Copertina
Autore Marco Belpoliti
Titolo Doppio zero
SottotitoloUna mappa della contemporaneità
EdizioneEinaudi, Torino, 2003, Tascabili Saggi 1097 , pag. 264, dim. 120x195x16 mm , Isbn 978-88-06-16508-6
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe libri , critica letteraria , musei , scrittura-lettura
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Indice

VII Introduzione

    Doppio zero


    Corpi

  5 Cutters
  9 Arti fantasma
 15 L'alfabeto del corpo
 18 Teste parlanti
 23 Resti umani

    Elementi

 29 Caos sensibile
 33 Disegnare il mondo
 37 Io sono una pietra
 40 Sabbia mobile
 43 La schiuma del mondo
 47 Nuvole di polvere
 52 Alice tra i lombrichi
 57 Luna chiama Terra

    Segni

 65 L'anima della scrittura
 70 La scienza degli errori
 75 Scarabocchi in gabbia
 79 La paracoscienza del virtuale
 83 Testi e ipertesti
 87 Una mente a doppio senso
 93 Il labirinto della contemporaneità
 98 Conoscere seguendo le righe

    Interfacce

l05 Le cose che pensano
109 Design transitivo
114 Vetrine e supermerci
119 Come si fa un buco

    Istantanee

125 Immagini analogiche
129 Arte del disgusto
133 Il museo dell'orrore
138 Disegno o polaroid?

    Cromie

145 Nell'occhio del colore
151 Bianco fantasma
155 Sole nero
159 Chi ha paura dei colori?

    Metropoli

165 La città dei bit
169 Gusci bidimensionali
173 I grattacieli sfrontati di Manhattan
178 L'architettura dei sensi
183 Luoghi inabitabili
188 Cybergeografia

    Identità

193 L'ossessione della diversità
198 La mente del viaggiatore
203 Frontiere
209 Criminali e boy scout

    Contorni

215 Roger Callois. Il mito come istinto
219 Claude Lévi-Strauss. Lo scatto
    dell'antropologo
222 Marc Augé. L'etnologo dello spazio
227 Paul Virilio. L'estetica della sparizione
230 Erving Goffman. L'istituzione totale
234 James J. Gibson. Vedere con i sensi
238 John Berger. Forme d'attenzione
242 Bruce Chatwin. L'occhio assoluto
247 Luigi Ghirri. Quasi niente

251 Testi citati

 

 

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Pagina VII

Introduzione


Siamo arrivati a zero. Anzi, al doppio zero. Viviamo ormai in un altro millennio, e abbiamo ricominciato a contare dallo zero: 00, 01, 02, 03... Lo zero, ha scritto un matematico, è «quasi a portata di mano, ma mai realmente afferrabile». Così si presenta la realtà in cui viviamo: un grande caleidoscopio in cui ogni minima rotazione, o spostamento, cambia la forma, il pattern, di ciò che vediamo. Tuttavia lo zero non è «niente». È piuttosto una «cifra», una chance, una possibilità, è il punto di partenza di un nuovo processo. Il nostro ground zero è ricco di nuove possibilità. L'importante è vederle. Per farlo bisogna cambiare il nostro punto di vista, modificare lo sguardo con cui osserviamo le cose.

Questo è un libro sul guardare; il suo oggetto è vario e molteplice, e non appartiene, in modo preventivo, a nessuna forma di sapere o disciplina preordinata. Tutte le discipline e i saperi umani ci sono necessari e indispensabili per vedere ciò che c'è da vedere. Guardare il «doppio zero»? Un'attività non facile, ma possibile.

[...]

Per quanto scomodo, bisogna cercare di guardare anche la montagna che è nascosta sotto il pelo dell'acqua. E questo è ciò che qui ho cercato di fare. Non so se ci sono riuscito, ma l'intenzione era esattamente quella. Spesso le idee migliori le hanno avute gli altri, l'importante è essere agili per afferrarle al volo.

Non sarà facile estinguere questi debiti, ma poiché la cultura funziona attraverso la trasmissione del testimone - oltre che per osmosi -, spetta al lettore riportare le cose in parità. Leggere è un modo per estinguere il grande debito che abbiamo con gli altri. Lo scrittore presta solo la sua penna perché ciò possa accadere.

In fondo, i critici sono dei mediatori: stabiliscono il giusto prezzo, come ha insegnato Jean Starobinski, lo garantiscono e controllano nel passaggio dall'autore al lettore che niente venga alterato. È un fatto di onestà, prima ancora che di bravura. Siamo figli di Ermes, il dio dei passaggi, dei commerci, piè veloce, messaggero degli dèi, protettore dei ladri.

