Copertina
Autore Guido Viale
Titolo Virtù che cambiano il mondo
SottotitoloPartecipazione e conflitto per i beni comuni
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2013, Serie Bianca , pag. 160, cop.fle., dim. 13,5x20,2x1,3 cm , Isbn 978-88-07-17259-5
LettoreSara Allodi, 2013
Classe beni comuni , politica , sociologia , paesi: Italia: 2010
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Indice


  7 Presentazione


 11 Dignità

    Servilismo e meritocrazia, 11;
    L'"eclissi del desiderio", 14;
    Un'invariante storica, 15;
    Un fiume carsico, 16;
    L'antiautoritarismo in fabbrica, 18;
    Il ritorno degli indignati, 19

 21 Accoglienza

    Servilismo e razzismo, 21;
    Una progressione micidiale, 21;
    Uno "spazio vitale" anche per l'Europa?, 23;
    Un popolo senza Gerusalemme, 24;
    Vite di scarto, 25;
    Razzismo e carriere, 26;
    Un'altra storia è possibile, 27;
    Samia, 29

 31 Empatia

    Fiuto e olfatto, 31;
    Affinità e competitività, 32;
    Mettersi nei panni degli altri, 33

 35 Sobrietà

    La Terra non ci appartiene, 35;
    La manutenzione del pianeta, 36;
    Il nostro posto nel mondo, 37;
    Vite che si dileguano, 38;
    Azzerare i rifiuti, 39

 41 Conoscenza

    Schizofrenia dell'establishment, 41;
    La dittatura dell'ignoranza, 43;
    La democrazia economica, 46;
    Cultura e democrazia, 47;
    Congiungere lotte e saperi, 49;
    Mettere al lavoro la creatività, 50

 52 Immaginazione

    Produrre meglio, consumare meno, 52;
    Cambiare stile di vita, 54;
    Il consumo condiviso, 56;
    Uno spazio pubblico, 57;
    In guerra contro la crisi ambientale, 58

 60 Concretezza

    Cambiare si può, 60;
    La replicabilità, 61;
    Green economy? No grazie, 63;
    La riconversione produttiva, 63;
    La riterritorializzazione, 64;
    I servizi pubblici locali, 66

 68 Trasparenza

    Studiare il debito, 68;
    Un audít pubblico, 70;
    La spending review, 71;
    Chi controlla il controllore?, 72

 74 Costanza

    Uno scontro di civiltà, 74;
    Fare comunità, 74;
    "A sarà düra!", 76;
    Un'armata grande, potente e feroce, 77;
    Il subappalto, 78

 80 Modestia

    Superare il capitalismo?, 80;
    Un alibi, 81;
    La corsa verso il disastro, 82;
    Un'alternativa c'è, 82

 85 Condivisione

    Il ritorno dei beni comuni, 85;
    Pubblico e comune, 86;
    Una teoria dei beni comuni, 87;
    Beni comuni e bene comune, 89;
    Una versione autoreferenziale, 91;
    La "sovranità del consumatore", 92;
    Beni comuni e lotta di classe, 95;
    Il rapporto con il territorio, 96;
    Il legame sociale, 97;
    La lotta contro l'appropriazione, 98

102 Autonomia

    Il ciclo della partecipazione, 102;
    La via della deprivazione, 105;
    Il fordismo, 108;
    La civiltà dei consumi, 110;
    Ascesa e declino del mutualismo, 112;
    La dissoluzione di cultura e politica, 114;
    L'esproprio radicale, 116;
    La capacitazione, 117;
    Eclissi e rinascita di un agire condiviso, 120

122 Intraprendenza

    L'open source, 122;
    La strada bene comune, 124;
    La distruzione dello spazio pubblico, 126;
    Un esercizio quotidiano di competitività, 127;
    Cambiare la condizione urbana, 129;
    GAS e Grande distribuzione, 130;
    Un paradigma della conversione ecologica, 131;
    Gli orti urbani, 133;
    Le Transition Towns, 135;
    Le monete locali, 136;
    Il co-housing, 137;
    La de-medicalizzazione, 139;
    Il reddito minimo garantito, 140

142 Cura

    La raccolta differenziata, 142;
    Riparare invece di buttare, 144;
    Demolire per recuperare, 146;
    Il riuso creativo, 149;
    "Lavoro bene comune"?, 151;
    La riconciliazione con "madre Terra", 154

155 Bibliografia


 

 

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Pagina 7

Presentazione



Questo non è un breviario di "devozioni domestiche" né un manuale di edificazione personale. È, o vuole essere, un manifesto politico per promuovere e sviluppare conflitti, campagne, lotte e organizzazione. I manifesti servono. Aggregano le persone e le organizzazioni che ne condividono i contenuti e contribuiscono a costruire la forza collettiva necessaria alla loro affermazione. Le "virtù" di cui qui si parla sono infatti scelte, orientamenti, saperi, comportamenti e abitudini che nascono, si sviluppano e hanno effetto solo in un ambito di condivisione e in contesti in vario modo conflittuali nei confronti delle classi dominanti, delle loro istituzioni, del loro potere; ma anche nei confronti dell'isolamento, dell'individualismo e di quella competizione di tutti contro tutti che costituiscono i tratti dominanti della nostra epoca e dell'ambiente sociale in cui siamo immersi.

