Autore Alberto Cavaglion
Titolo Decontaminare le memorie
SottotitoloLuoghi, libri, sogni
Edizioneadd, Torino, 2021 , pag. 150, cop.fle., dim. 14,4x21x1,4 cm , Isbn 978-88-6783-312-2
LettoreGiorgio Crepe, 2021
Classe storia , storia contemporanea d'Italia , storia criminale , musei , paesi: Italia: 1940 , shoah












 

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Indice


     Introduzione                                 9


I.   LUOGHI CON LIBRI                            17

  La terra di Fossoli è cretacea                 19
  Lungo la via Emilia                            23
  Al visitatore                                  30
  Al tvajol ed Furmajin                          37
  Pietre d'inciampo e idrovolanti                43
  Paesaggi sereni, paesaggi in lutto             49


II.  LIBRI CON LUOGHI                            55

  Giannina a Cerveteri                           57
  Soli loci                                      65
  La filosofia del ciononostante                 71
  Bibliotecari della Memoria                     81
  Paesaggi contaminati                           86
  Stratigrafie                                   96
  Il Quarto paesaggio                           100
      Gorizia-Nova Gorica, stazione Transalpina 104
      Ventimiglia, ponte sul Roja               105
      Genova, ponte Morandi                     108
      Torino, stadio Filadelfia                 110
      Como, Istituto di Coltura popolare
            G. Carducci                         111


III. SOGNI DI LUOGHI E DI LIBRI                 117

  La boutique oscura della memoria              119
  Statue che camminano                          121
  Ordigni, vermicelli microscopici              123
  Il museo di Ambroise Fleury                   129


  Note bibliografiche                           135
  Ringraziamenti                                149


 

 

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Pagina 9

Introduzione


Poche settimane prima che scoppiasse la pandemia mi è capitato di visitare, in rapida successione, tre luoghi della memoria del Novecento: il campo di concentramento di Fossoli (Carpi), da dove sono transitati Primo Levi e massima parte dei deportati italiani; Villa Emma a Nonantola: qui trovarono asilo, grazie all'aiuto della popolazione locale, decine e decine di bambini in fuga, inseguiti dai tedeschi. Infine la torre della Ghirlandina a Modena, da dove nel novembre del 1938 si gettò l'editore Angelo Fortunato Formiggini , all'indomani dell'emanazione delle leggi razziali.

Un fazzoletto di terra, tre luoghi-simbolo situati nella pianura del modenese, a pochi chilometri di distanza l'uno dall'altro, un concentrato di memorie da salvaguardare, adagiato in uno scenario che incanta i sensi. Un paesaggio agrario basato sullo schema ortogonale dei decumani, rimasto immutato per secoli, riprodotto, nella sua invariabilità, da agronomi, pittori, poeti, registi. Sono strade che non si possono percorrere senza riflettere sulle ferite recenti che hanno dovuto sopportare, sulle malattie di cui hanno sofferto. Potremmo definirli paesaggi convalescenti. In che misura dovrebbero entrare a far parte del patrimonio della nazione tutelato dall'articolo 9 della Costituzione? Non sarebbe il caso di osservarli meglio questi luoghi, se davvero pensiamo che sia necessario "non dimenticare"? A chi dovremo affidarne la cura, la custodia e la manutenzione?

Sono domande semplici, innocenti, che esigono tuttavia risposte complesse. In letteratura le chiamiamo «domande di Margherita», Gretchenfrage, dal personaggio ingenuo di Margarete nel Faust di Goethe.

Ci è stato ripetuto che il paesaggio è il grande malato, preda di speculatori: per accorgersene basta affacciarsi alla finestra e vedere i condomini, le villette a schiera là dove c'erano pinete e prati. Giusto, ma la Storia non ha inferto danni altrettanto irreparabili?

Ti rincorrono questi dilemmi, mentre cammini, mentre parli con le persone, soprattutto con gli studenti delle scuole emiliane e dell'università di Modena, di Reggio Emilia, come mi è capitato di fare infinite volte e per tanti anni. Ci sono il degrado ambientale, la speculazione edilizia, le calamità più o meno naturali, lo sappiamo; ma a incidere il suolo e il paesaggio hanno collaborato anche altri fattori, altre storie.