Mondonico-Milano, marzo 2003.

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Pagina 15

L'alfabeto del corpo


Il volto è la parte privilegiata del corpo umano; è ciò che ci comunica l'essenza di una persona. Ma il volto è anche una «forma» dotata di una determinata superficie; è faccia, su cui si rivelano le emozioni, i sentimenti, i pensieri segreti. Il volto è «lo specchio dell'anima». Nel mondo fisico, ha scritto il filosofo e sociologo Georg Simmel, non c'è nessuna struttura «che come il volto umano riesca a convogliare una cosi gran varietà di forme e superfici in un'incondizionata unità di senso». La fisiognomica, a partire dal mondo greco, è la disciplina - per alcune decine di secoli persino una scienza - che si occupa di descrivere i caratteri di un individuo attraverso i segni esteriori. La parola significa: «riconoscimento, interpretazione della natura». Da Aristotele a Giovan Battista Della Porta, da Leonardo a Lavater, passando per Durer e Goethe, filosofi, scienziati, artisti, poeti, si sono preoccupati di cercare un codice, un alfabeto per leggere i corpi e i volti degli uomini nel tentativo di rendere trasparente ciò che normalmente è opaco e oscuro. Questa disciplina, nella sua forma pratica, è giunta fino a noi, tanto che continuiamo a giudicare a prima vista la natura dei nostri interlocutori facendo affidamento su fiuto, colpo d'occhio e intuizione.

Forse è proprio per questo che ogni storia della fisiognomica ci appassiona, in particolare le figure e i disegni che mostrano somiglianze tra l'uomo e l'animale, o classificano le forme del cranio. Maurizio Giuffredi, in uno studio, Fisiognomica, arte e psicologia tra Ottocento e Novecento, analizza il rapporto che questa forma di sapere intrattiene con il campo visivo e con l'arte, oltre che con la psicologia e la psicoanalisi. Egli ci presenta la traduzione italiana di uno straordinario scritto di Rodolphe Töpffer, autore nel 1827 della prima «storia figurata», cioè dei fumetti. Pittore, caricaturista, umorista, fondatore di una scuola, Töpffer è una figura d'eccezione che merita di essere maggiormente conosciuta. Il suo Saggio di fisiognomica, pubblicato per la prima volta nel 1845, mescola scrittura e disegno; è, come ha scritto Patrizia Magli in Il volto e l'anima una scrittura disegnata e un disegno scritto.

Cosa dice di cosi interessante Töpffer? La fisiognomica è una «scienza dello sguardo» che si fonda su un riconoscimento visivo, e dunque sulla capacità interpretativa del disegno che quel volto descrive in figura. Le immagini sono la sua vera forza, non certo la parola. L'umorista e pedagogo ginevrino, come Leonardo, Hogart e Lichtenberg prima di lui, non riconosce l'autorità della tradizione fisiognomica, e prova a ripensare il «significato della percezione dei volti a partire non dalla realtà ma dall'immagine stessa». Per Töpffer, un'immagine «si riduce alla sua forma piú elementare»: il tratto grafico. Usando il disegno e modificando leggermente i tratti di un labbro, di un occhio, l'andamento delle sopracciglia, Töpffer dimostra come due profili identici possano appartenere a caratteri differenti. Quello che per i sostenitori della fisiognomica è un elemento decisivo nel giudizio, per Töpffer è solo un aspetto della nostra percezione. Secondo i percettologi, la visione umana non registra la totalità dei singoli dettagli contenuti nell'immagine retinica (Rudolf Arnheim). Il cervello non memorizzerebbe la faccia in modo fedele, ma seguendo una sorta di stenografia visiva, una caricatura, in cui sono esagerati alcuni tratti del volto a svantaggio di altri.

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Pagina 83

Testi e ipertesti


«La relazione alla scrittura è la relazione al corpo», scrive Roland Barthes in uno dei brevi e intensi capitoli di Variazioni sulla scrittura, testo redatto su richiesta dell'Istituto Accademico di Roma nel 1972 e rimasto inedito sino all'uscita nell'edizione francese delle opere complete. Il saggio, uno dei suoi piu belli, delinea una personale storia della scrittura, dai gesti agli strumenti, dai sistemi di scrittura ai segni grafici e pittorici e, come segnala Carlo Ossola, è parte integrante del suo progetto che muove dalla scrittura per arrivare al Piacere del testo, saggio sulla lettura e il suo godimento che quando apparve, nel 1973, fu un vero e proprio avvenimento nel paesaggio intellettuale europeo.