Ovviamente l'elenco di questa trattazione non vuole essere esaustivo né si pretende "obbligato": ci sono probabilmente molte altre virtù necessarie per aprirsi la strada verso un mondo migliore e di alcune di quelle qui elencate forse si può fare a meno; o magari catalogarle sotto altre voci. Mancano per esempio da questo elenco virtù come onestà, sincerità, franchezza; perché, più che virtù in se stesse, considero queste qualità delle pre-condizioni di qualsiasi agire, parlare o pensare virtuoso, cioè efficace ai fini della trasformazione del mondo e della condizione umana. Non esiste infatti prospettiva alcuna per una comunità che accetti nei propri rapporti reciproci, senza reagire, menzogna, imbrogli o ipocrisia; ne abbiamo le prove davanti agli occhi tutti i giorni. Inoltre non viene tematizzata come virtù la giustizia; perché la giustizia, senza ulteriori determinazioni, è una virtù troppo "elastica", che per molti può includere o essere compatibile con la pena di morte, con la guerra, con le stragi da "danni collaterali", con la miseria, la fame, lo sfruttamento feroce del lavoro, con la devastazione ambientale, con le iperboliche differenze di reddito, di potere, di possibilità che caratterizzano il mondo di oggi. Giustizia acquista un significato vero solo se accompagnata per lo meno dagli aggettivi "sociale" e "ambientale"; cosa che in questo testo si cerca di fare, sempre tenendo ferma la differenza tra legalità, cioè conformità alle leggi, e legittimità, cioè corrispondenza alle esigenze e alle aspirazioni dei contesti conflittuali con cui ci si mette in rapporto.

Ma tutte le virtù di cui qui si parla possono comunque costituire una base sufficiente per costruire in tutte e in tutti noi capacità di orientare e di gestire la cosa pubblica in forme completamente nuove: quelle capacità necessarie per esautorare e sostituire - con altri metodi e con un diverso rapporto con le comunità che oggi ne subiscono il dominio - quel conglomerato di élite, non solo finanziarie e politiche, ma anche imprenditoriali, manageriali, amministrative e culturali, ormai palesemente incapaci di emendarsi e di garantire un futuro sia al nostro paese sia, più in generale, al pianeta in cui viviamo. Si tratta infatti di virtù che garantiscono comunque a tutti un'apertura verso un "mondo diverso", un mezzo per sottrarsi all'attesa impotente del disastro economico o della catastrofe ambientale che incombono sul nostro futuro e che rischiano di avere su di noi effetti paralizzanti; vuoi per la nostra incapacità di comprenderne la portata epocale, vuoi per la demoralizzazione che provoca in ciascuna e ciascuno la constatazione della propria impotenza come lavoratrici e lavoratori, cittadine e cittadini, elettrici ed elettori isolati e ridotti al rango di semplici pedine di un "grande gioco" che si svolge sopra le nostre teste; o di spettatrici e spettatori di uno spettacolo di cui siamo parte senza la possibilità di recitarlo a nostro modo. Ma anche di complici più o meno involontari - per mancanza di reazioni adeguate - delle mille e mille efferatezze quotidiane che si svolgono sotto i nostri occhi, abituandoci a una apatica indifferenza.

Al centro di questi testi, come di altri che ho pubblicato nel corso degli ultimi anni (in particolare, Prove di un mondo diverso, del 2009, e La conversione ecologica, del 2011) c'è l'intreccio fra partecipazione e conflitto.

Considero il conflitto sociale una forma iniziale e parziale, ma alta e costruttiva (oggi si usa dire "costituente") di partecipazione alla cosa pubblica; un processo che mette sempre i suoi protagonisti in contatto e in contrasto diretto con una controparte di cui si contesta e combatte la gestione di ciò che è oggetto del contendere; un agire consapevole che può e dovrebbe avere il suo sbocco, sempre temporaneo e rimodulabile, in istituzioni più o meno formali in cui la partecipazione trova la regola del proprio esercizio, mentre crea il contesto appropriato per rilanciare nuovi conflitti: su nuove basi e, spesso, con una diversa aggregazione dei soggetti che vi sono coinvolti. Al tempo stesso la partecipazione a qualsiasi iniziativa condivisa, sia che sorga "dal basso", sia che nasca "dall'alto" o come conseguenza di iniziative altrui - ma suscitando comunque un grado di coinvolgimento e di adesione adeguati -, non può che preludere e sfociare in un conflitto più o meno aperto con gli assetti istituzionali esistenti o con un loro aspetto onnipresente; che è sempre e comunque l'esclusione della maggioranza dai processi decisionali, l'emarginazione dei più, lo svuotamento della loro capacità di iniziativa, fino all'annullamento di tutte le loro potenzialità di viventi e di umani.

Questo libro raccoglie diversi testi elaborati nel corso degli ultimi anni e riveduti, ricomposti e integrati per costruire un percorso unitario; dopo averli depurati, per quanto è possibile, dei riferimenti più diretti all'attualità e, soprattutto, agli incubi economici dello spread, che da oltre due anni tiene banco in modo pressoché esclusivo sulla stampa e sui media.

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Pagina 11

Dignità



Servilismo e meritocrazia

Una delle peggiori piaghe che affliggono il nostro paese, ieri come oggi, è il servilismo. Non è una piaga esclusivamente nostrana; è diffusa in tutto il mondo, e per ragioni strutturali che poco hanno a che fare con i "valori" propugnati da chi lo pratica. Ma in nessun paese, forse, questa piaga è così pervasiva, consolidata e ostentata come da noi. Non è un fenomeno esclusivo del nostro tempo; è vecchio come il mondo. Gli antichi greci disprezzavano gli schiavi - prigionieri catturati in guerra o comprati e venduti - perché avevano preferito servire invece di morire. Il feudalesimo - un regime da non rimpiangere, per molti versi riproposto da alcuni tratti della nostra epoca - era fondato su un patto personale che implicava asservimento a tutti i livelli gerarchici. Ma quella fedeltà era regolata da un codice che impegnava tanto il signore quanto il vassallo. Oggi invece il servilismo è "nomade" e si offre e materializza di volta in volta a seconda delle convenienze: la compravendita di parlamentari con cui l'Italia si governa e fa mostra di sé al resto del mondo ne è una delle manifestazioni più esplicite.

Ciò che caratterizza il servilismo del nostro tempo è il fatto di essere il meccanismo operativo della competitività: cioè di quella guerra di tutti contro tutti, per affermarsi a spese degli altri, che è la riproposizione, nei rapporti interpersonali, nei meccanismi di promozione sociale, negli avanzamenti di carriera, nella selezione delle classi dirigenti, della concorrenza economica tra le imprese. È una competizione che costituisce il fondamento indiscusso di quel "pensiero unico" che ha improntato di sé la nostra epoca fin nei più reconditi e inesplorati recessi del nostro pensiero; anche quando siamo convinti di esserne immuni.