Non solo il paesaggio, anche la memoria del nostro recente passato è degradata. La discussione sul suo futuro, sul futuro dei memoriali, dei musei del fascismo, della Resistenza e della Shoah, l'analisi delle buone (e cattive) pratiche scolastiche per il Giorno della Memoria mi sembrano giunte a un punto morto. Ogni anno, con l'approssimarsi del 27 gennaio o del 25 aprile abbiamo modo di rendercene conto. Da molto tempo il dibattito ruota intorno alle stesse cose, alle medesime lamentazioni, producendo saturazione e noia.

Parto, facendole mie, dalle amare riflessioni di Valentina Pisanty:

Due fatti sono sotto gli occhi di tutti. 1) Negli ultimi vent'anni la Shoah è stata oggetto di intense e capillari attività commemorative in tutto il mondo occidentale. 2) Negli ultimi vent'anni il razzismo e l'intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei paesi in cui le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore. Sono fatti irrelati, due serie storiche indipendenti, oppure un collegamento c'è, ed è compito di una società desiderosa di contrastare l'attuale ondata xenofoba interrogarsi sulle ragioni di questa contraddizione? La constatazione da cui trae avvio il mio intervento è il fallimento delle politiche della memoria, fondate sull'equazione semplicistica Per Non Dimenticare = Mai Più. La domanda è se tale insuccesso sia accidentale (la xenofobia cresce nonostante le politiche della memoria), o se non sia già insito nelle premesse (per come sono state impostate, quelle politiche non potevano che contribuire agli esiti che hanno prodotto). L'obiettivo è predisporsi a combattere la discriminazione in modo efficace e incisivo, che vuol dire anche onesto, consapevole e, ove necessario, autocritico.

Difficile darle torto, ma prendersela con i Guardiani della Memoria trovo sia ingiusto. Coloro che se la prendono con le ossessioni della memoria sembra che non si accorgano del pericolo cui vanno incontro. Questo accanimento finisce con il cancellare le qualità salvifiche e anche le potenzialità didattiche che possiede l'arte del ricordo. Della Memoria rischiamo di diventare i secondini.

Intanto credo sia lecito replicare con una domanda di Margherita: a quale livello di bassezza e di volgarità sarebbe sceso il nostro discorso pubblico, quanto peggiori sarebbero le conversazioni che si ascoltano sul web o in treno, talvolta nei corridoi delle scuole, se non vi fossero state, a porre un freno, iniziative lodevoli di insegnanti che hanno saputo e sanno fare buon uso del 27 gennaio? Attribuire loro una qualche complicità nel degrado è ingeneroso. Se la Memoria continua a essere oggetto di servo encomio, non è sopportabile il vile oltraggio degli ultimi anni. Infastidisce il susseguirsi, a ritmo galoppante, di lavori appartenenti ormai a un genere di scrittura saggistica consolidato, baciato, a quanto pare, da una discreta fortuna commerciale, ma viziato da una retorica di segno contrario. Più o meno identici i titoli che finiscono sui nostri tavoli di lavoro in prossimità di ogni 27 gennaio: La Repubblica del Dolore, Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, I guardiani della memoria, Cattive memorie, L'ossessione della memoria, La terapia dell'oblio, Contro gli eccessi della memoria.

Il rapporto fra memoria e paesaggio in Italia sembra non interessare nessuno, come nessuno pensa che la funzione estetica, la bellezza dei luoghi e dei ricordi che essi rappresentano abbiano un grande valore nel processo educativo.

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Pagina 14

Ben prima che nel 2020 il virus ci colpisse, la piazzetta situata sotto la torre a Modena, il palazzo antico della Partecipanza a Nonantola insieme alle baracche di Fossoli avevano conosciuto il contagio del razzismo fascista, l'occupazione tedesca, le rappresaglie contro i civili e le fucilazioni degli oppositori, i convogli che dalla stazione partivano alla volta di Auschwitz caricando donne, anziani, bambini.