Barthes possiede un'autentica passione per l'atto materiale della scrittura di cui esplora aspetti fisici e mentali, le implicazioni concrete e le inevitabili astrazioni che lo precedono e lo seguono.

L'idea che si scriva con il corpo è legata a quella del corpo come prodotto delle singole civiltà; e infatti, come esistono modi differenti di dormire, mangiare e fare l'amore, cosi ogni cultura possiede propri codici di scrittura. Barthes con un gesto icastico ma illuminante, differenzia due grandi tradizioni dello scrivere: l'Occidente e l'Oriente. Mentre l'Occidente doma i corpi scriventi, l'Oriente li padroneggia affinandone il godimento; e se in Occidente l'innovazione pedagogica degli ultimi due secoli - si pensi alla Montessori, ma anche a Rudolf Steiner - è basata sulla liberazione del corpo e sulla libera espressione della personalità, in Oriente è tutto il contrario: arte nobile, magica, simile al tiro con l'arco, la scrittura presuppone una padronanza di corpo e mente che si perpetua nel tempo.

[...]

Quello su cui Barthes ci ha invitato a riflettere è il fatto che ogni supporto della scrittura modifica lo stile, ma anche il modo di pensare di chi scrive, modo che nella scrittura a computer diventa piú mobile e fluido rispetto alla macchina per scrivere (traggo queste considerazioni dal libro di Franco Carlini, Lo stile del Web). Chi scrive a computer è portato a elaborare la frase direttamente sul visore, mentre chi usa la macchina tradizionale deve formularla prima mentalmente; l'immagine la suggerisce Jacopo Belbo, il personaggio del Pendolo di Foucault: «le dita fantasticano, la mente sfiora la tastiera, via sulle ali dorate...» Chissà cosa avrebbe detto Roland Barthes con la sua plasticità mentale e con la sua inesauribile curiosità se avesse conosciuto il word processor?

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Pagina 119

Come si fa un buco


Il poliziotto estrae da una scatola su cui è scritto «HOLES» un buco; ha la forma di un disco nero, lo applica al muro e vi infila il braccio. È una celebre scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit? Il medesimo buco in Yellow Submarine è invece dentro la tasca di Ringo Star e serve a organizzare la fuga della Banda del Sergente Pepper. Questi buchi, che assomigliano solo superficialmente ai buchi che vediamo nella vita quotidiana, sono i «buchi dei cartoni animati», chiazze portatili bi o tridimensionali indipendenti dall'oggetto ospitante; possono essere manipolati, asportati, mossi, deformati e appiccicati a una parete per produrre un foro: sono, come scrivono Roberto Casati e Achille C. Varzi in un curioso e affascinante libro intitolato Buchi e altre superficialità, entità immateriali alle quali vengono attribuite caratteristiche tipiche delle cose materiali, perfettamente coerenti al mondo in cui esistono, quello dei cartoni animati, ma inadatti al mondo dominato dalle leggi naturali, in cui abitiamo noi.

Ecco una questione interessante: che cos'è un buco? Tutti noi pensiamo di saperlo; ogni giorno li contiamo, li descriviamo, li misuriamo, li produciamo, li attraversiamo, li evitiamo, li aggiriamo, ci cadiamo dentro: senza buchi la nostra vita non sarebbe piu la stessa. Eppure, come dimostrano Casati e Varzi, noi non sappiamo esattamente cosa siano i buchi, e non solo perché li confondiamo con le cavità, le rientranze, le crepe, le fessure e le fenditure, con i fori e le cavità - tutte entità affini -, ma perché i buchi presentano diverse difficoltà percettive e logiche. Prima di tutto non sappiamo di cosa sono fatti: di vuoto? Di niente? Di assenza? Dire cosa c'è dentro un buco è difficile sia per la teoria della percezione sia per la logica, per la topologia e per la filosofia. Eppure, insieme ai nodi, alle pieghe e alle tasche, i buchi sono tra gli «oggetti» piú interessanti che cadono sotto il nostro sguardo, certamente i piu problematici per via della loro spiccata vocazione metafisica.

[...]