Il servilismo è la ricerca di un'affermazione personale — anche minima, anche irrisoria; e solo a volte ben remunerata — a spese della propria autonomia. Cioè, non in base a quello che siamo, o ci sforziamo di essere, o abbiamo acquisito con il tempo e a fatica; bensì rinunciando a tutte queste cose; mettendoci "a disposizione" del padrone di turno. Pronti non a sviluppare un nuovo e diverso modo di pensare — ben venga! — ma solo a passare a un diverso padrone, che ci dirà lui che cosa possiamo e dobbiamo "pensare". Il servilismo è la rinuncia sistematica e volontaria alla propria dignità.

Ma che cosa ha reso il servilismo così prospero e diffuso nel nostro paese? Che cosa ci ha portato a cadere così in basso? Certamente, qui più che altrove, c'è stata una carenza di difese immunitarie; un deficit di presìdi culturali (in senso antropologico) che ha travolto tutta la società come una valanga che si ingrossa rotolando. Si tratta di un processo sicuramente promosso dall'alto: dai comportamenti dei governi di Silvio Berlusconi e di tutti i suoi membri e accoliti, dalla cultura che esprimevano e trasmettevano attraverso mass media sempre più asserviti; da meccanismi di selezione di ministri, deputati, governatori, consiglieri, dirigenti politici, manager, banchieri, giornalisti e direttori di media e di istituzioni, ai quali non sono e non sono stati certo estranei partiti, forze e culture della vera o presunta opposizione.

Ma quei presìdi sono affondati — o hanno imboccato un percorso carsico — anche per un processo che nasce "dal basso"; per responsabilità di molti di noi: soprattutto quelli più anziani. Perché la rivendicazione della propria dignità, che tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta aveva caratterizzato un intero decennio di lotte, di maturazione, di orgoglio di sentirsi protagonisti, di "presa di parola" da parte di persone che non l'avevano mai avuta, è stata per anni associata agli esiti fallimentari di quella stagione di cui molti di noi portano, almeno in parte, la responsabilità: un fardello che pochi dei protagonisti di allora si sono sentiti di caricare sulle proprie spalle; oppure lo hanno fatto in sordina, lasciando a uno sparuto gruppetto, e non certo ai più attrezzati, l'onere di rivendicare pubblicamente a quegli anni un vero o presunto carattere "formidabile".

Per troppo tempo è stata infatti sottovalutata la rilevanza della rivendicazione della propria dignità: un tema che è sì "pre-politico", perché riguarda la vita quotidiana di tutti, ma che è tornato ad avere un enorme peso nelle mobilitazioni degli ultimi tempi e che può averne uno ancora maggiore nella costruzione di nuovi fronti di lotta contro lo sfruttamento e l'oppressione.

È un'aspirazione che si radica nell'individualità di ciascuno e ciascuna, ma che trova riscontri e punti di approdo solo in un processo condiviso di reciproco riconoscimento: riconoscimento del valore, delle capacità, delle potenzialità, ma anche delle difficoltà, delle sofferenze, delle debolezze reciproche. In una parola, in un contesto di solidarietà. In quanto tale, la rivendicazione della propria dignità è l'esatto opposto della competitività, della volontà e della ricerca di un'affermazione a spese degli altri, che è stata ed è il fondamento, più o meno esplicito, del nostro Zeitgeist, cioè dello spirito del tempo: quello che ha dominato in tutto il mondo negli ultimi trent'anni e che si è concretizzato nel cosiddetto pensiero unico.

Il pensiero unico è una visione del mondo che nella sua dimensione pratica si chiama liberismo: una dottrina che giustifica e promuove la competizione universale — una versione totalizzante di "darwinismo sociale" — come soluzione "naturale" di tutti i problemi: sistema ottimale per allocare le risorse e promuovere il benessere di tutti. Il darwinismo sociale è il fondamento ideologico di un meccanismo di legittimazione delle diseguaglianze attraverso la responsabilizzazione e la colpevolizzazione degli individui per la propria condizione: ciascuno è quello che è — povero o ricco, potente o emarginato, dirigente o subordinato, vittorioso o soccombente — perché "se l'è meritato", "se l'è voluto", "se l'è andata a cercare". Cioè esclusivamente sulla base di un presunto merito; degli sforzi che ha fatto o non ha fatto per affermarsi. È questo il retropensiero contrabbandato con l'esaltazione sempre più spinta e incondizionata di una presunta "cultura del merito", presentata come antidoto del clientelismo e della corruzione, e che invece ne è la sostanza più profonda, perché quella cultura elude la domanda fondamentale che ne svela la vera natura: chi decide del merito di chi?

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Pagina 41

Conoscenza



Schizofrenia dell'establishment

Quello che mancava a Mario Monti, e a tutti coloro che ne hanno sostenuto il governo, e anche a molti che non lo sostenevano, è l'idea che un mondo diverso non solo è possibile, ma necessario e urgente. L'Europa dei combustibili fossili e del nucleare, dell'industria dell'auto e delle Grandi Opere, delle delocalizzazioni e dell'export a tutti i costi è arrivata al capolinea.

Ma l'unica ricetta che economisti di destra e di sinistra riescono a suggerire è quella di promuovere la "ripresa": di riprendere quanto prima a produrre le stesse cose di sempre; e a produrne sempre di più: soprattutto per esportarle, prendendo a modello l'economia tedesca. Come se i successi dell'economia tedesca non fossero la conseguenza diretta delle disgrazie dei suoi partner, cioè anche delle nostre; a cui tutto l'attuale edificio dell'Unione europea ha contribuito, mettendo i governi dei paesi membri in mano alla finanza internazionale.

