Autore Frans de Waal
Titolo Il bonobo e l'ateo
SottotitoloIn cerca di umanità fra i primati
EdizioneCortina, Milano, 2013, Scienza e idee 236 , pag. XII+322, ill., cop.fle., dim. 14x22,5x2,4 cm , Isbn 978-88-6030-600-5
OriginaleThe Bonobo and the Atheist. In Search of Humanism Among the Primates [2013]
TraduttoreLibero Sosio
LettoreCorrado Leonardo, 2015
Classe antropologia , evoluzione , etologia , religione , scienza












 

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Indice


    Prefazione all'edizione italiana
    (Pier Francesco Ferrari)                             IX

    Ringraziamenti                                        3


1.  Delizie terrene                                       7

2.  La bontà spiegata                                    35

3.  I bonobo nell'albero di famiglia                     71

4.  Dio è morto o è soltanto in coma?                   105

5.  La parabola della buona scimmia                     141

6.  Se dieci comandamenti vi sembrano pochi...          183

7.  Il vuoto di Dio                                     231

8.  La morale dal basso all'alto                        271


    Bibliografia                                        293
    Indice analitico                                    307


 

 

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Pagina 7

1
DELIZIE TERRENE



                                       Come? L'uomo è soltanto un errore di Dio?
                                     O forse Dio è soltanto un errore dell'uomo?

                                                             FRIEDRICH NIETZSCHE



Sono nato a Den Bosch, la città olandese dalla quale ha preso il nome Hieronymus Bosch. Questa circostanza non fa di me un esperto del pittore, ma essendo cresciuto all'ombra della sua statua, nella piazza del mercato, sono sempre stato appassionato delle sue immagini surrealiste, del suo simbolismo e del modo in cui tutto ciò si riferisce al posto dell'uomo nell'Universo sotto una declinante influenza di Dio.

Il suo famoso trittico in cui folleggiano figure umane nude, Il giardino delle delizie terrene, è un tributo all'innocenza paradisiaca. Lo scomparto centrale è troppo festoso e sereno per conciliarsi con l'interpretazione di depravazione e di peccato suggerita da esperti puritani. Esso presenta l'umanità libera dal peccato e dalla vergogna o prima del peccato o comunque in assenza di un qualsiasi peccato. Per un primatologo come me, la nudità, le allusioni al sesso e alla fecondità, all'abbondanza di uccelli e di frutti e i numerosi gruppi umani in giro dappertutto sono cose del tutto familiari e non hanno certo bisogno di un'interpretazione religiosa o morale. Si ha l'impressione che Bosch abbia voluto raffigurarci nel nostro stato naturale, riservando il suo punto di vista moralistico al pannello a destra, in cui punisce non coloro che vanno gioiosamente in giro nello scomparto centrale, bensì frati, suore, ghiottoni, praticanti del gioco d'azzardo, guerrieri e ubriaconi. Bosch non aveva una grande simpatia per il clero e per la sua avidità, cosa che spiega un piccolo dettaglio del quadro, in cui un uomo è riluttante a firmare la cessione delle sue fortune a una scrofa con il capo coperto da un velo domenicano. Si dice che la figura del povero sia un ritratto del pittore stesso (figura 1.1).

Cinque secoli dopo, siamo ancora aggrovigliati in discussioni sul posto della religione nella società. Come al tempo di Bosch, il tema centrale è la moralità. Possiamo concepire un mondo senza Dio? Sarebbe un mondo buono? Non dobbiamo pensare nemmeno per un istante che gli schieramenti contrapposti del cristianesimo fondamentalistico da un lato e della scienza dall'altro siano determinati da evidenze empiriche opposte. Si dev'essere del tutto ciechi davanti ai fatti per dubitare dell'evoluzione: è questa la ragione per cui i libri e i documentari che mirano a convincere gli scettici sono fatica sprecata. Essi sono utili quando si rivolgono a qualcuno che è già disposto ad ascoltare, mentre non raggiungono il pubblico a cui gli autori vorrebbero specificamente rivolgersi. La discussione non verte tanto sulla verità quanto su come usarla. Per chi crede che la verità possa discendere direttamente dal Dio creatore, l'accettazione dell'evoluzione spalancherebbe un abisso morale. Ascoltiamo il reverendo Al Sharpton mentre discuteva con il defunto attivista ateo Christopher Hitchens (1949-2011): "Se nell'Universo non c'è un ordine, e perciò non c'è un qualche essere, qualche forza che lo ha ordinato, chi è che stabilisce che cosa è giusto o sbagliato? Se non c'è nessuno a esercitare un controllo, non c'è niente di immorale". Similmente ho sentito persone riecheggiare la frase pronunciata da Ivan Karamazov nel romanzo di Dostoevskij: "Se Dio non esiste, sono libero di violentare la mia vicina!".

Forse è un mio difetto, ma io diffido di tutte quelle persone il cui sistema di credenze è l'unica cosa che si opponga fra loro e l'adozione di un comportamento ripugnante. Perché non supporre che la nostra umanità, compreso l'autocontrollo necessario in una società vivibile, sia innata in noi? C'è qualcuno che crede davvero che i nostri antenati non abbiano avuto norme sociali prima di avere la religione? Che non abbiano mai aiutato altri in condizioni di bisogno, o che non abbiano mai deplorato un comportamento ingiusto? Gli esseri umani devono essersi preoccupati del funzionamento delle loro comunità molto tempo prima dell'origine delle attuali religioni, che risalgono solo a un paio di millenni fa. I biologi non si lasciano impressionare da questo tipo di scala temporale.

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Pagina 25

Il dilemma dell'ateo


Tuttavia, io non sono convinto che la moralità abbia bisogno di ricevere una giustificazione dall'alto. Non potrebbe venire dall'interno? In questo caso potrebbe sicuramente contribuire alla compassione, ma forse anche al nostro senso dell'equità. Qualche anno fa dimostrammo che dei primati accettavano di buon grado fette di cetrioli finché non videro altri che ricevevano dell'uva, che ha un sapore molto migliore. I mangiatori di cetrioli si agitarono, gettarono via il cibo che veniva loro offerto ed entrarono in sciopero. Un cibo di per sé gradevole è diventato immangiabile quando si è visto un altro scimpanzé ricevere un cibo assai migliore. Abbiamo chiamato questa reazione avversione all'iniquità, un argomento che è studiato da allora anche in altri animali, compresi i cani. Un cane eseguirà ripetutamente un trucco senza ricevere una ricompensa, ma si rifiuterà di continuare a farlo quando vedrà un altro cane ricevere come premio per lo stesso trucco dei pezzi di salsiccia.

Queste scoperte hanno implicazioni per la moralità umana. Secondo la maggior parte dei filosofi, i nostri ragionamenti si protendono verso verità morali. Anche se i filosofi non invocano Dio, stanno ancora proponendo un approccio dall'alto al basso (o discendente) in cui noi formuliamo i princìpi e poi li imponiamo al comportamento umano. Ma le deliberazioni umane hanno realmente luogo su un piano così elevato? Non hanno bisogno di essere ancorate a noi, a chi e che cosa siamo? Sarebbe realistico, per esempio, raccomandare a delle persone di essere sollecite verso altre se noi non avessimo già un'inclinazione naturale a esserlo? Avrebbe senso fare appello all'equità e alla giustizia se non possedessimo in noi potenti reazioni contro la loro assenza? Immaginiamo a quale carico cognitivo saremmo sottoposti se dovessimo valutare ogni decisione che prendiamo in risposta a una logica tramandataci dall'alto. Io sono un fermo sostenitore della posizione di Hume secondo cui la ragione è schiava delle passioni. Noi abbiamo preso l'avvio da sentimenti e intuizioni morali, ed è proprio qui che troviamo la massima continuità con altri primati. Anziché avere sviluppato la moralità dal nulla attraverso una riflessione razionale, abbiamo ricevuto una grandissima spinta dal nostro ambiente in quanto animali sociali.

Al tempo stesso, però, ho una certa riluttanza a chiamare "essere morale" uno scimpanzé. Questo perché i sentimenti da soli non bastano. Noi tendiamo a un sistema logicamente coerente e discutiamo sui problemi se la pena di morte si concili con gli argomenti sulla santità della vita o se un sentimento sessuale promiscuo possa essere moralmente sbagliato. Queste discussioni sono esclusivamente umane. Ci sono poche prove del fatto che altri animali giudichino l'appropriatezza di reazioni che non influiscono direttamente su loro stessi. Il grande antropologo finlandese Edward Westermarck, che fu fra i pionieri della ricerca sulla moralità, spiegò che le emozioni morali non sono connesse con la propria situazione immediata. Esse hanno a che fare con il bene e con il male a un livello più astratto. Questo fatto è ciò che pone la moralità umana in una categoria a sé: uno spostamento verso standard universali combinati con un sistema elaborato di giustificazione, controllo e punizione.

A questo punto entra in gioco la religione. Si pensi al sostegno narrativo per la compassione, come la parabola del buon samaritano, o alle sfide al nostro senso della giustizia, come la parabola dei lavoratori nella vigna, con la sua famosa conclusione "Gli ultimi saranno i primi, e i primi saranno gli ultimi". Si aggiunga a tutto questo una passione quasi skinneriana per premi e punizioni – dalle vergini che si incontreranno in cielo ai peccatori in attesa del fuoco dell'inferno – e lo sfruttamento del nostro desiderio di essere "encomiabili", come disse Adam Smith nel suo saggio Teoria dei sentimenti morali. Gli uomini sono in effetti così sensibili alla pubblica opinione che a noi basta vedere un'immagine di due occhi incollata su un muro per rispondere ad essa comportandoci bene: la religione lo comprese molto tempo fa e usa l'immagine di un occhio che tutto vede per simboleggiare un Dio onnisciente.