L'alba di Fossoli, che Levi ha immortalato in Se questo è un uomo e in alcune poesie, non è cambiata, pensavo in quella mattina di gennaio 2020, durante il mio ultimo passaggio attraverso ciò che è rimasto in piedi delle baracche del campo: «L'alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata follia».

Ritornavano in mente, aggirandomi per quelle riposanti distese di campi, i versi della poesia Il tramonto di Fossoli:


    Io so cosa vuol dire non tornare.
    A traverso il filo spinato
    Ho visto il sole scendere e morire;
    Ho sentito lacerarmi la carne
    Le parole del vecchio poeta:
    «Possono i soli cadere e tornare:
    A noi, quando la breve luce è spenta,
    Una notte infinita è da dormire».



Il «vecchio poeta» è Catullo , versi antichissimi, a dimostrazione di una comunità di sguardi che si rincorrono immutati attraverso i millenni. Quanto tempo dovrà passare prima che questo paesaggio riprenda la sua antica conformazione? Non è forse scoccata l'ora di accantonare progetti di musei obsoleti, stanchi discorsi sulla Memoria: una parola portata ormai al livello più basso della disaffezione, a tal punto da produrre effetti indesiderati? Non è forse giunta l'ora di ripensare alla natura del viaggio e dei treni della Memoria? La figura di Primo Levi non è essa stessa la prima vittima della perfidia implicita in ogni ripetizione commemorativa? Prendere coscienza della violenza che la Storia ha esercitato sul paesaggio, ritengo sia un impegno civile.

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Pagina 23

Lungo la via Emilia


[...]


Lungo questo fronte gli storici hanno le loro responsabilità. La questione della memoria - delle politiche necessarie per conservarla - temo sia stata male impostata in Italia, fin dall'inizio. A prevalere è stata una memoria pubblica poco critica, conflittuale, indirizzata al solo confronto di scempi e delitti compiuti in contesti diversi. Pensare che si possa aiutare un giovane a diventare un libero cittadino facendogli ascoltare il grido dei bambini senza ricorrere alla mediazione della letteratura o dell'arte è pura follia; così sbattere in copertina di un libro, nella locandina di un evento o nel pannello di una mostra la montagna di corpi scheletrici del Lager è un esercizio rischioso: «Raccogliere casi di brutture e delitti e malanni e viltà e stoltezze e follie non significa intendere la verità storica di un'età», raccomandava molti anni addietro Benedetto Croce.

Di conservazione del paesaggio e di tutela del patrimonio artistico, ma anche delle violenze della Natura, il filosofo napoletano se ne intendeva. Da ragazzo era rimasto prigioniero delle macerie nel terremoto di Casamicciola: non a caso a lui si deve la prima legge organica di tutela del paesaggio (1922). In quella legge si dicevano soggetti a protezione i paesaggi incantevoli, ma anche le cose che avessero «particolare relazione con la storia civile e letteraria». Il legame cioè tra paesaggio e opere d'immaginazione doveva essere chiaro nella sua mente come non lo è più per noi. Più dei ragionamenti che puntano lo sguardo sulla morte, sulle bruttezze e sui delitti, attiravano Croce, e dovrebbero attirare coloro che operano nel mondo della scuola, i ragionamenti che puntano lo sguardo sulla vita e sulle storie positive.

[...]