Da notare che "la Repubblica", lo stesso giornale che tutti i giorni spiegava che alle ricette di Draghi e di Monti "non c'era alternativa", documentava anche — forse senza nemmeno accorgersene: "Non sappia la mano destra quello che fa la sinistra"; ma non era una scelta evangelica — che negli Usa le energie rinnovabili stavano "rimettendo in moto" l'occupazione (mentre il resto dell'economia continuava a traccheggiare), invertendo quei processi di delocalizzazione che hanno trasformato l'economia degli Stati Uniti in un casinò finanziario; che l'agricoltura ecologica e a chilometri zero è la ricetta dell'avvenire; che le Grandi Opere sono la rovina dell'Italia e che bisogna impegnarsi in mille piccole opere di messa in sicurezza di scuole, beni culturali, fabbriche, territorio, coste; che la finanza internazionale e nostrana è poco meno di un'associazione a delinquere ecc.

La schizofrenia del pensiero mainstream sta così toccando vette ineguagliabili e per capire il processo di liquefazione in corso, non solo dei partiti e del sistema politico del nostro paese, ma, con tempi e modalità diverse, di quelli di tutto il continente - ma il resto del mondo, o gran parte di esso, non sta molto meglio - bisogna chiedersi come mai la constatazione di questi processi in corso non riesca a farsi programma e impulso a una trasformazione: magari a partire dalle piccole cose che, moltiplicate per milioni, possono diventare immense.

Certamente gli interessi consolidati di un mondo in frantumi contano tantissimo. E ancora di più conta la paura di un futuro incerto: la paura del default; e quanto più vago e incomprensibile è il termine che la evoca, tanto più corposi e paralizzanti si fanno i suoi effetti.

Ma il fatto è che siamo in una situazione che impone, come unica via di uscita non catastrofica, un radicale cambio di paradigma. La finanziarizzazione, da tutti individuata come causa principale della crisi (anche se i più affidano ad essa anche la ricerca delle soluzioni per uscirne), non è che il compimento parossistico di un processo iniziato oltre due secoli fa con quella che Karl Polanyi aveva chiamato "la grande trasformazione": la riduzione a merci di tre cose che merci non possono essere, pena la distruzione della vita associata (e, oggi possiamo dirlo, anche del nostro rapporto con madre Terra). Quelle tre "cose" che continuano a rivoltarsi contro la loro riduzione a merci (per questo Polanyi le chiama "merci fittizie") sono il lavoro, la terra e il denaro. La lotta dei lavoratori contro la propria mercificazione non ha bisogno di illustrazioni, perché è la storia stessa del movimento operaio nelle sue più diverse espressioni e, soprattutto, in quelle più radicali. L'appropriazione delle terre (enclosure ai tempi dei Tudor e landgrabbing oggi) è stata ed è la base di quell'"accumulazione primitiva" che per il capitale non è un processo iniziale, ma un meccanismo permanente. Però oggi è tutta la Terra, intesa come ambiente (aria, acqua, suolo ed energia), a essere oggetto di compravendita sotto forma di green economy, che non è altro che appropriazione di beni comuni: un valido motivo per contrastarla nei suoi presupposti, perché è l'esatto opposto di una vera conversione ecologica. Quanto al denaro, delle sue tre funzioni fondamentali - misura del valore, mezzo di scambio e oggetto di accumulazione - la finanziarizzazione non è che il definitivo sopravvento della terza funzione sulle altre due: il prezzo delle merci è sempre più determinato dalle speculazioni su di esse - cioè dall'accumulazione di denaro per mezzo di altro denaro - più che dal valore o dal contributo degli input produttivi. E gli scambi, le compravendite, il nostro accesso ai beni e ai servizi in commercio sono sempre più mediati da qualche forma di debito, che è lo strumento fondamentale della finanziarizzazione. La crisi in corso non è altro che questo.

Perciò, anche se non abbiamo un modello preciso a cui ispirarci, sappiamo che l'uscita dalla crisi dovrà necessariamente incorporare forme nuove di controllo sociale sul lavoro, sui beni comuni e sul credito (l'attività delle banche; perché denaro e credito sono in gran parte la stessa cosa). Non sarà una passeggiata, ma un conflitto lungo e aspro, che solo una profonda consapevolezza che "ritirarsi è peggio" potrà alimentare. Sapendo però che il nuovo paradigma dovrà convivere ancora a lungo con forme, ancorché depotenziate, di economia del debito; così come la democrazia partecipativa non potrà né dovrà fare a meno di quella rappresentativa.

Il nuovo paradigma che può e deve prendere il posto di quello fallimentare imposto dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale. La si chiami decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia dei beni comuni (senza pretendere di annullare le differenze tra questi approcci) è l'unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici e recupero del know-how, del patrimonio impiantistico e dell'occupazione che il sistema economico attuale sta mandando in malora: una fabbrica dopo l'altra, un paese dopo l'altro.


La dittatura dell'ignoranza

Agli storici del futuro (se il genere umano sopravvivrà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di "dittatura dell'ignoranza", di egemonia di un "pensiero unico" liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: "la società non esiste, esistono solo gli individui", cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e "il governo non è la soluzione ma il problema", cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan).

Il liberismo ha di fatto esonerato dall'onere del pensiero e dell'azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che ne siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Così una rappresentazione falsa e mitologica della realtà, fondata sulla riduzione delle dinamiche sociali a una legge di natura che sancisce "la fine della storia", perché governata dal comportamento di un soggetto - l' homo œconomicus - sempre uguale a se stesso e incapace di andare al di là di un presunto interesse individuale, impedisce ai suoi cultori e ai suoi seguaci, ma anche alle sue vittime, di farsi un'idea autentica di quello che succede, mantenendoli in uno stato di arrogante inconsapevolezza; ma permette a chi se ne fa scudo di giustificare qualsiasi processo in corso attribuendolo alla famigerata "mano invisibile" del mercato.

Anzi, più che di mercato si parla dei "mercati"; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un'attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell'auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un'inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostre vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell'Olimpo; ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra.

Questa delega ai "mercati" ha significato la rinuncia a un'idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra - quella "vera", come la vorrebbero quelli di sinistra - è tutta qui. Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados spagnoli, gioventù araba in rivolta, manifestanti della Grecia, e i tanti Occupy. Poco importa che non abbiano ancora "un vero programma" (come gli rinfacciano tanti politici spocchiosi): sanno che cosa vogliono. Mentre i politici spocchiosi non lo sanno: vogliono solo quello che "i mercati" gli ingiungono di volere. È il mondo, e sono le nostre vite, a dover essere ripensati dalle fondamenta.