Ma anche l'assegnazione di un ruolo così modesto alla religione è anatema per alcuni. Negli ultimi anni ci siamo abituati a uno stridente ateismo secondo il quale Dio non è grande (Christopher Hitchens) o è solo un'illusione (Richard Dawkins). I neo-atei chiamano se stessi brights, implicando così che i credenti non siano altrettanto brillanti. Essi hanno sostituito la visione di san Paolo che i non credenti vivono nelle tenebre con íl suo opposto: solo i non credenti hanno visto la luce. Raccomandando la fede nella scienza, vogliono radicare l'etica nella visione del mondo naturalistica. Io condivido il loro scetticismo sulle istituzioni religiose e sui loro "primati" – papi, vescovi, grandi predicatori, ayatollah e rabbini – ma quale vantaggio potrebbe venire dall'insultare le molte persone che trovano un valore nella religione? E, cosa più pertinente, quale alternativa ha da offrire la scienza? Non tocca alla scienza spiegarci il significato della vita e ancora meno dirci come dobbiamo viverla. Il filosofo britannico John Gray si è espresso nel modo seguente: "La scienza non è magia. La crescita della conoscenza amplia quel che possono fare gli uomini. Essa non può impedire loro di essere quel che sono". Noi scienziati siamo bravi a scoprire perché le cose sono come sono, o come funzionano, e io credo che la biologia ci aiuti a capire perché la moralità abbia l'aspetto che ha. Ma da qui alla possibilità di offrire consigli ce ne corre.

Anche l'ateo più irriducibile cresciuto nella civiltà occidentale non può non avere assorbito í princìpi fondamentali del cristianesimo. Le popolazioni, dall'orientamento sempre più laico, dell'Europa del Nord, di cui conosco le culture di prima mano, riconoscono di avere punti di vista influenzati dal cristianesimo. Tutte le creazioni importanti che gli uomini hanno realizzato in qualsiasi parte del mondo — dall'architettura alla musica, dall'arte alla scienza — sono state sviluppate di concerto con la religione, mai separatamente. È perciò impossibile sapere come sarebbe la moralità senza la religione. Dovremmo poter visitare una cultura che non sia religiosa oggi e che non lo sia mai stata. Il fatto che non esistano culture del genere dovrebbe indurci a una pausa di riflessione.

Bosch si occupò con impegno dello stesso problema: non di quello di essere ateo, che non era fra le scelte possibili, ma di quello relativo al posto della scienza nella società. Le piccole figure nei suoi dipinti che portano in capo un imbuto rovesciato a mo' di cappello o gli edifici sullo sfondo in forma di alambicchi e forni si riferiscono ad apparecchiature alchimistiche (figura 1.4). Comunque noi consideriamo la scienza oggi, è bene rendersi conto che essa non ha avuto inizio come un'impresa molto razionale. Al tempo di Bosch l'alchimia stava guadagnando terreno, ma era strettamente associata all'occultismo e in essa erano coinvolte schiere di ciarlatani e impostori, che il pittore dipinse con grande umorismo dinanzi al loro pubblico di creduloni. L'alchimia si trasformò in una scienza empirica solo quando si liberò da tali influenze e sviluppò procedure di autocorrezione. In che modo la scienza potesse però contribuire a una società morale rimase oscuro.

Altri primati, ovviamente, non hanno alcun problema di questo genere, ma anch'essi si sforzano di realizzare un certo tipo di società. Noi riconosciamo nel loro comportamento gli stessi valori che perseguiamo noi stessi. Per esempio, sono state viste femmine di scimpanzé trascinare dei maschi riluttanti l'uno verso l'altro per indurli a rappacificarsi dopo uno scontro violento, togliendo loro le armi di mano. Inoltre i maschi di rango elevato fungono spesso da arbitri imparziali per comporre dispute nella comunità. Io considero questi indizi di interesse verso la comunità un segno del fatto che gli ingredienti per la costruzione della moralità sono anteriori all'umanità e che non c'è bisogno di Dio per spiegare come siamo diventati quelli che siamo oggi. D'altra parte, che cosa accadrebbe se scindessimo la religione dalla società? Io avrei difficoltà a vedere come la scienza e la visione del mondo naturalistica potrebbero colmare il vuoto e diventare un'ispirazione per agire bene.

Alla fine della mia escursione transatlantica di una settimana, nel viaggio di ritorno in aereo trovai il tempo di scorrere le settecento risposte circa generate dal mio post Morals without God? La maggior parte dei commenti era costruttiva e favorevole, in quanto esprimeva opinioni a sostegno di origini graduali della moralità. Gli atei non poterono resistere all'opportunità di sferrare altri attacchi alla religione, andando in tal modo oltre le mie intenzioni. Per me la comprensione del bisogno della religione è un obiettivo molto superiore a quello di distruggerla. Il problema centrale dell'ateismo – l'inesistenza di Dio – non ha per me assolutamente alcun interesse. Che cosa possiamo guadagnare innervosendoci sull'esistenza di qualcosa che nessuno può dimostrare o confutare? Nel 2012 Alain de Botton suscitò irritazione aprendo il suo libro Del buon uso della religione con le parole "Non può esserci domanda più noiosa e improduttiva di quella di domandarsi per una qualsiasi religione se sia o no vera, se essa sia stata o no rivelata dal cielo al suono di trombe". Eppure, per qualcuno questo rimane l'unico problema di cui si possa parlare. Com'è possibile che ci siamo ridotti a quest'angustia mentale, come se ci fossimo iscritti a un club di dibattiti in cui tutto ciò che si può fare sia vincere o perdere?

La scienza non è la risposta per qualsiasi cosa. Quando ero studente appresi dell'errore noto come "fallacia naturalistica" e di come, per gli scienziati, sarebbe il culmine dell'arroganza pensare che la loro opera possa illuminare la differenza fra vero e falso. Non era trascorso allora molto tempo dalla fine della Seconda guerra mondiale, la quale ci aveva portato una grandissima quantità di mali d'ogni sorta, che venivano giustificati facendo riferimento a una teoria scientifica dell'evoluzione autodiretta. Gli scienziati erano stati molto coinvolti nella macchina del genocidio, compiendo esperimenti inimmaginabili. Si era tentato di creare per inseminazione gemelli congiunti; esseri umani vivi erano stati operati senza anestesia, e arti e occhi erano stati espiantati e reimpiantati nel corpo di persone. Non ho mai dimenticato questo fosco periodo postbellico, durante il quale ogni scienziato che parlasse con un accento tedesco veniva sospettato delle cose più turpi. Scienziati americani e britannici non erano però innocenti, essendo stati i primi nel corso del secolo a cimentarsi nei loro paesi con l'eugenetica. Essi introdussero leggi razziste sull'immigrazione e imposero la sterilizzazione dei sordi, dei ciechi e dei malati mentali, nonché di persone fisicamente menomate, oltre che di criminali e di membri di classi minoritarie. Interventi chirurgici in quest'ottica furono compiuti in segreto su persone che si trovavano in ospedale per altre ragioni. Per coloro che non vogliono imputare queste sordide vicende alla scienza e preferiscono parlare in proposito di pseudoscienza, sarà bene considerare che l'eugenetica fu in molte università una disciplina accademica seria. Fra il 1930 e il 1940 esistettero istituti di eugenetica in Inghilterra, Svezia, Svizzera, Russia, America, Germania e Norvegia. Il padre fondatore di questa nuova scienza, l'antropologo ed erudito Francis Galton, divenne un fellow della Royal Society e fu nominato cavaliere dopo avere abbracciato idee sul miglioramento della specie umana. In particolare, Galton pensava che il cittadino medio "non [fosse] all'altezza di svolgere il lavoro quotidiano nella civiltà moderna".

Furono Adolf Hitler e i suoi seguaci a fare involontariamente piena luce sulla bancarotta morale di queste idee. Il risultato inevitabile fu una caduta precipitosa della fede nella scienza, e specialmente nella biologia. Fra il 1970 e il 1980 i biologi erano ancora comunemente assimilati a fascisti, come durante l'infuocata protesta contro la "sociobiologia". Essendo io stesso un biologo, sono lieto che quei giorni astiosi siano finalmente passati, ma al tempo stesso mi domando in che modo qualcuno potrebbe dimenticare quel passato e salutare la scienza come la nostra salvatrice morale. Come siamo passati da una profonda sfiducia a un ingenuo ottimismo? Benché io veda di buon occhio una scienza della morale – le mie stesse ricerche ne fanno parte – non posso capire come la scienza possa determinare valori umani, come nel sottotitolo dato da Sam Harris (2010) al suo libro The Moral Landscape. La pseudoscienza è qualcosa che appartiene al passato? Pensiamo all'infame studio di soli pochi decenni fa sulla sifilide non sottoposta a trattamento a Tuskegee in Alabama in qualche centinaio di contadini neri ignari di essere affetti dalla malattia, o al coinvolgimento di medici nelle torture a cui sono sottoposti i prigionieri detenuti nel campo di prigionia nella base navale americana a Guantánamo (Cuba). Io sono profondamente scettico sulla purezza morale della scienza, e penso che il suo ruolo non dovrebbe mai superare quello di un'ancella della morale.

La confusione sembra derivare dall'illusione che tutto ciò di cui abbiamo bisogno per avere una buona società sia una maggiore conoscenza. Una volta trovato l'algoritmo centrale della moralità – così procede il ragionamento – potremo affidare tranquillamente il tutto alla scienza. Solo la scienza ci garantirà le scelte migliori. È un po' come pensare che un famoso critico d'arte debba essere un grande pittore o un critico di cucina un grande chef. Dopo tutto, è vero che i critici possono offrire valutazioni profonde in relazione a particolari prodotti. Essi posseggono il giusto sapere; perché, dunque, non lasciare che siano loro a fare? Dobbiamo però tenere ben presente che la competenza di un critico è quella di giudicare, non di creare. E la creazione richiede intuizione, abilità e visione. Anche ammesso che la scienza ci insegni ad apprezzare come funziona la moralità, ciò non significa che possa farci da guida, non più di come possiamo aspettarci che prepari un uovo una persona che sappia quale sapore esso debba avere.

