ambientali. L'evoluzione è cambiamento, un cambiamento che rifugge dalle dicotomie facili. È continuità e innovazione, specializzazione e plasticità, risposta a pressioni esterne e costruzione di nicchie, universalità e variabilità.

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