A cosa serve un libro sui buchi? La domanda è ovviamente impertinente e la risposta circostanziata: a produrre buchi. Rimbalzando da una zona all'altra del sapere filosofico e scientifico, Casati e Varzi aprono continuamente buchi; prima di tutto nelle nostre pretese conoscitive, poi nei costrutti cognitivi, nella filosofia e nella logica. Del resto, non potrebbe essere altrimenti, dal momento che il loro oggetto d'indagine - il buco - è un corpo immateriale strettamente aggrappato al suo ospite - la materia -, dotato di proprietà molto primitive. Il buco è un individuo e non un'astrazione, esordiscono i due autori, anche se è fatto di niente, un niente che noi chiamiamo spazio. Buchi e altre superficialità - anche il titolo è un paradosso e insieme un doppio senso - è un libro indispensabile per chi ama i paradossi linguistici, per chi curiosa tra i libri di scienza e s'interroga sui «buchi neri», per chi ha la sensazione che l'universo sia in espansione e nel contempo si contragga, per chi, svegliandosi al mattino, ha l'impressione che sulla parete di fronte ci sia un buco che prima non c'era, per chi è convinto che un buco non potrà mai creare nulla, e che se i buchi sono parassiti che non vivono senza i loro ospiti - come pesci fuor d'acqua o ombre prive di luce -, senza i nostri occhi che li guardano e le nostre mani che li tastano, i buchi forse non ci sarebbero per nessuno, logici compresi.

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Pagina 193

L'ossessione della diversità


Nazioni che combattono tra loro e giustificano la propria esistenza territoriale sulla base di storie divergenti (Israele e Giordania, Cambogia e Vietnam, Grecia e Turchia, Etiopia e Sudan). Paesi - e sono la maggioranza - che non coincidono piú con società culturalmente solidali - fatta eccezione forse per Giappone, Norvegia, Uruguay (se si esclude la comunità italiana), Nuova Zelanda (senza considerare i maori). Stati in cui la lingua unisce e la religione divide (Ucraina), la religione unisce e la cultura divide (Algeria), la razza unisce e la religione divide (Cina), la storia unisce e la lingua divide (Svizzera). Identità translocali come «arabo», «slavo», «curdo», «tamil», che sono distribuite in piú stati e in diverse nazioni.

«L'idea che il mondo si componga di nazionalità le une identiche alle altre come gli atomi è ormai difficilmente sostenibile e sicuramente non difendibile». Chi scrive questa frase è un antropologo americano, Clifford Geertz, forse il piú importante della generazione successiva a Lévi-Strauss. Geertz, che ha pubblicato opere fondamentali come Interpretazioni di culture, ha raccolto in un libro le sue rapide ed efficaci riflessioni sul rapporto tra la crescente globalizzazione dell'economia e delle comunicazioni e il moltiplicarsi delle differenze e delle divisioni sociali. In Mondo globale, mondi locali l'antropologo americano analizza la dissoluzione di categorie come «paese», «nazione», «stato», «popolo», che sono state per due secoli le pietre miliari dell'ordine politico mondiale, e la contemporanea esplosione dei conflitti etnici e religiosi.

[...]

Che cos'è un paese?, si domanda Geertz. Sono quei «popoli» che riescono a riunirsi in una struttura economica e politica utilizzando una cornice narrativa di tipo storico, ideologico, religioso o quant'altro che la giustifichi. Se solo pensiamo alla nostra storia, quella stessa che veniva insegnata fino a poco tempo fa nelle scuole elementari, mettendo l'accento sulle guerre di indipendenza dall'Ottocento alla prima guerra mondiale, sorvolando invece sul fascismo e la seconda guerra mondiale, si comprenderà come non sia lontana dal vero l'affermazione di Anderson secondo cui «le nazioni vengono immaginate e, in seguito, modellate, adottate e trasformate». Forse la stessa idea del separatismo leghista, oltre che per evidenti difficoltà orografiche, è fallita proprio perché non c'è stato nessun gruppo intellettuale di qualche peso capace di immaginare una nuova nazione padana.

Esiste una via d'uscita dalle logiche dell'identità? Amselle e Remotti, che non a caso sono studiosi di società africane, in cui l'identità non è un'ossessione come per la cultura europea, sostengono di sí. Entrambi fanno un elogio della precarietà. Amselle scrive che tra i diritti delle minoranze ci dovrebbe essere anche quello di rinunciare alla loro cultura, ma i dominanti non dovrebbero avere la possibilità di scegliere al posto loro che tipo di cultura o di lingua sia piú conveniente avere. Remotti è piú possibilista, ma mette in guardia su un fatto: credere pervicacemente nelle proprie forme di identità rende le società piú difficili agli scambi e alle ibridazioni. Non è detto che questa via sia quella che ci salverà, ma certo, scrive, l'ossessione della purezza e della diversità è quella che ha prodotto in Europa, e non solo qui, le maggiori rovine.