Navighiamo, senza bussola, in un mondo che da tempo ha perso la sua. Il degrado culturale, politico e morale della cricca che è stata al governo dell'Italia, che ci ha spesso e giustamente indotto a invidiare i cittadini di altri paesi, rischia di far velo all'inconsistenza politica e culturale delle forze che sono al governo in molti di quei paesi. Prima ancora di esserne la causa - e in gran parte lo è stato -, Berlusconi è stato un prodotto del "berlusconismo": una tabe che affligge non solo il suo entourage politico-affaristico, e non solo lo "zoccolo duro" della sua base elettorale, ma anche larga parte dell'establishment politico, imprenditoriale, culturale del paese e, in qualche misura, ciascuno di noi.

Analogamente, anche i gruppi dirigenti che oggi governano l'Europa sono prigionieri del loro elettorato; che però è proprio come l'hanno formato e voluto. Per questo sono anche loro promotori e prodotto al tempo stesso di una tabe altrettanto grave, di cui il berlusconismo è in qualche modo l'epitome. Quella tabe è il "pensiero unico": la convinzione - contro ogni evidenza - che sia il "mercato", e solo il mercato, a doverci tirare fuori dai guai in cui il mercato ci ha cacciati. E per "tirarci fuori" dai guai, per "uscire dalla crisi", occorre "rilanciare la crescita": cioè sperare - e che altro, se no? - in un aumento del Pil tale da produrre entrate fiscali sufficienti a pagare gli interessi e a rimborsare poco per volta una parte consistente dei debiti pubblici.

Intanto, però, si procede con robusti e continui tagli della spesa pubblica: cioè delle pensioni, della sanità, della scuola, del trasporto pubblico, del welfare municipale, del pubblico impiego, di salari e stipendi. Contando di ricavarne risorse sufficienti a tacitare gli appetiti dei "mercati": cioè di tutti coloro - banche, assicurazioni, fondi di investimento, mafie - impegnati a "produrre denaro per mezzo di denaro".

Di tagliare per altre vie le unghie alla speculazione nemmeno si parla; perché quello che loro chiamano "mercato" è speculazione: senza l'una non c'è l'altro; e viceversa; simul stabunt, simul cadent. Così, invece di "crescere", l'economia si avvita su se stessa in una spirale che porta diritto al fallimento (default): non solo delle finanze pubbliche (a beneficio di chi le tiene in pugno), ma del sistema produttivo, della convivenza civile, dell'ambiente.

La parabola della Grecia ne è un esempio: tutti sanno, anche se nessuno lo dice, che non si riprenderà più per decenni dalla catastrofe in cui l'hanno precipitata le autorità europee. Ma altri paesi, con l'Italia in prima fila, si sono già avviati lungo lo stesso percorso. Nessun paese dell'eurozona è "al sicuro"; perché le regole che governano la Banca centrale hanno consegnato alla finanza internazionale e alla speculazione la moneta: la chiave dell'economia.


La democrazia economica

Ma la strada per uscirne c'è; non è la "ripresa"; e meno che mai la "crescita" continuamente invocata da chi non ha fatto che promuovere e accelerare il disastro. È la democrazia vera, partecipata, estesa al campo economico; l'autogoverno di ogni comunità sui processi produttivi, sui servizi locali, sui sistemi di consumo e di fruizione condivisa dei beni comuni; in modo da valorizzare le facoltà, le competenze e le potenzialità di ciascuno: quelle risorse di cui le forze economiche al potere non sanno che fare. Perché l'organizzazione del lavoro, del consumo, dei rapporti sociali che risponde ai loro interessi è solo quella della guerra di tutti contro tutti (la fatidica "competitività") in cui lavoratori, cittadini, utenti e consumatori non sono che carne da cannone da mandare in guerra; e da cui pretendere sempre di più e a cui dare sempre di meno.

Il confronto con il governo, con questa Europa, e con il potere della finanza internazionale va dunque condotto non in termini di competizione, ma sul piano della vita e delle condizioni di esistenza della maggioranza della popolazione, dei rapporti che ci legano all'ambiente fisico e sociale in cui viviamo, dei diritti inalienabili di cittadinanza che ne discendono in quanto abitanti di questo pianeta. Quei rapporti rendono indissolubile il nesso tra ambiente ed equità sociale e intergenerazionale. Perché esisterà, si spera, un mondo anche dopo gli alti e bassi dello spread...

Se la crisi economico-finanziaria e la crisi ambientale segnalano, con la loro dimensione globale, l'urgenza di una svolta per tutto il pianeta, questa non può prescindere né distinguersi da una radicale conversione ecologica del modo in cui consumiamo (e quello che consumiamo, alla fine, è l'ambiente) e del modo in cui produciamo (e quello che produciamo è soprattutto inquinamento, diseguaglianza e sofferenze superflue). E siccome la conversione ecologica riguarda in egual misura i nostri atteggiamenti soggettivi verso l'ambiente e verso gli altri esseri umani e l'organizzazione delle nostre attività "economiche" (che cosa produciamo, come, dove, con che cosa e perché lo produciamo), è un imperativo concreto partire da quello che ciascuno di noi può fare, o intende fare, qui e ora.

Quello che lega il nostro agire localmente — il nostro "progetto locale" — al pensiero globale che deve informarlo è la sua replicabilità: la possibilità che venga riprodotto, adattandolo alle diverse situazioni con la dovuta intelligenza del contesto, senza che le realizzazioni degli uni vadano a detrimento di quelle di altri; e sviluppando invece una potenza sinergica.

Solo così i legami che si creano possono costituire la base — a diversi livelli, fino a ricoprire con una rete l'intero pianeta — sia di un programma generale, sia della formazione di una vera cittadinanza attiva (intersettoriale, connessa, internazionale, intergenerazionale), sia di organizzazioni che si candidino a esautorare, sostituire o integrare le strutture esistenti: a piccoli passi e a macchia di leopardo, per lo più; a salti improvvisi, a volte; ma sempre più spesso in contesti conflittuali, e fronteggiando rischi crescenti.