La visione della morale come un insieme di princìpi, o leggi, immutabili, che sta a noi scoprire, deriva in ultima analisi dalla religione. Non importa in realtà se sia Dio, la ragione umana o la scienza a formulare queste leggi. Tutte queste impostazioni condividono un orientamento dall'alto al basso, e la loro premessa principale è che gli esseri umani non sappiano come comportarsi e che qualcuno debba dirglielo. Ma che dire se la moralità si creasse nelle interazioni sociali quotidiane, e non a un qualche livello mentale astratto? E se fosse fondata nelle emozioni, che per lo più sfuggono alle categorizzazioni nette che tanto piacciono alla scienza? Poiché il mio intento principale in questo libro è quello di sostenere un'impostazione dal basso all'alto, tornerò ovviamente più avanti su questo problema. Le mie opinioni sono in linea con il modo in cui conosciamo il funzionamento della mente umana, con le reazioni viscerali che precedono le razionalizzazioni e anche con il modo in cui l'evoluzione produce il comportamento. Un buon punto da cui prendere l'avvio è il riconoscimento del nostro sfondo di animali sociali e di come questo sfondo ci predisponga a trattarci reciprocamente. Questo approccio merita attenzione in un tempo in cui persino gli atei confessi sono incapaci di liberarsi da una moralità semireligiosa, pensando che il mondo sarebbe un posto migliore se solo i sacerdoti in camice bianco potessero soppiantare quelli in abiti sacerdotali.

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Pagina 50

La mia vita come rana da tazza del water


In Australia non è insolito trovare una rana piuttosto grande nella tazza del water. Si può tentare di sloggiarla, ma la rana salterà di nuovo allegramente nella tazza, dove si attaccherà con le dita a ventose durante gli occasionali tsunami che vi produciamo noi esseri umani. Queste rane non sembrano preoccuparsi degli escrementi umani che scendono vorticando nella tazza del water.

Io invece mi preoccupo! Negli ultimi tre decenni mi sono infatti sentito come una di quelle rane. Dovevo attaccarmi disperatamente da qualche parte ogni volta che usciva un libro sulla condizione umana – fosse scritto da biologi, antropologi o giornalisti scientifici – perché la maggior parte di loro sosteneva idee che erano anatemi per il modo in cui io vedo la nostra specie. Si può considerare l'uomo o intrinsecamente buono ma capace di fare il male o intrinsecamente cattivo ma capace di fare il bene. Io appartengo alla prima categoria, ma la letteratura sottolineava solo il lato negativo. Persino i tratti positivi dovevano essere espressi come se fossero molto problematici. Animali ed esseri umani amano le loro famiglie? Chiamiamolo "nepotismo". Gli scimpanzé permettono ai loro amici di mangiare cibo prendendolo dalle loro mani? Chiamiamolo "rubacchiare" e "mangiare a scrocco". Il tono prevalente era pieno di dubbi sulla benevolenza. Ecco un'affermazione caratteristica, citata ripetutamente in questa letteratura:

Nessun accenno di genuina chiarezza migliora la nostra visione della società, una volta messo da parte il sentimentalismo. Quella che viene spacciata per cooperazione risulta essere un misto di opportunismo e di sfruttamento [...]. Data una piena opportunità di agire nel proprio interesse, nient'altro che motivi contingenti impediranno [a una persona] di brutalizzare, ferire, uccidere il fratello, il partner, un genitore o un figlio. Se scalfisci la pelle di un "altruista" vedrai uscirne il sangue di un "ipocrita".

L'autore di questo giudizio, Michael Ghiselin, è un biologo americano così ben noto per le sue ricerche sulle lumache di mare che proprio da lui ha preso il nome di ghiselinin una delle sostanze chimiche difensive usate da una delle specie da lui studiate, l' Hypselodoris ghiselini. Per Ghiselin, dunque, gli altruisti sono soltanto ipocriti. Ma Ghiselin riferì quel giudizio non ai suoi nudibranchi bensì all'uomo. Egli fissò il tono per molti dei giudizi che seguirono, cosa che si rifletté due decenni dopo anche nel libro The Moral Animal del giornalista scientifico Robert Wright: "La finzione dell'altruismo è parte natura umana quanto la sua frequente assenza". La posizione forse più estrema è però quella assunta dal biologo evoluzionista americano George Williams. Offrendo una cupa valutazione dello stato miserevole della natura, affermò che non bastava definire la natura "amorale" o "moralmente indifferente", come aveva fatto saggiamente Huxley. Egli accusò invece la natura di una "grossolana immoralità", diventando così il primo, e sperabilmente l'ultimo, biologo ad attribuire al processo evoluzionistico un'azione di tipo morale.

L'argomentazione procede tipicamente come segue: 1) la selezione naturale è un processo odiosamente egoistico; 2) questo fatto produce automaticamente individui egoisti e odiosi; 3) solo persone romantiche con fiori nei capelli la penserebbero diversamente. Ovviamente si sosteneva che Darwin fosse in procinto di espellere la moralità dal mondo naturale, come se si fosse trovato in fondo al vicolo cieco di Huxley. Ma Darwin era troppo intelligente per incorrere in un errore del genere, come spiegherò fra poco, ed ecco perché il culmine dell'assurdità fu raggiunto da Richard Dawkins quando sconfessò esplicitamente Darwin, dicendo nel 1997 in un'intervista che "nella nostra vita politica e sociale siamo autorizzati a gettare a mare il darwinismo".

Ma non voglio citare altre cose ripugnanti. L'unico scienziato che raggiunse una conclusione perfettamente logica — anche se io dissento totalmente da lui — fu Francis Collins, il direttore del massimo ente federale di ricerche degli Stati Uniti, i National Institutes of Health. Dopo aver letto tutti quei libri che dubitano dell'evoluzione della moralità, e avere osservato che l'umanità ne possiede tuttavia una certa misura, non vide alcun modo per evitare un ricorso al soprannaturale: "La legge morale rappresenta per me il più forte indicatore di Dio".

Naturalmente lo stimato genetista divenne lo zimbello del nascente movimento ateo. Alcuni sostennero che stava contaminando la scienza con la fede, mentre Dawkins, con la sua caratteristica indulgenza, lo definì "un tizio non molto brillante". Con buona pace del problema più profondo, ossia del fatto che armeggiando seriamente con il problema della moralità i biologi avevano lasciato la porta aperta a spiegazioni alternative. L'intero episodio avrebbe potuto essere evitato se Collins si fosse imbattuto in una letteratura evoluzionistica più seria, che si fosse fondata sull' Origine dell'uomo di Darwin. Leggendo questo libro, ci si sarebbe resi conto che non c'era assolutamente alcun bisogno di gettare via il bambino con l'acqua sporca. Darwin non aveva alcun problema ad allineare la moralità con il processo evoluzionistico e a riconoscere la capacità dell'uomo di fare il bene. Cosa più interessante per me, vedeva una continuità emotiva fra gli altri animali e l'uomo. Per Huxley gli animali erano automi privi di una mente, ma Darwin scrisse un intero libro sulle loro emozioni, compresa la loro capacità di provare simpatia. Un esempio memorabile fu quello di un cane che non si allontanava mai da un cesto nel quale si trovava un suo amico malato, un gatto, senza avergli dato qualche leccatina. Darwin vide in questo comportamento un sicuro segno di affetto. Nella sua ultima lettera a Huxley, poco prima di morire, Darwin non poté resistere alla tentazione di punzecchiare amabilmente la propensione cartesiana dell'amico, accennandogli al fatto che, se gli animali erano macchine, allora dovevano esserlo anche gli esseri umani: "Vorrei proprio che ci fossero al mondo più automi come te".

Lo scritto di Darwin contraddice massicciamente la teoria della vernice. Egli congetturò, per esempio, che la moralità si sviluppasse direttamente a partire da istinti sociali animali, dicendo che "sarebbe assurdo considerare questi istinti derivanti da egoismo". Darwin vide la potenzialità di un altruismo genuino, almeno al livello psicologico. Come la maggior parte dei biologi, tracciò una linea netta fra il processo della selezione naturale, che in effetti non ha in sé niente di bello, e i suoi molti prodotti, che coprono una grande varietà di tendenze. Egli non accettava la tesi che un brutto processo dovesse produrre necessariamente brutti risultati. Pensare in questo modo è quello che io ho chiamato l'"errore di Beethoven", cioè valutare la musica di Beethoven sulla base di come e dove fu composta. La casa viennese del maestro era un porcile sporco e puzzolente, cosparso di rifiuti e di vasi da notte vuoti. Ovviamente nessuno giudicherà mai la musica di Beethoven dall'aspetto della sua casa. Nello stesso modo, anche ammesso che l'evoluzione genetica proceda attraverso morte e distruzione, questo fatto non inficia le meraviglie da essa prodotte.

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Il lontano addio


C'è solo una data che, anziché essere spinta costantemente a ritroso, sta avanzando sempre più verso il nostro tempo. Nella prima metà del Novecento gli alberi filogenetici nei libri di testo mostravano ancora il ramo umano che cresceva in glorioso isolamento per 25 milioni di anni.