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Pagina 198

La mente del viaggiatore


Di ritorno dal viaggio intorno al mondo a bordo della nave Beagle, durato cinque anni, Charles Darwin è accolto dal padre che rivolto alle sorelle, esclama: «Guarda, guarda, la sua testa ha decisamente cambiato forma». Non solo la mente è mutata, ma persino il cranio del futuro padre della teoria evoluzionista ha modificato la sua forma.

Con questo episodio, tratto dal giornale di viaggio di Darwin, lo storico americano Eric J. Leed compendia l'effetto che il viaggio produce: sviluppo delle capacità d'osservazione, concentrazione su forme e rapporti, accrescimento della sensazione di distanza che esiste tra l'io che osserva e il mondo osservato, percezione dell'aspetto materiale delle cose, delle apparenze e delle superfici esterne. Per dirla con Gregory Bateson, il viaggio «impone un ordinamento progressivo della realtà», ovvero un metodo per ordinare ciò che si è visto, osservato, compreso, un sistema per raccogliere e catalogare i dati e le informazioni ricevute nel corso del transito.

Questo modo di procedere, l'ordinamento del mondo visto, riguarda ogni viaggiatore, ma in modo particolare il viaggiatore scientifico, l'esploratore che si è messo in movimento con lo scopo precipuo di raccogliere informazioni etnografiche, di aggiornare il proprio erbario, la propria tassonomia animale, di completare la propria cartina geografica di quella parte del mondo. Questo viaggiatore dell'occhio, scrive Leed in La mente del viaggiatore, reca con sé un vero e proprio prontuario la cui elaborazione risale all'età rinascimentale e che è stato tramandato attraverso la letteratura di viaggio dei secoli seguenti: conoscere il «manifesto» e l'«evidente», ovvero: osservare; descrivere la «totalità», poi passare a esaminare le singole parti e quindi classificarle. Anche nei contenuti dei diari di viaggio niente o quasi è lasciato al caso e si seguono precise rubriche: terra, popolo, veduta, scena, descrizione, ecc.; il metodo utilizzato è quello fornito dal sistema di riduzione e di composizione divulgato nel Medioevo da Pietro Ramo.

[...]

Forse è proprio in virtú di queste prerogative mentali che il viaggio resta, nella nostra epoca, ancora un'esperienza fondamentale, nonostante la scomparsa dell'avventura e il suo svuotamento epico. Ogni viaggio in un paese nuovo inizia con una confusione visiva, con un eccesso di visione; ma all'accecamento per sovrastimolazione delle prime ore o dei primi giorni, subentra, poco a poco, una forma di lucidità visiva, una capacità di discriminare le differenze tra forme, dimensioni, colori, spazi, texture, in rapporto ai dati che la nostra mente già conosce. Il viaggio produce discontinuità visiva e nutre la nostra mente di similitudini e analogie, ricompensandoci cosi dalla fatica che ogni spostamento spaziale comporta.

Il senso di questa fatica è compreso nella parola inglese travel, come sostiene Paul Fussell, viene dal francese travail, lavorare, che a sua volta deriva da tripalium, strumento di tortura costituito da tre pali destinati a stirare il corpo. Viaggiare è lavorare, ma anche estendere il corpo, seppure in modo a volte non indolore. Il nucleo del viaggio, aggiunge Leed, risiede in un enigma: «i benefici e le trasformazioni del viaggio hanno alla propria origine una perdita». È «l'erosione della mobilità» che ogni vero viaggiatore deve affrontare.

E il viaggiatore contemporaneo? Egli è figlio della disillusione dei viaggi, della loro fine, come recita l'inizio del racconto desolato di Lévi-Strauss intitolato Tristi tropici, uno dei capolavori moderni della letteratura di viaggio. Al turista che sperimenta i rifiuti della nostra civiltà gettati in ogni angolo fino a poco fa incontaminato del mondo, si affianca ora la figura del viaggiatore letterario. Lo sono Bruce Chatwin e Paul Theroux, viaggiatori postmoderni. Il primo è oggi il celebrato nomade de Le vie dei canti, vera utopia ascetica ed esempio dell'impossibilità di scrivere un romanzo che sia del tutto tradizionale sul viaggio, mentre il secondo, in due bei libri, Bazar Express e Da costa a costa, ci mostra invece come oggi il mondo sfili dinanzi al viaggiatore sotto la forma di uno spettacolo cinematografico visto dal vivo.

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