Il "soggetto politico" di cui si discute in tante riunioni che si svolgono in questi anni è parte di questo percorso. E ciò riguarda direttamente anche il progetto di un'Europa dei popoli e non della finanza.

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Condivisione



Il ritorno dei beni comuni

C'erano una volta i beni comuni: l'aria, l'acqua, il bosco, il fiume, la spiaggia, i pascoli, e persino i campi, che venivano dissodati e arati congiuntamente dalle comunità di villaggio. Nell'era moderna, il processo della loro appropriazione - e dell'esclusione di chi ne traeva il proprio sostentamento - è cominciato molto presto con le recinzioni (enclosures) dei pascoli in Inghilterra, che Marx pone a fondamento del meccanismo di accumulazione primitiva del capitale. Ed è proseguito nel tempo: molte delle rivoluzioni borghesi in Europa hanno messo capo a un processo analogo; per non parlare della conquista del West in Nordamerica a spese delle popolazioni indigene, o del colonialismo che ha globalizzato questa pratica.

Gli ultimi decenni, con il trionfo del liberismo e del cosiddetto "pensiero unico", si sono svolti all'insegna della privatizzazione di tutto l'esistente - persino dell'aria, con le quote di emissione - e della stigmatizzazione di tutto quanto è comune o condiviso. Ma la musica sta cambiando e deve cambiare.

In ogni caso la difesa dei beni comuni, che oggi è il denominatore comune di tanti conflitti sociali, non si configura come un ritorno al passato, quando non tutto era ancora mercificato - e per questo "privatizzato" - in nome di un progresso che identifica efficienza e profitto. Certo, in molti casi - i più tipici sono quelli dell'acqua o delle aree protette - la difesa dei beni comuni si presenta a prima vista come una lotta contro la "novità" della loro privatizzazione.

Ma è fin da subito evidente che l'esito di una difesa del genere non può essere un ritorno alla situazione precedente. Il bene "comune" verrà salvaguardato come tale solo se per esso si riuscirà a sviluppare una forma di gestione completamente nuova; sotto il controllo condiviso, anche se parziale e mai definito una volta per sempre, e proprio per questo soggetto a continue revisioni, di coloro che si sono battuti contro la sua appropriazione privata, o di coloro che hanno accettato di rinunciarvi.


Pubblico e comune

La soluzione di questi conflitti non può quindi essere ridotta a un trasferimento del bene sotto il controllo dello Stato. La proprietà "pubblica" di un bene comune, soprattutto se intesa come proprietà dello Stato o di una sua articolazione territoriale, non offre di per sé alcuna garanzia di partecipazione, di condivisione, di comunanza, tra coloro che dovrebbero esserne i beneficiari.

Sono le modalità di esercizio del potere su un bene, del controllo sul suo uso e sulla ripartizione, attuale e nel tempo, dei vantaggi che esso può procurare, a definire le forme, anche giuridiche, esplicite o sottintese, secondo cui si dispone di esso. Per questo la connotazione di una risorsa come bene comune è indissolubilmente legata a forme di democrazia partecipata che lo sottraggano tanto alla disponibilità di un privato quanto a quella di un apparato statale o di una sua struttura particolare. "L'aspirazione alla riappropriazione del comune [...] trova una prima espressione nell'esigenza di assicurare la partecipazione delle comunità alla gestione delle risorse materiali come alla fruizione della conoscenza, ciò che significa anche recuperare legami di solidarietà sociale attualmente affievoliti o compromessi e instaurarne di nuovi: la direzione in cui ci si muove è dunque esattamente contraria a quella percorsa dal sistema messo in piedi dal capitalismo globalizzato" ( Marella, 2012 ).

Questo approccio, la cui sostanza è, in ultima analisi, il progetto di una democrazia partecipata integrale, ancorché complementare e non esclusiva delle forme più o meno realizzate di democrazia rappresentativa, si discosta radicalmente da quello di coloro (tipico, ma certo non unico, è quello proposto da Salvatore Settis in Azione popolare ) che confinano la categoria dei beni comuni a un ambito più o meno ampio di pratiche tradizionali consolidate: le cosiddette comunanze o gli usi civici; e che rivendicano invece al primato della proprietà pubblica, perché universale, il compito di difendere i diritti legati alla sovranità che la Costituzione attribuisce al popolo.

Il degrado e la rapacità delle imprese di Stato, o delle società a partecipazione pubblica (dall'Iri a Finmeccanica, dalle Ferrovie dello Stato alle miriadi di S.p.A. a controllo pubblico, ex municipalizzate o di nuova costituzione), sottratte a qualsiasi forma di controllo popolare, dimostrano in modo inconfutabile la divaricazione tra pubblico, nel senso di statale, e comune, nel senso di sottoposto a un controllo condiviso. Peggio ancora se si pensa di affidare a poteri più centralizzati, Regione o Stato (come è stato proposto in un suo intervento da Alberto Asor Rosa), il compito di rimediare ai guasti della gestione di un servizio pubblico locale perpetrati dai livelli decentrati dell'amministrazione.

"Comune" non è dunque la stessa cosa di "pubblico": soprattutto se per pubblico si intende "statuale". Il che inevitabilmente succede se si ritiene che il rapporto degli umani con un bene non possa assumere altra forma che quella di un diritto di proprietà. Ma questa concezione non ha alcun fondamento storico; risponde a un approccio giuridico conservatore e sbarra la strada a qualsiasi percorso alternativo allo stato di cose presente. Per questo è necessario andare più a fondo nella concettualizzazione del termine.