La nostra famiglia immediata consta delle quattro grandi scimmie antropomorfe o antropoidi (scimpanzé, bonobo, gorilla e oranghi) e delle cosiddette scimmie antropomorfe minori (gibboni e siamanghi). È un piccola famiglia rispetto alle duecento specie di scimmie e proscimmie che compongono l'ordine dei primati. Le scimmie, con la loro lunga coda e il loro muso sporgente, sono più lontane da noi rispetto alle scimmie antropomorfe. Ma il vecchio albero filogenetico, che ci poneva a grande distanza da tutti i primati, non sarebbe durato a lungo. Carl von Linné (Linneo) poteva avere già previsto questo sviluppo quando assegnò l'umanità a un proprio genere separato, Homo. Si dice che il tassonomista svedese avesse i suoi dubbi sul nostro status speciale ma avesse deciso di evitare grane con il Vaticano. Tre secoli dopo, l'analisi delle proteine del sangue e del DNA rese possibile un modo di confrontare le diverse specie più sicuro delle comparazioni anatomiche usate fino ad allora. I nuovi dati ci separarono dalle scimmie, ma ci collocarono in mezzo alle scimmie antropomorfe (figura 3.1). Questa fu un'evidenza sconvolgente, ma è difficile contestare i risultati forniti dal DNA, in quanto esso evita i problemi connessi con la scelta dei caratteri umani che si vogliono evidenziare. Noi possiamo pensare che camminare su due gambe sia un grande vantaggio, ma nel grande piano della natura non è così. Anche i polli camminano su due arti. La comparazione del DNA aggira ogni prevenzione umana. In un albero fondato sul DNA, l'umanità occupa un solo minuscolo ramo fra molti, essendosi separata dalle scimmie antropomorfe circa sei milioni di anni fa. Se verso la fine di questo percorso l'ibridazione (come nel caso dei neandertaliani) favorì il successo della nostra specie, lo stesso fenomeno potrebbe avere operato anche all'inizio. Il DNA di Homo sapiens e delle scimmie antropomorfe mostra segni di un'antica ibridazione. Dopo il distacco, i nostri antenati continuarono probabilmente a tornare fra le scimmie antropomorfe, nello stesso modo noto oggi per i grizzly e gli orsi polari, o per i lupi e i coyote. Alcuni paleontologi sono scettici, ritenendo improbabile che i nostri progenitori bipedi abbiano continuato a ibridarsi per più di un milione di anni con scimmie antropomorfe che camminavano a quattro zampe, ma a quanto so il modo in cui si cammina non dice molto sulla capacità di accoppiarsi. Questo scetticismo mi fa tornare in mente un'asserzione ancora più sconcertante risalente al periodo in cui non si sapeva ancora dell'ibridazione fra Homo sapiens e neandertaliani; si diceva infatti che si poteva escludere con certezza la pratica del sesso fra questi due ominini, dal momento che non parlavano sicuramente la stessa lingua. Io non potei fare a meno di ridacchiare, pensando a come ci eravamo incontrati la prima volta mia moglie e io. Anche se francesi e olandesi non parlano la stessa lingua, non pare che questa sia una barriera tanto importante.

Il primo a proporre la discendenza umana dalle scimmie antropomorfe fu il naturalista Jean-Baptiste Lamarck , nel 1809.

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Paradiso di piacere


Quando ero studente, visitai uno zoo olandese che oggi non esiste più: ospitava "scimpanzé pigmei", il nome che si usava allora per i bonobo. Era la prima volta che vedevo questa specie. Rimasi colpito dal contrasto fra il loro comportamento, il loro contegno e il loro aspetto e quelli degli scimpanzé. Gli scimpanzé hanno una corporatura robusta, mentre i bonobo avevano un aspetto più gracile e, al confronto, piuttosto "intellettuale". Con il loro collo sottile e le loro mani da pianista sembravano tipi da biblioteca più che da palestra. A quei tempi non si sapeva quasi niente dei bonobo, e io decisi su due piedi che la situazione doveva cambiare. Ero stato indotto a credere che i bonobo fossero solo una versione minore dello scimpanzé, ma c'era chiaramente qualcosa di più.

Quel giorno assistetti a un litigio a proposito di una scatola di cartone: un maschio e una femmina si inseguivano intorno a una scatola di cartone e si colpivano vicendevolmente; a un certo punto, improvvisamente la loro lotta era finita e stavano facendo l'amore! Sembrava una cosa strana: ero abituato agli scimpanzé, che non passano tanto facilmente dalla rabbia al sesso. Pensai che fosse un semplice caso, o che mi fossi lasciato sfuggire qualcosa che spiegasse quel cambiamento di umore, ma poi risultò che quel che avevo visto era perfettamente normale per questi primati praticanti del Kama Sutra. Lo appresi però solo vari anni dopo, quando cominciai a lavorare con loro.

Anche se diventare un sessuologo dei primati non fu mai il mio obiettivo, fu però una conseguenza inevitabile del loro studio. Li avevo visti in tutte le posizioni immaginabili, e persino in alcune che ci riesce difficile immaginare (come a testa in giù e "piedi" in su, appesi per i piedi). L'osservazione più significativa sul sesso dei bonobo è che esso è estremamente irregolare e molto ben integrato con la vita sociale. Non è questo il modo in cui la maggior parte di noi guarda alla propria vita amorosa, essendo noi vittime di una quantità di complessi, di ossessioni e di inibizioni. Alcune persone non riescono nemmeno a far sesso con la luce accesa! Ecco perché tutti mi strizzano l'occhio quando dico che lavoro con i bonobo, come se si trattasse di un'attività elettrizzante, che mi permette di godere di un piacere proibito. Ma quanto più si osservano i bonobo, tanto più il sesso comincia ad assomigliare a qualcosa come controllare la propria e-mail, soffiarsi il naso o dire ciao. Un'attività di routine. Noi usiamo le mani per salutare, come quando stringiamo la mano a qualcuno, o ci diamo l'un l'altro una pacca sulla schiena, mentre i bonobo praticano una sorta di "stretta di mano genitale". La loro attività sessuale è fulminea, misurandosi in secondi, non in minuti. Noi associamo un rapporto sessuale con la riproduzione e con il desiderio, ma nei bonobo soddisfa ogni sorta di bisogno. La gratificazione non è sempre lo scopo dell'atto sessuale, e la riproduzione è solo una delle sue funzioni. Ciò spiega perché si impegna in esso una grande varietà di combinazioni di partner.

Nel discutere questa multifunzionalità, è difficile non notare che alcune persone la odiano e altre la amano. L'odio è legato alle visioni consolidate sul ruolo delle gerarchie maschili, della territorialità e della violenza nell'evoluzione umana: è questo, senza dubbio, il motivo per cui gli antropologi continuano a ignorare i bonobo. Essi non hanno spazio per primati così stravaganti nel nostro passato. La bonobofilia non è però necessariamente più razionale. Essa riflette spesso un pio desiderio che si fonda su un'immagine idealizzata dei nostri progenitori. Dopo avere tenuto conferenze sui bonobo, mi sono spesso imbattuto in "poliamoristi" che pensano di avere molto in comune con questa specie di primati, o in persone che mi dicono che a volte sognano di assomigliare ai bonobo. Altri suggeriscono che noi dovremmo essere loro discendenti diretti, con l'implicazione che dovremmo essere matriarcali come i bonobo e liberarci delle nostre camicie di forza sessuali.

L'associazione dei nostri antenati con il "libero amore" ha una connotazione biblica. Non che la Bibbia incoraggi la promiscuità, ma ci dice che prima del peccato noi vivevamo in uno stato di beata innocenza. Gli altri primati sono visti a volte come esseri che conducono una vita incolpevole in un ambiente originario incorrotto, come noi consideriamo l'Eden. Si pensa che non conoscano freni sessuali. Su questo argomento esiste persino una teoria ufficiale dell'antropologo Claude Lévi-Strauss , il quale suggerì che la civiltà umana avesse avuto inizio con l'istituzione del tabù dell'incesto. Prima di quell'epoca noi avevamo rapporti sessuali con chiunque capitasse, a prescindere dal fatto che fossimo consanguinei o no. Il tabù dell'incesto ci introdusse in un nuovo ambito, facendoci passare da quello naturale a quello culturale. Quanto era lontano dal segno Lévi-Strauss! La soppressione dell'inincrocio, o inbreeding, come lo chiamano i biologi, è ben sviluppata in ogni sorta di animali, dai moscerini della frutta e dai roditori ai primati. È una sorta di mandato biologico per specie che si riproducono sessualmente. Nei bonobo l'attività sessuale fra padre e figlia è impedita dal fatto che le femmine abbandonano la loro comunità intorno alla pubertà per andare a far parte di comunità vicine. È invece del tutto assente il sesso fra madri e figli, benché questi rimangano in famiglia e spesso viaggino con le loro madri. Questa è l'unica combinazione di partner priva di attività sessuale nella società dei bonobo, e senza che ci siano tabù a vietarla.

A cominciare dal "buon selvaggio" di Rousseau , la preistoria viene spesso ricostruita dal punto di vista piuttosto indifferente in cui noi tutti tiriamo allegramente avanti senza preoccuparci neppure per un momento del domani. Margaret Mead parve attingere a questo punto di vista quando descrisse la vita amorosa a Samoa, e un recente documentario della BBC ha attribuito questo particolare pregiudizio occidentale a un'"intatta" tribù amazzonica. Due antropologi che hanno familiarità con la comunità peruviana di Matsigenka sostengono che l'intero documentario è stato costruito in modo ingannevole. Il documentario si apre mostrando la troupe cinematografica che entra nel villaggio. La troupe ha evitato una pista ben battuta, facendo così vedere gli uomini della spedizione che si aprono a fatica un passaggio nella foresta per raggiungere lo sperduto villaggio. Si dice che il documentario sia zeppo di traduzioni grossolanamente sbagliate, che trasformano osservazioni innocue ("Voi venite da molto lontano, dove vivono i gringos") in affermazioni bellicose ("Noi usiamo frecce per uccidere gli stranieri"). Quando il vecchio capo del villaggio dice malinconicamente: "Farò sesso un altro giorno", la traduzione dice: "Faccio sesso tutti i giorni".

L'immaginazione perde i freni non appena pensiamo alle origini umane. Ci raffiguriamo i nostri progenitori come persone prive di cultura, non ancora in possesso del linguaggio, dotate di tecniche molto rudimentali e con solo un minimo di restrizioni sessuali. Per quanto possa sembrare irrealistico, due secoli prima di Rousseau la gente era pronta a cominciare a credere a questo genere di fantasie sulle origini, come risulta evidente dall'apparizione quasi simultanea del libro Utopia dell'umanista inglese Thomas More (Tommaso Moro) e del polittico Il giardino delle delizie di Bosch. L'utopia di More includeva uno stato del benessere, la mancanza di proprietà privata e l'eutanasia, ma non il libero amore. Di fatto il sesso preconiugale era punito in Utopia con una vita di celibato. La fantasia di Bosch, di contro, ci presenta una quantità di uomini e donne nudi felici che se la spassano nel pannello centrale del Giardino delle delizie, indulgendo ai piaceri del palato e del sesso (figura 3.3). Che cosa tentava di dirci l'artista? Secondo l'interpretazione tradizionale, questo trittico mostra la corruzione dell'innocenza seguita dalla punizione all'inferno nel pannello laterale destro. Sembrava tutto semplice: il sesso è peccato e ai peccatori spetta l'inferno. Se le cose stanno così, la prospettiva morale del Giardino delle delizie non è molto diversa da quella dell' Utopia. Oggi però noi sappiamo che il dipinto di Bosch rivela í suoi segreti solo con riluttanza. Insieme al Cenacolo di Leonardo da Vinci, press'a poco contemporaneo, è probabilmente l'opera d'arte su cui si è scritto di più. È un'opera che appare nuova a ogni generazione successiva, spesso rivelando di più sull'epoca in cui fu prodotta che sul dipinto stesso.