Una teoria dei beni comuni

I beni comuni non possono essere considerati una categoria merceologica, e nemmeno essere ridotti alle sole risorse naturali indispensabili alla vita, come l'acqua, l'aria, la biodiversità ecc. Tuttavia, l'estensione del concetto va realizzata con cautela. Stefano Rodotà , che da tempo si occupa della materia (vedi Mattei, Reviglio, Rodotà, 2007), ha messo in guardia contro una recente tendenza a estendere troppo la categoria di "bene comune", anche a cose che non lo sono o difficilmente potrebbero esserlo. Questa tendenza in Italia è riconducibile al tentativo di associare questioni che sono comunque al centro di una mobilitazione o di uno scontro politico a una battaglia che ha avuto il suo punto di forza nel risultato del referendum del 2011 contro la privatizzazione dell'acqua e dei servizi pubblici locali. Tipica da questo punto di vista è la parola d'ordine lanciata dalla Fiom nell'ottobre del 2010, secondo cui "il lavoro è un bene comune".

"Sono beni comuni," sostiene Stefano Rodotà, "quelli che forniscono utilità funzionali al soddisfacimento di bisogni fondamentali della persona." Propriamente parlando, il bene comune è una risorsa dalla cui fruizione non può essere escluso nessuno dei soggetti interessati, pena la privazione, per la persona esclusa, di una componente essenziale dei suoi diritti di essere umano e di cittadina e cittadino. Così, nel mondo moderno, accanto a risorse che sono condizioni essenziali della vita e della sua riproducibilità, come le già citate acqua e aria, si possono porre prodotti artificiali, come l'accesso all'energia elettrica, alla mobilità, ai servizi sanitari, o a manifestazioni delle facoltà superiori dell'uomo come l'informazione, la cultura, l'arte ecc.

Un approccio ancora più radicale ai beni comuni è sicuramente quello che annovera tra di essi anche lo spazio urbano, cioè la complessità delle interazioni, fisiche, sociali, politiche e culturali che intercorrono fra gli abitanti che risiedono in una città o utilizzano (come city users) le opportunità che essa offre; ma che al tempo stesso concorrono alla loro creazione: "Il modo in cui lo spazio urbano si struttura, per l'interazione di pubblico e di privato, determina i modi di vita e le relazioni sociali che in esso si sperimentano [...] e dunque non c'è nulla di più comune dello spazio nel quale l'andamento delle nostre vite si definisce" ( Marella, 2012 ).

In ogni caso, a garanzia della non esclusione dalla fruizione di un bene comune devono intervenire forme di gestione incompatibili tanto con la proprietà privata - per lo meno fino alla soglia al di sotto della quale l'accesso al bene è un'esigenza vitale o un diritto irrinunciabile - quanto con la mera proprietà pubblica, intesa come proprietà dello Stato o di una sua articolazione. La quale riproduce, a un livello più alto, tutte le potenzialità di esclusione proprie della proprietà privata. La gestione dei beni comuni deve dunque essere una gestione condivisa: nel senso che tutti i potenziali fruitori possono - non necessariamente devono - partecipare alle decisioni relative al modo in cui il bene viene utilizzato o fruito.

Le modalità di questa condivisione possono essere le più varie e differenziarsi tra loro: sia in base alle circostanze storiche - la riappropriazione collettiva di una risorsa come bene comune è sempre un work in progress, mai completamente compiuto -, sia in base alle caratteristiche del bene e delle forme prevalenti della sua fruizione, sia in base al livello di competenza e di maturità sociale e culturale di quella parte della cittadinanza che ne rivendica l'esercizio.

Recenti studi, a partire da quello pionieristico del premio Nobel Elinor Ostrom ( Governare i beni collettivi, del 2006), passando, in Italia, per i lavori di Stefano Rodotà , Ugo Mattei e Alberto Lucarelli , hanno cercato di dare fondamento e consistenza giuridica a questa forma di gestione che si discosta radicalmente dalle forme di proprietà oggi giuridicamente normate; ma l'indagine storica - valgano per tutte quelle della Ostrom - dimostra che la gestione condivisa di un bene comune è una pratica antica e ben nota in una pluralità di comunità etniche e storiche e che essa, per l'appunto, varia nei modi e nelle regole, a seconda del contesto storico, di quello sociale e del bene in questione.

Se accettiamo questo approccio, è chiaro che la categoria dei beni comuni non esclude a priori nessuna delle risorse materiali o spirituali che occupano il panorama della vita moderna; ma anche che l'inclusione di una risorsa nella categoria dei beni comuni dipende strettamente dal grado in cui si è affermata la pratica, o per lo meno la rivendicazione, di una sua gestione comune e condivisa; o anche solo una diffusa convinzione che così deve essere. Ed è altresì chiaro che questa questione è il nocciolo duro di uno scontro in corso a livello planetario, che assume le forme più diverse nei diversi contesti; ma che vede ovunque contrapporsi, da un lato, l'approccio liberista, che individua nella privatizzazione della proprietà, del controllo e della gestione delle risorse le condizioni irrinunciabili di un loro uso efficiente e produttivo; e, dall'altro, le varie forme di resistenza a questo "pensiero unico".

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Beni comuni e lotta di classe

Ma a che cosa dobbiamo la rilevanza che il tema dei beni comuni ha assunto e sta sempre più assumendo nel discorso pubblico e nella prassi politica degli ultimi tempi?

Per oltre due secoli, e tanto più quanto più la produzione di massa richiedeva la concentrazione intorno agli stessi impianti di un numero altissimo di addetti, le fabbriche e le coalizioni dei "produttori" - intesi come i lavoratori impegnati nella fabbricazione di un bene o nell'erogazione di un servizio - sono state la sede privilegiata delle scelte collettive, della ricomposizione di una nuova comunanza di lotta, ma anche di cultura e di vita, di fronte all'atomizzazione, alla frantumazione e alla dispersione delle comunità tradizionali indotte dai meccanismi di mercato.