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[...]

Oggi nei miei rapporti con persone religiose e non religiose traccio una linea di demarcazione netta fondata non su ciò che esse esattamente credono, ma sul loro livello di dogmatismo. Considero il dogmatismo una minaccia molto maggiore della religione di per sé. Sono particolarmente curioso di sapere perché qualcuno voglia abbandonare la religione conservando però i paraocchi che a volte la accompagnano. Perché i neo-atei di oggi sono così ossessionati dall'inesistenza di Dio da impegnarsi in campagne furibonde sui media, da indossare T-shirt che proclamano la loro mancanza di fede o da invocare un ateismo militante? Che cos'ha oggi da offrire l'ateismo per cui valga la pena di lottare?

Come si espresse un filosofo, essere un ateo militante è come "dormire furiosamente".

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Il dogmatismo seriale


Negli Stati Uniti la religione appare immensa come un elefante, tanto che l'ateismo si configura come il maggiore ostacolo alla carriera di un uomo politico, più del fatto di essere gay, di non essere sposato, di essersi sposato tre volte, o di essere nero. Un fatto del genere ha, com'è ovvio, una portata sconvolgente, e spiega perché gli atei abbiano rivendicato così vigorosamente un posto a tavola. Pungolano l'elefante per vedere se esso non possa lasciar loro qualche spazio. Ma è pur sempre l'elefante a definirli: quale sarebbe infatti il punto dell'ateismo in assenza della religione?

Ogni tanto la televisione americana, come se fosse ansiosa di rendere un po' più equilibrata questa battaglia impari, la compendia nel suo modo comico di cercare di rendere interessanti fatti privi di un qualsiasi valore intrinseco, abbellendoli con particolari inventati. Il programma televisivo americano The O'Reilly Factor, nelle Fox News, invitò il presidente dell'American Atheist Club, David Silverman, a discutere alcuni manifesti nei quali la religione era proclamata una "frode". Nell'intervista Silverman mantenne un atteggiamento simpatico, sostenendo che non c'era assolutamente nulla per cui inquietarsi, dal momento che tutto ciò che i manifesti dicevano era la verità: "Tutti sanno che la religione è una frode!". Bill O'Reilly, che è un cattolico, espresse il suo disaccordo e chiarì perché la religione non è una frode: "Le maree entrano, le maree escono. Tutto questo è sempre perfettamente coordinato. Lei questo non può spiegarlo". Questa era la prima volta che sentivo dire che si potessero usare le maree come prova dell'esistenza di Dio. Sembrava uno sketch comico in cui un attore sorridente diceva ai credenti che erano troppo stupidi per rendersi conto che la religione è una frode, ma che sarebbe stato sciocco offendersi per questo, quando il suo avversario usava il flusso e riflusso del mare come una prova di una forza soprannaturale, come se la gravità e la rotazione della Terra non potessero spiegare il fenomeno in un modo soddisfacente.

Tutto ciò che ricavai da tali scambi è la conferma che i credenti sono disposti a dire qualsiasi cosa per difendere la loro fede e che alcuni atei sono diventati evangelici. Nel primo fenomeno non trovo niente di strano, ma lo zelo degli atei continua a sorprendermi. Perché "dormire furiosamente" a meno che non ci siano demoni interni da tenere a bada? Nello stesso modo in cui a volte i pompieri sono in segreto degli incendiari e gli omofobi degli omosessuali, alcuni atei non potrebbero anelare nascostamente alla certezza della religione?

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Perché dunque la gente credette in lui? Smith fu oggetto di grande derisione e ostilità (fu ucciso da una folla inferocita all'età di trentotto anni), ma la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni conta oggi 14 milioni di seguaci. È chiaro che i credenti non vanno alla ricerca di prove perché l'unico oggetto che avrebbe potuto essere utile in quest'ottica, l'insieme delle lastre d'oro, lo si dovette restituire all'angelo. La gente, semplicemente, crede perché vuole credere. Quest'affermazione è applicabile a tutte le religioni. La fede è alimentata dall'attrazione verso particolari persone, storie, rituali e valori. Essa appaga bisogni emozionali, come il bisogno di sicurezza e di autorità e il desiderio di appartenenza. La teologia viene al secondo posto e le prove al terzo. Sono d'accordo che quel che viene chiesto ai fedeli di credere possa essere alquanto ridicolo, ma senza dubbio gli atei non riusciranno a parlare ai credenti ponendosi fuori della loro fede e facendosi beffe della veridicità dei loro libri sacri o paragonando il loro Dio al Flying Spaghetti Monster. I contenuti specifici della fede sono difficilmente in gioco se l'obiettivo supremo è il senso della comunione sociale e morale. Per prendere a prestito dal titolo di un libro della scrittrice americana Amy Tan (Saving Fish from Drowning [Perché i pesci non affoghino]), criticare la fede è come cercare di evitare che i pesci affoghino. Non c'è alcuna ragione di tirar fuori i credenti dal lago per dire loro che cosa era meglio per loro posandoli sulla riva, dove saltelleranno qua e là fino a quando la mancanza di ossigeno respirabile per loro ne determinerà la morte. Se erano nel lago, c'erano per una buona ragione.

Se si accetta il fatto che la fede trae energia da valori e desideri, ci si imbatte immediatamente in un forte contrasto con la scienza, ma si fa luce anche su un terreno comune, dal momento che la scienza è in effetti sospinta dai fatti molto meno di quanto si supponga comunemente. Non fraintendete quel che sto dicendo: la scienza produce grandi risultati. Essa non ha rivali quando si tratta di capire la realtà fisica, ma anche la scienza è spesso fondata, come la religione, su quel che vogliamo sapere. Gli scienziati sono uomini, e come gli altri uomini sono guidati da quelle che gli psicologi chiamano "tendenza alla conferma" (apprezziamo le prove che confermano le nostre opinioni) e "tendenza alla sconfessione" (tendiamo a non considerare quelle che non le confermano). Il fatto che gli scienziati resistano sistematicamente a nuove scoperte era già stato sostenuto in un articolo del 1961 nelle illustri pagine di Science, che aggiungeva al titolo "Resistance by scientists to scientific discovery [La resistenza degli scienziati alla scoperta scientifica]" il malizioso sottotitolo "This source of resistance has yet to be given the scrutiny accorded religious and ideological sources [Questa fonte di resistenza non è ancora stata sottoposta all'esame minuzioso già riservato a fonti religiose e ideologiche]".

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Dall'"essere" al "dover essere"


Il carattere più affascinante del codice sociale è il fatto di essere prescrittivo. Il codice ha un'autorità: non mi riferisco solo a come gli animali si comportano, ma a come ci si attende che si comportino. Tutto si riduce alla differenza fra "essere" e "dover essere". Questo potrebbe sembrare uno strano inciso grammaticale, ma si dà íl caso che la divisione fra "essere" e "dover essere" sia un punto importante per i filosofi. In effetti è impossibile discutere l'origine della morale senza trovarsi impigliati in questa distinzione. L'"essere" descrive come stanno le cose (tendenze sociali, capacità mentali, processi neurali), mentre il "dover essere" si riferisce a come desideriamo che le cose siano e a come dovremmo comportarci: l'"essere" concerne i fatti e il "dover essere" concerne i valori. Gli animali che vivono secondo un codice prescrittivo sono passati dall'"essere" al "dover essere". E lo hanno fatto, potrei aggiungere, ignorando totalmente l'oceano di inchiostro accademico che è stato versato su questa particolare transizione.

Il filosofo scozzese che ci ha dato la distinzione fra "essere" e "dover essere", Davíd Hume , scrisse quasi tre secoli fa che dovremmo fare attenzione a non supporre che í due verbi possano dire press'a poco la stessa cosa, aggiungendo che "è necessario spiegare" il modo in cui noi argomentiamo passando dai fatti della vita ai valori a cui tendiamo. In altri termini la moralità non è semplicemente un riflesso della natura umana. E come non si possono inferire regole sul traffico dalla descrizione di un'automobile, così non si possono inferire norme morali dalla conoscenza di chi o che cosa siamo. Hume espose molto bene la sua tesi, rimanendo molto lontano dall'esagerazione di filosofi posteriori, che trasformarono il suo appello alla prudenza nella cosiddetta "ghigliottina di Hume", sostenendo che fra "essere" e "dover essere" c'è un abisso invalicabile. Essi continuarono poi a usare la minaccia di questa ghigliottina per scongiurare qualsiasi tentativo, anche i più prudenti, di applicare la logica evoluzionistica o le neuroscienze alla moralità umana. La scienza non può dirci come costruire la moralità, dissero. Benché ciò sia vero, la scienza può sicuramente aiutarci a spiegare perché certi esiti potrebbero essere favoriti rispetto ad altri, e quindi perché la moralità è così com'è. Da un lato non ci sarebbe alcuno scopo a progettare regole morali impossibili da seguire, esattamente come non avrebbe alcun senso progettare regole del traffico che le macchine non siano in grado di rispettare, come per esempio quella di superare le auto più lente con un salto. Fra i filosofi, questo è noto come l'argomento "'deve' implica 'può'". La moralità deve essere possibile per la specie a cui è destinata.

"Essere" e "dover essere" sono come lo yin e lo yang della moralità. Li abbiamo tutti e due, abbiamo bisogno di tutti e due, non sono la stessa cosa e tuttavia non sono del tutto separati. Si integrano l'un l'altro. Lo stesso Hume ignorò la "ghigliottina", che prese il nome da lui, sottolineando quanto fosse importante la natura umana: egli vide nella moralità un prodotto delle emozioni. L'empatia (da lui chiamata "simpatia") era in cima alla sua lista e aveva a suo giudizio un immenso valore morale. Questa opinione non era contraddittoria da parte sua: tutto quel che egli raccomandava era infatti la prudenza nel passare da come siamo a come dovremmo comportarci. Hume non disse mai che questo passaggio fosse proibito. Dovremmo anche tenere a mente che la tensione fra l'essere e il dover essere si sente in modo molto meno chiaro nella vita reale che al livello concettuale in cui ama soggiornare la maggior parte dei filosofi. Essi sentono che noi non possiamo innalzarci con il ragionamento da un livello all'altro, e hanno ragione, ma chi dice che la moralità sia, o debba essere, costruita razionalmente? E se fosse fondata su valori emozionali, come pensava Hume?

I valori sono radicati nel nostro modo di essere. A volte si pensa che la biologia ricada per intero dal lato "essere" dell'equazione morale, ma ogni organismo persegue degli obiettivi. Uno di questi è la sopravvivenza, un altro la riproduzione, ma ci sono anche obiettivi più immediati, come quello di tener fuori possibili rivali dal nostro territorio o quello di evitare temperature estreme. Gli animali "devono" cibarsi, sfuggire ai predatori, trovare partner con cui riprodursi e via dicendo. Benché la pancia piena non sia chiaramente un valore morale, la distinzione diventa più difficile quando passiamo al campo sociale. Gli animali sociali "devono" andare d'accordo. La moralità umana si sviluppa dalla sensibilità verso gli altri e dalla comprensione del fatto che per cogliere i benefici della vita di gruppo occorre la disponibilità ad accettare compromessi e a prendere in considerazione i bisogni degli altri.

Non tutti gli animali condividono questa sensibilità. I piragna e gli squali, anche se fossero intelligenti come noi, non potrebbero mai acquisire il nostro codice sociale, dato che il fatto di arrecare danno agli altri non lí preoccupa minimamente, eccezion fatta per l'evenienza che ci sia il rischio di rappresaglia. Noi siamo emozionalmente del tutto diversi, cosa che spiega perché assegniamo uno status speciale alle nozioni di aiutare e di danneggiare (o non danneggiare) altri. Questi valori, anziché venirci dall'esterno o essere conseguiti da noi attraverso ragionamenti logici, sono profondamente radicati nel nostro tronco encefalico. Nel libro Neurobiologia della morale, Patricia Churchland introduce il linguaggio essere/dover essere per spiegare come l'evoluzione ci predispose alla moralità:

Da un punto di vista biologico le emozioni fondamentali sono il modo usato da madre natura per orientarci a fare quel che dovremmo prudenzialmente fare. Le emozioni sociali sono un modo per indurci a fare quello che dovremmo fare socialmente, e il sistema delle remunerazioni e delle punizioni è un modo per insegnarci a usare le esperienze passate al fine di migliorare le nostre prestazioni in entrambi gli ambiti.

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L'autonomia sessuale femminile è notevolmente maggiore nelle società matriarcali che in quelle patriarcali, e l'umanità ha sperimentato una quantità sterminata di organizzazioni della riproduzione. Noi abbiamo forse adottato una monogamia rigorosa solo dopo la rivoluzione agricola, circa diecimila anni fa, quando gli uomini hanno cominciato a preoccuparsi di accasare le loro figlie e di lasciare in eredità le loro ricchezze. Le ossessioni della fedeltà e della verginità in connessione con la procreazione potrebbero avere avuto origine solo a quell'epoca. Questo, almeno, è il suggerimento che ci viene dato in Sex at Dawn di Christopher Ryan e Cacilda Jethá, che indicarono provocatoriamente nel bonobo il modello ancestrale della vita sessuale umana. In un capitolo intitolato "Who's your daddies?" spiegano come in certe culture un bambino tragga dei benefici dall'avere vari padri. La loro argomentazione si fonda sul lavoro pionieristico di Sarah Hrdy sul valore di sopravvivenza delle famiglie multiparentali, nonché sul suo rifiuto del dogma che un uomo debba essere disposto a occuparsi solo dei bambini di cui ha la certezza di essere il padre. Alcune tribù praticano la "paternità divisibile", in cui si suppone che il feto nel ventre materno si nutra dello sperma di tutti gli uomini con i quali la donna dorme. Ogni padre potenziale rivendica un pezzo di paternità e ci si attende che contribuisca al mantenimento del bambino. Questa soluzione, che è comune in tribù delle pianure del Sud America e che garantisce un contributo al mantenimento del bambino in un ambiente con elevata mortalità maschile, implica una limitata esclusività sessuale. Le scelte sessuali di una donna al di fuori del matrimonio sono rispettate più che punite. Il giorno del matrimonio, agli sposi viene detto di prendersi cura dei loro figli, ma anche di tenere a freno la gelosia nei confronti dei rispettivi amanti.

La gelosia sessuale può essere universale, ma il suo incoraggiamento o dissuasione compete per intero alla società, e ciò vale anche per le norme morali universali. Più che riflettere una natura umana immutabile, la morale è strettamente connessa al modo in cui organizziamo noi stessi. Non ci si può attendere che gli allevatori nomadi di bestiame di grossa taglia abbiano la stessa moralità dei cacciatori di grandi bovini, o che questi abbiano la stessa moralità delle nazioni industrializzate. Noi possiamo formulare tutte le leggi morali che vogliamo, ma queste non potranno mai applicarsi dappertutto nella stessa misura. È dubbio che i dieci comandamenti siano un'eccezione, come si suppone spesso. Questi comandamenti possono esserci di grande aiuto nel prendere decisioni morali? Quando, in un programma televisivo americano di satira e intrattenimento, The Colbert Report, un politico conservatore affermò che i dieci comandamenti dovrebbero rimanere sempre esposti al pubblico se è vero che "senza di loro possiamo perdere il nostro orientamento," il presentatore gli chiese semplicemente di citarli. Il politico fu preso alla sprovvista. Con grande ilarità del pubblico, riuscì a citarne solo due. "Non rubare... Non dire falsa testimonianza"."

La maggior parte dei comandamenti non ha però niente a che fare con la morale, com'è stato sottolineato da Christopher Hitchens. Essi riguardano il rispetto. Nei primi quattro Dio insiste sulla fedeltà esclusiva ("Non avrai altro dio fuori di me"), nonché sul rispetto per i genitori. Solo dopo questo punto si passa alla serie di divieti introdotti dall'avverbio "non". Nelle parole di Hitchens:

Sarebbe difficile trovare una prova più evidente che la religione è un artefatto umano. C'è, prima di tutto, il ringhio monarchico sul rispetto e il timore, seguito da un severo memento dell'onnipotenza e della vendetta illimitata, del genere che un imperatore babilonese o assiro avrebbe potuto ordinare agli scribi di porre all'inizio di un suo proclama. Poi c'è un duro ammonimento a lavorare e a riposarsi solo quando lo consente il detentore del potere assoluto. Seguono alcuni rapidi richiami di tipo legale, uno dei quali è di solito mal reso perché l'originale ebraico dice in realtà "Tu non commetterai omicidio" [...]. Ma [...] è sicuramente insultante verso il popolo di Mosè pensare che esso fosse arrivato fino allora con l'idea che l'assassinio, l'adulterio, il furto e lo spergiuro fossero permessi."

Il quinto comandamento ("Non uccidere") sembra abbastanza chiaro, ma se un esercito straniero dovesse invadere il mio paese o se qualcuno dovesse rapire mio figlio, mi piacerebbe avere molte giustificazioni per ignorare questo comando. La Bibbia stessa elenca molte eccezioni. La pena capitale da parte delle autorità legittime, per esempio, non sembra rientrare tra queste. È chiaro che i dieci comandamenti non erano destinati a essere presi alla lettera.

Le due leggi morali secolari più famose non se la cavano molto meglio. Per quanto io ammiri la lettera e lo spirito della regola aurea – "Fa agli altri quel che vorresti fosse fatto a te" – essa ha un difetto fatale, presupponendo che tutte le persone siano uguali. Per fare un esempio grossolano, se dopo una conferenza seguissi una donna attraente che conosco appena fin nella sua camera d'albergo e mi infilassi nel suo letto senza essere invitato, posso immaginare abbastanza bene quale sarebbe la sua reazione. Se le spiegassi che sto solo facendo per lei quello che vorrei che lei facesse per me, ho paura che il mio appello all'applicazione della regola aurea non funzionerebbe. Oppure supponiamo che io serva deliberatamente della carne a un vegano. Siccome a me la carne piace, io sto solo seguendo la regola aurea, ma il vegano giudicherà il mio comportamento odioso o forse addirittura immorale. Patricia Churchland propone un altro esempio, concernente un burocrate canadese animato dalle migliori intenzioni, che ha tolto dei bambini a famiglie native per farli allevare da bianchi. Quei bambini, se fossero vissuti in accampamenti nella boscaglia, avrebbero potuto desiderare questa sorte per se stessi, ma oggi le politiche di integrazione forzata dei bambini indigeni nel mondo dei bianchi – come quella che ha condotto alla "generazione perduta" dei bambini indigeni australiani – sono ormai considerate immorali. La regola aurea non aiuta a risolvere la maggior parte dei problemi, come per esempio se la pena di morte sia morale o immorale, o se per Jean Valjean, nei Miserabili, fosse o no giusto rubare cibo per la nipote che moriva di fame. La regola aurea ha una portata molto limitata e funziona solo se tutte le persone sono della stessa età, lo stesso sesso e lo stesso stato di salute, con preferenze e avversioni identiche. Dal momento che non viviamo in un mondo così, la regola non è davvero così utile come sembra.

La seconda fra le due regole morali secolari più famose è il principio della massima felicità, noto anche come utilitarismo, che è stato recentemente scelto da Sam Harris come il fondamento "scientifico" della moralità.

[...]