Oggi forse non è più così: l'evoluzione degli assetti produttivi (imprese a rete, delocalizzazioni e precarizzazione del lavoro) spingono verso una crescente polverizzazione e frantumazione delle concentrazioni produttive - anche se la permanenza dei precedenti assetti continua a esercitare un ruolo di primaria importanza in tutto il mondo -, mentre la rivalutazione dei "beni comuni" come forma di fruizione condivisa del territorio, dei servizi, ma anche di alcuni beni di consumo irriducibilmente "individuali" quali l'alimentazione, il vestiario o l'abitare, indica in questa riscoperta una - se non "la" - sede privilegiata di una ricomposizione della solidarietà e di una vita ricca di legami sociali. Uno spostamento del centro dell'attenzione dalle sedi della cooperazione produttiva nei luoghi di lavoro alle modalità di una fruizione collettiva dei beni e dei servizi prodotti induce a una riconsiderazione del ruolo del consumo nelle forme in cui si struttura l'organizzazione della società e nella definizione dei conflitti che la animano e la plasmano.

Che rapporto passa allora tra il conflitto sociale che ha una delle sue leve nelle mobilitazioni per i beni comuni e la lotta di classe tra lavoro e capitale? La lotta di classe, come ancora recentemente ha ben documentato Luciano Gallino, se mai ce ne fosse stato bisogno, in La lotta di classe dopo la lotta di classe , è ben viva e ormai estesa su tutto il pianeta. Ma è la lotta contro i lavoratori sferrata dal capitale finanziario, commerciale e industriale, a cui la globalizzazione ha messo in mano, oltre alle forme tradizionali di sfruttamento dei lavoratori dalla testa ai piedi, anche l'arma delle delocalizzazioni: per tagliar loro anche l'erba sotto i piedi e per far loro piegare le gambe in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo.

È difficile anche solo immaginare che i lavoratori di tutto il mondo possano ricostituire in tempi adeguati collegamenti, organizzazioni o reti sufficientemente estese per contrastare, al suo stesso livello, questo attacco globale, secondo l'appello di Marx "Proletari di tutto il mondo, unitevi!".

Da tempo le lotte dei lavoratori hanno per lo più una dimensione ristretta, aziendale o di categoria, quando non di reparto; raramente nazionale e mai, finora, transnazionale. E anche quando assumono forme offensive, il che non succede spesso, difficilmente riescono, soprattutto nei paesi di consolidata industrializzazione come il nostro, a spuntare risultati che non siano di mero contenimento dell'aggressione alle proprie condizioni di lavoro, di reddito e di vita.

Quella corsa al ribasso che costituisce la sostanza e il motore della globalizzazione liberista può essere fermata solo sottraendo il lavoro - a spizzichi e bocconi - ai diktat di una competizione senza limiti: con un processo, o una serie di processi, di conversione ecologica del sistema produttivo che rimetta al centro, insieme alla sopravvivenza del pianeta, produzioni riterritorializzate e orientate alla soddisfazione dei bisogni basilari e al miglioramento delle forme di convivenza delle comunità di riferimento: cioè i beni comuni. Per questo il conflitto sociale per i beni comuni costituisce il supporto e lo sbocco indispensabile di una ripresa offensiva anche delle lotte contro lo sfruttamento del lavoro.

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La lotta contro l'appropriazione

Seguendo questo approccio, si indicano qui alcuni nodi fondamentali che interessano tanto i processi di realizzazione quanto la rivendicazione di una gestione condivisa dei beni comuni:

1. La prima osservazione è questa: l'idea di una gestione condivisa dei beni comuni ha nel mondo contemporaneo una matrice libertaria, radicale, "di sinistra", o addirittura di estrema sinistra. Ma la realizzazione della gestione condivisa non è né di destra né di sinistra: a essa può partecipare chiunque, indipendentemente dai suoi orientamenti, e la gestione condivisa è per l'appunto un'arena dove le diverse ipotesi o soluzioni proposte si confrontano. Chi l'ha proposta e ha lottato per la sua affermazione può ritrovarsi in minoranza tra i soggetti che partecipano poi alla sua attuazione.

2. A confronto avremo sempre e comunque una concezione processuale e una concezione statutaria della partecipazione. La concezione statutaria punta a definire fin dall'inizio le regole della gestione del bene comune conteso e a promuovere, sulla base di queste regole, la partecipazione della cittadinanza attiva; la concezione processuale punta invece innanzitutto al coinvolgimento di una platea quanto più ampia possibile dei soggetti potenzialmente interessati alla gestione del bene, con una particolare attenzione nel dare voce ai soggetti esclusi o marginali, contando sul fatto che le regole di funzionamento si possano definire — e correggere — in corso d'opera. Nessuno di questi due approcci è ovviamente valido a priori; vanno commisurati al contesto operativo e combinati sulla base degli sviluppi del processo, facendo comunque attenzione a che la rigidità delle regole non soffochi il processo di coinvolgimento, che non avviene mai secondo moduli prestabiliti.

3. La partecipazione di chi rivendica o cerca di attuare una gestione condivisa di un bene o di un servizio è, e resterà per lungo tempo, un processo conflittuale: uno scontro quotidiano e serrato contro chi aspira all'appropriazione privata o a una gestione pubblica puramente amministrativa del bene, o l'ha già realizzata, o la sostiene. I processi partecipativi sono per questo anche il terreno dove si costruisce e si consolida la forza dell'organizzazione per opporsi a una gestione privata o escludente.

4. Si possono scandire i processi di coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati alla gestione condivisa di un bene comune in tre stadi. L'ultimo, il più definito, è quello della democrazia deliberativa. Si decide secondo regole certe gli indirizzi da dare alla gestione del bene e questi, se il bene è formalmente di proprietà pubblica, devono essere fatti propri dall'autorità o dall'amministrazione competente, sotto il controllo dei soggetti che hanno preso parte alla deliberazione, e di altri che si possono aggiungere in seguito. Lo stadio intermedio è quello del confronto tra le diverse ipotesi e soluzioni proposte. La difficoltà sta nel fatto che non siamo abituati a farlo: secoli di espropriazione del potere deliberativo ci hanno resi intolleranti e incapaci di ricorrere all'arma della persuasione (la verifica più grottesca di questo dato sono, per chi ne ha esperienza, le assemblee condominiali). Da questo punto di vista la partecipazione a un processo di gestione condivisa di un bene - o anche solo la partecipazione alla sua rivendicazione - è per tutti una scuola di democrazia e di tolleranza.

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