Questa breve divagazione nei dieci comandamenti, nella regola aurea e nel principio della massima felicità mostra il mio scetticismo circa la possibilità che comandi e divieti possano essere racchiusi in regole semplici inattaccabili. I tentativi di farlo seguono la stessa logica dall'alto al basso della morale religiosa che stiamo cercando di lasciarci alle spalle. Questa logica, inoltre, non è priva di pericoli, in quanto rischia di condurci sulla strada sbagliata, anteponendo i princìpi alle persone. In una reazione estrema, questo orientamento normativo è stato etichettato come "moralmente irresponsabile". Leggendo Kitcher, Patricia Churchland e altri filosofi, si può vedere un movimento alternativo in corso che cerca di fondare la morale sulla biologia senza negare che le sue specificazioni siano decise dalle persone. Questo è anche il mio punto di vista. Non credo che l'osservazione di scimpanzé o di bonobo possa dirci che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato, e non penso neppure che possa farlo la scienza, ma sicuramente la conoscenza del mondo naturale ci aiuta a capire come e perché siamo arrivati a prenderci cura l'uno dell'altro e a cercare esiti morali. Lo facciamo perché la sopravvivenza dipende da buone relazioni, come pure da una società cooperativa.

Le leggi morali sono mere approssimazioni, forse metafore, di come dovremmo comportarci. Il fatto che i valori sottostanti possano essere interiorizzati fino al punto di condurre alla genesi di una coscienza autonoma è qualcosa che, come osservò Kant, dovrebbe riempirci l'animo di ammirazione e venerazione, perché a stento si riesce a capire come tutto questo riesca ad accadere.

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Danzando sotto la pioggia


Le spiegazioni proposte dell'origine della religione sono un'infinità. Il timore della morte è solo una fra le tante. Secondo una teoria che sembrerebbe inventata in un bar, alla base di tutto c'è l'ubriachezza. Secondo la tradizione, vino e birra fortificano il corpo, ma nutrono anche l'immaginazione. In un atto di autoesaltazione tipico delle sbronze, i nostri antenati hanno cominciato a immaginare se stessi come invincibili e a guardare oltre la loro esistenza immediata. Una connessione analoga è ancora visibile nel ruolo degli "spiriti" (solo il termine!) nei rituali religiosi, come in quelli del culto del vino legato al dio greco Dioniso nell'antica Grecia, nella messa cattolica, che presenta il vino come il sangue di Cristo, e nel Kiddush, una benedizione ebraica recitata prima di bere: "Benedetto sia tu nostro Dio, creatore del frutto del vino". Menzionato 231 volte nella Bibbia di re Giacomo, il vino ha un posto centrale in molte religioni per la sua qualità miracolosa di liberare lo spirito umano.

La salute trae beneficio da bevande fermentate e le preoccupazioni per la nostra condizione fisica in generale furono parte integrante delle antiche religioni. Senza il ricorso a una medicina efficace, si poteva morire anche di infezioni minori. La gente si rivolse alla religione per trovarvi conforto e pregare per la propria guarigione. Poteva essere giusto farlo, data la connessione epidemiologica ben stabilita fra religiosità e salute. La religione sembra promuovere il benessere fisico e mentale. Vorrei però affrettarmi ad aggiungere che c'è poco accordo su come lo faccia. Anche se molte religioni hanno regole che governano la dieta, i farmaci, il matrimonio e l'igiene, pare non sia questa la ragione. La ricerca addita invece come un fattore importante la frequentazione della chiesa, la quale suggerisce una dimensione sociale. È ben noto che la connessione sociale rafforza il sistema immunitario, e la frequentazione della chiesa aiuta sicuramente in questo senso. Ma se le cose stanno così, potrebbe non essere la religiosità di per sé a proteggere contro la malattia, bensì piuttosto il contatto umano. Per quanto ne sappiamo, gli stessi benefici potrebbero applicarsi ai membri di un club del libro o di una società di birdwatching. Le chiese producono tuttavia un impegno più condiviso, che contribuisce alla formazione di un senso di appartenenza. Émile Durkheim , il padre francese della sociologia, sottolineò l'importanza dei rituali collettivi, della musica sacra e del canto all'unisono, che fanno della pratica religiosa l'esperienza di un legame fortissimo. Altri hanno raffigurato Dio come una figura di attaccamento, che offre sicurezza e consolazione in situazioni stressanti. Molte religioni aggiungono inoltre a tutto questo statue femminili caratterizzate da un'espressione facciale dolce, non giudicante. Queste fonti materne di consolazione – dalla Madonna del mondo cristiano a Demetra in Grecia, alla dea cinese della protezione Guan-ying – mirano ad alleggerire il nostro carico di dolore, svolgendo lo stesso ruolo delle madri per i propri figli.

Ma le storie dell'origine della religione non finiscono qui. Ci sono anche il timore e la meraviglia per eventi naturali che sfuggono al nostro controllo.

[...]


Arricchire la realtà è una delle capacità più piacevoli che abbiamo, dalle finzioni nei giochi infantili alle visioni di una vita dopo la morte quando si invecchia.

Alcune realtà esistono, altre sono solo sogni nei quali ci piace credere.

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La riluttanza di Freud


Descrivere la religione con soddisfazione di tutti è un compito disperato. Una volta stavo partecipando a un forum all'American Academy of Religion, quando qualcuno propose di cominciare i lavori partendo da una definizione di religione.

Per quanto senso potesse avere la cosa, l'idea fu prontamente abbattuta da un altro partecipante, il quale ricordò a tutti che l'ultima volta che si era cercato di definire la religione metà del pubblico se ne era andata per protesta. E questo era accaduto in un'accademia che proprio dalla religione prendeva il suo nome! Diciamo perciò semplicemente che la religione è la riverenza condivisa per il soprannaturale, il sacro o lo spirituale come pure per i simboli, i rituali e il culto associati con essa. In questa definizione manca una distinzione tra la spiritualità e la religione benché, insistendo sulla riverenza "condivisa", essa escluda approcci individuali e consideri solo fenomeni di gruppo. Così definita, la religione è un universale umano.

Le uniche eccezioni che siano mai state menzionate sono gli appartenenti alla tribù amazzonica dei pirahã. Ma l'affermazione secondo cui questa popolazione della foresta brasiliana non avrebbe una religione (tanto che si è parlato in proposito di una "tribù di atei") non sopravvive a un'attenta analisi delle fonti originali.

[...]

Purtroppo il tentativo di stabilire che cosa abbia determinato il successo della religione è come domandarsi a che cosa serva una lingua. Io sono certo che una lingua abbia i suoi benefici, ma dal momento che tutti gli esseri umani ne hanno una, noi semplicemente non abbiamo un materiale di confronto. Così, nel caso della religione possiamo dire di essere sulla stessa barca. L'unica cosa che sappiamo è che i tentativi di abolire o scoraggiare la religione hanno avuto conseguenze disastrose.

Questo vale per Stalin nell'Unione Sovietica, per Mao Tse-tung nella Cina comunista e per Pol Pot, il capo dei khmer rossi della Cambogia, che torturarono, uccisero e affamarono milioni di persone. I khmer rossi bandirono ogni forma di religione, offrendo alle masse dei condannati il seguente slogan agghiacciante: "Mantenervi non apporta alcun beneficio, distruggervi non comporta alcuna perdita." Queste ideologie non produssero società particolarmente sane e furono un insuccesso dal punto di vista biologico. D'altra parte, l'atteggiamento antireligioso faceva parte di un quadro più vasto. Tutti e tre i paesi erano passati per un rovesciamento dell'ordine esistente, che potrebbe aver loro richiesto di frenare il potere della religione stabilita. Non vorrei, d'altra parte, addossare necessariamente la colpa delle loro atrocità all'ateismo di per sé. Analogamente, le stragi in nome di Dio, perpetrate dai crociati o dai conquistadores spagnoli, erano spesso una copertura per ambizioni politiche o coloniali. La brama di Colombo per l'oro faceva il paio con il suo amore verso Dio. Non è perciò corretto individuare nella religione l'unica causa di tutto questo. In definitiva gli esseri umani sono capaci di crudeltà incredibili, sia combattendo nel nome di Dio sia negandone l'esistenza.

Forse si può rispondere alla domanda su una scala più piccola, come in uno studio della longevità delle comunità dell'Ottocento negli Stati Uniti. Le comunità fondate su un'ideologia secolare, come il collettivismo, si disintegrarono molto più rapidamente di quelle fondate su princìpi religiosi. Per ogni anno di durata delle comunità, quelle religiose ebbero una probabilità di sopravvivenza quattro volte maggiore rispetto alle loro controparti secolari. La condivisione di una religione accresce vistosamente la fiducia. Conosciamo l'enorme effetto di legame che esercitano usi coordinati, come la preghiera comune e lo svolgimento degli stessi rituali. Questo effetto ha qualche affinità con il principio, ben noto ai primati, secondo il quale il fatto di agire insieme migliora le relazioni, spaziando dalla preferenza delle scimmie per sperimentatori umani che le imitano alla maggiore resistenza fisica (come una soglia del dolore più alta) dei canottieri universitari quando si allenano in gruppo anziché da soli. Un'azione congiunta può stimolare il rilascio di endorfine, come è stato suggerito anche per altri meccanismi di legame, come una risata comune. Questi effetti positivi di sincronizzazione possono aiutare a spiegare la coesione delle religioni e il loro effetto sulla stabilità sociale.

Durkheim etichettò i benefici derivanti dall'appartenenza a una religione come la sua "utilità secolare." Era convinto che un fenomeno così diffuso e onnipresente come una religione dovesse avere uno scopo: non uno scopo superiore bensì sociale. Il biologo David Sloan Wilson, che analizzò i dati relativi ai primi cristiani, è d'accordo con lui nel vedere nella religione un adattamento che permette ai gruppi umani di funzionare armoniosamente: "Le religioni esistono in primo luogo per far sì che le persone possano conseguire insieme quel che non possono conseguire da sole".

La costruzione di una comunità religiosa ci viene naturale. In effetti, visto quanto è comune la contrapposizione di religione e scienza, è bene ricordare il grandissimo vantaggio di cui gode la religione. La scienza è un'impresa artificiale, inventata, mentre la religione è per noi facile come camminare o respirare. Questo concetto è stato sottolineato da molti autori, dalla primatologa americana Barbara King, che in Evolving God riferisce la nostra inclinazione verso la religione al nostro desiderio di appartenenza, all'antropologo francese Pascal Boyer, che vede nella religione una capacità intuitiva:

La ricerca e la teorizzazione scientifiche sono apparse solo in pochissime società umane [...]. I risultati della ricerca scientifica possono essere ben noti, ma l'intero stile intellettuale che si richiede per conseguirli è davvero difficile da acquisire. Di contro, rappresentazioni religiose sono apparse in tutti i gruppi umani che conosciamo, sono facili da acquisire, vengono conservate senza sforzo e sembrano accessibili a tutti i membri di un gruppo, indipendentemente dalla loro intelligenza o preparazione. Come sottolinea Robert McCauley [...], le rappresentazioni religiose sono molto naturali per gli esseri umani, mentre la scienza è chiaramente innaturale. In altri termini, la religione concorda con le nostre intuizioni più alte, mentre la scienza richiede che sospendiamo, o addirittura contraddiciamo, la maggior parte dei nostri comuni modi di pensare.

Mettiamo a confronto la facilità con cui i bambini adottano la religione con la via lunga e faticosa che devono percorrere i giovani che vogliono conseguire un dottorato, verso l'età di trent'anni. Robert McCauley, un collega filosofo alla Emory, mi disse che se avesse dovuto puntare su quale, fra religione e scienza, sarebbe sopravvissuta nell'ipotesi di un crollo della società, avrebbe puntato sulla religione: "La religione dipende in prevalenza da quella che io chiamo 'cognizione naturale', una forma di pensiero automatica, inconsapevole per la maggior parte delle persone". McCauley la contrappone alla scienza, che è "cosciente, generalmente in forma di linguaggio. È lenta, è deliberativa".

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In secondo luogo, uno studio recente ha confrontato le ragioni per cui credenti e non credenti aiutano gli altri. È risultato che i non credenti sono più sensibili alla situazione di altri, in quanto fondano il loro altruismo su sentimenti di compassione. I credenti sembrano invece guidati da un senso dell'obbligo e di come dovrebbero comportarsi secondo la loro religione. Il risultato comportamentale è lo stesso, ma le motivazioni di fondo sembrano diverse. È chiaro che ci sono molte ragioni per essere generosi, e la religione è solo una di esse.

Il modello laico viene attualmente sottoposto a test nell'Europa settentrionale, dove la prospettiva religiosa è declinata a tal punto che i bambini domandano ingenuamente perché ci siano così tanti "segni più" su grandi edifici chiamati "chiese", e dove le persone non hanno più idea dell'origine biblica di varie espressioni, da "lavarsene le mani" a "una goccia da un secchio". Varie istituzioni civiche hanno assunto molte delle funzioni svolte originariamente dalle chiese, come l'assistenza ai malati, ai poveri e ai vecchi. Benché i cittadini di tali paesi siano in gran parte agnostici e non praticanti, appoggiano con impegno questo sforzo. È un esperimento gigantesco, tanto economicamente quanto moralmente, che potrà dirci se grandi stati nazionali possano creare un contratto morale ben funzionante senza religione. Se si crede, come me, che la moralità venga soprattutto da dentro di noi, c'è ogni ragione per sostenere questo sforzo, ma sono d'accordo anche con Freud, Kitcher e altri che il suo successo richiederà assai più che il certificato di morte di Dio.

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Tutto questo mi riporta alla mia concezione della moralità dal basso all'alto. La legge morale non è imposta dall'alto o derivata da princìpi, bensì deriva da valori radicati che sono esistiti fin dall'inizio dei tempi. Il più fondamentale deriva dal valore di sopravvivenza della vita di gruppo. Il desiderio di appartenenza, di andare d'accordo, di amare e di essere amati, ci induce a fare tutto ciò che è in nostro potere per rimanere in buoni rapporti con coloro da cui dipendiamo. Altri primati sociali condividono questo valore e si affidano allo stesso filtro tra emozione e azione per raggiungere un modus vivendi reciprocamente gradevole. Vediamo all'opera questo filtro quando maschi di scimpanzé soffocano una rissa per una femmina, o quando maschi di babbuino si comportano come se non avessero notato una nocciolina. Tutto si riduce a inibizioni.

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Il bonobo e l'ateo


Che cosa direbbe un bonobo a un ateo? Io ho conosciuto il bonobo linguisticamente più capace del mondo, Kanzi, che viveva a Atlanta insieme alla sorella più giovane, Panbanisha. Benché la comprensione che Kanzi ha dell'inglese parlato sia stupefacente, e benché egli sia uno dei bonobo più intelligenti che io abbia mai visto, le sue produzioni linguistiche (espresse al computer attraverso simboli) non sono al livello di un dibattito accademico. Ma fingiamo che lo siano.

Il bonobo esorterebbe anzitutto l'ateo a smettere di "dormire furiosamente." Non c'è alcuna ragione per darsi tanto da fare a discutere sull'assenza di qualcosa, specialmente se questo qualcosa è così aperto a ogni interpretazione come lo è Dio. È vero che, se essere un ateo autodichiarato comporta un marchio, come avviene purtroppo negli Stati Uniti, la frustrazione è comprensibile. L'odio genera odio, ed è per questo che alcuni atei inveiscono contro la religione e ne parlano come se la sua scomparsa fosse destinata ad apportare un enorme sollievo. Non importa se la religione è troppo profondamente radicata per poter essere abolita, e se i tentativi storici di eliminarla con la forza non hanno portato altro che infelicità. Forse si potrebbe tentare di smantellarla in modo lento e graduale, ma questa impostazione richiederebbe di apprezzare e valutare positivamente, almeno in qualche misura, il nostro patrimonio religioso anche se lo consideriamo obsoleto. Forse la religione è come una nave che ci ha trasportati al di là dell'oceano, e che ci ha permesso di sviluppare grandi società con una morale ben funzionante. Ora che stiamo vedendo la terra, alcuni di noi sono pronti a sbarcare. Ma chi dice che la terra sia così ferma come ci appare?

Io sono favorevole a un ruolo ridotto della religione, con meno enfasi sul Dio onnipotente e più sulle potenzialità umane. In tutto ciò, ovviamente, non c'è niente di nuovo: questa è l'agenda umanistica. Oggi l'umanesimo è spesso visto come antireligioso, ma non è certo così che ha avuto inizio il tutto. Il primo umanesimo criticò la teologia della Chiesa, considerata scollegata dalla vita pratica, ma era per lo più compatibile con i valori cristiani. Io, però, non dovrei sbilanciarmi troppo qui perché chiamare "religioso" qualsiasi valore è un po' problematico. Pare piuttosto che varie religioni si siano appropriate dei valori umani universali, ognuna di esse sostenendoli con le proprie narrazioni e facendoli propri. È solo nel Settecento che l'umanesimo si sviluppò fino a diventare un'alternativa alla religione, e che acquisì un'attrazione di massa, fornendo un atteggiamento di vita etica fondata sulla ragione invece che sul soprannaturale. Rimane, però, il fatto che l'umanesimo è non religioso, non antireligioso. La tolleranza della religione, anche se la religione non è sempre a sua volta tollerante in cambio, permette all'umanesimo di concentrarsi su ciò che è più importante, la costruzione di una società migliore, fondata sulle capacità umane, naturali. Il risultato è l'esperimento in corso in Occidente di una società sempre più secolarizzata. Come il movimento nella tettonica a placche, il cambiamento prodotto dall'umanesimo è estremamente graduale. L'umanità non cambierà in un attimo, come se la religione fosse un'influenza aliena. E in massima parte una creazione nostra, una parte della nostra natura, completamente intrecciata con le nostre rispettive culture. Noi faremmo meglio a procedere insieme e imparare da essa, anche se il nostro obiettivo è in definitiva quello di definire un nuovo corso.

Il bonobo esorterebbe l'ateo a seguire una prospettiva simile a lungo termine. La buona notizia è che gli ingredienti principali di una società morale non richiedono la religione, dal momento che provengono dall'interno. Nonostante la sua enfasi sulla ragione, l'umanesimo considera l'uomo una creatura fatta tanto di passione quanto di intelletto. Questo è il punto in cui il bonobo non ha problemi di connessione con noi. Noi abbiamo le emozioni di un animale sociale, e non di un animale qualsiasi, bensì di un mammifero. I precedenti tentativi di spiegazioni biologiche del comportamento umano hanno sofferto di troppa enfasi sui geni e di troppi confronti con gli insetti sociali. Non vorrei essere frainteso: insetti quali formiche e api sono meravigliosi cooperatori, e il loro studio ha fatto molto progredire la nostra comprensione dell'altruismo. È un trionfo della teoria evoluzionistica che la sua logica si applichi a una varietà così grande di specie. Eppure gli insetti non posseggono nessuno dei circuiti neurali che i mammiferi hanno sviluppato nel corso dell'evoluzione per acquisire l'empatia e la capacità di prendersi cura di altri. Anche se il comportamento degli insetti assomiglia superficialmente al nostro, non si fonda sugli stessi processi. È come comparare il gioco degli scacchi dei computer con quello dei grandi maestri: possono trovare le stesse mosse ma vi pervengono in modi del tutto diversi.

[...]

Qui il bonobo sarebbe a fianco dell'ateo e sosterrebbe che, qualunque fosse il ruolo della religione nella morale, sarebbe un ruolo di ultima venuta. La morale ebbe origine per prima, e la religione moderna si agganciò a essa. Invece di trasmetterci la legge morale, le grandi religioni sono state inventate per sostenerla. Noi stiamo appena cominciando a esplorare come faccia la religione a legare insieme le persone e a imporre il buon comportamento. È lungi da me l'intenzione di minimizzare questo ruolo, che è stato vitale in passato e potrebbe restarlo nel prossimo futuro, ma non è la sorgente della moralità.

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