La semplice registrazione e le commemorazioni di singoli eventi non sono di nessuna utilità se disgiunte dalla fatica di illuminare il contesto e comprendere per intero il significato di un avvenimento, la biografia di un personaggio, le dimensioni di un atto criminoso. Tanta ingenuità l'abbiamo riscontrata nel raffronto tra le immense tragedie del XX secolo: la similitudine fra le vittime dei Lager e quelle dei Gulag ancora oggi è un ingombro che atterrisce gli storici contemporaneisti e di recente ha costretto a spericolati equilibrismi il parlamento di Bruxelles in una dichiarazione ufficiale che ha fatto molto discutere; altrettanta ingenuità si è vista, su scala minore, tra chi ha cercato denominatori comuni fra la Shoah e le foibe, ma la si è vista all'opera anche nell'omologare, sotto l'etichetta del cattivo italiano, il comportamento dei nazifascisti e le violenze commesse dallo Stato post-unitario contro il brigantaggio oppure nel confronto fra le camere a gas hitleriane e i gas adoperati da Graziani in Africa. Il disagio che provocano paragoni così ingenui lo si prova visitando memoriali dedicati alle violenze novecentesche, comprese quelle più recenti, Srebrenica in Bosnia o la Porta di Lampedusa. Il cammino degli uomini è saturo di episodi orrendi, fare di ogni erba un fascio non giova a nessuno, soprattutto non aiuta a capire se un episodio faccia parte di una semplice contingenza, dipenda da una guerra civile, da una crisi economica oppure corrisponda organicamente alla natura di un sistema di potere come è stato il nazionalsocialismo, che della violenza aveva fatto la sua regola. Non sono questioni che si possano mettere tutte sullo stesso piano, senza avviare al tempo stesso progetti operativi nel mondo del volontariato e ancora della scuola, perché i migranti siano curati, sfamati e magari resi interlocutori partecipi e attivi di qualche pagina di storia d'Italia recente, per esempio sottoponendo a verifica, insieme a loro, la legittimità di paragoni fra la realtà di un campo di internamento in Libia e un campo di internamento fascista. Se ne parla troppo poco, ma conosco e ho avuto modo di ammirare esperienze didattiche di questa natura promosse non per caso sempre sul territorio che ho messo al centro della mia analisi.

Il 27 gennaio ha accentuato il peso dell'antisemitismo e favorito la confusione sulla natura del Male. C'è bisogno di un ripensamento, lo chiedono in tanti, ma sarebbero auspicabili proposte nuove anche per le giornate dedicate alle vittime della mafia, del terrorismo o della violenza sulle donne: territori dove ormai si consuma una stanca discussione basata sul rapporto comparativo, ma ambiguo, con la Shoah. Si pensi alle celebrazioni in memoria delle vittime della mafia, le parole vuote che si fanno ripetere ogni anno agli studenti, sempre le stesse, vuoi che si ricordi Falcone e Borsellino, vuoi che si ricordi Dalla Chiesa, vuoi che si ricordino i bambini deportati nei Lager.

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Pagina 65

Soli loci


Formulata così, la definizione di "memoria obliqua" rischia forse di apparire generica. Conviene fare qualche esempio e richiamare in maniera diretta alcuni testi dello scrittore francese.

In una famosa lettera a Maurice Nadeau deI 7 luglio del 1969, Perec mette in pratica la sua teoria, esponendo il progetto di un vasto insieme autobiografico articolato in quattro libri. Di quell'ambizioso programma soltanto W o il ricordo d'infanzia vedrà la luce: uno dei tre progetti non realizzati attira la nostra attenzione. Esso prevedeva tempi di attesa lunghissimi, un libro da concludersi nell'arco di dodici anni, un'idea «piuttosto mostruosa, ma anche esaltante», un gioco sull'invecchiamento dei luoghi, l'invecchiamento della scrittura, l'invecchiamento dei ricordi. Esattamente la spiaggia su cui si è arenata la nostra riflessione sui luoghi di memoria.

Vale la pena riassumere le tappe del progetto incompiuto. A conferma della complessità di questo viaggio si noterà che non è la prima volta che ci troviamo davanti a opere o quadri incompiuti. Non è detto che la perfezione di un'opera pienamente realizzata sia raccomandabile. Perec aveva scelto dodici luoghi - anonime vie, piazze di Parigi - legati a ricordi e avvenimenti importanti della sua vita. Ogni mese si proponeva di recarsi in due di questi luoghi e descriverli in momenti successivi: una prima volta sul posto (in un caffè o per strada), una descrizione neutra, dove si enumerano i negozi, qualche particolare architettonico, qualche microavvenimento (il camion dei pompieri che passa, un trasloco, i manifesti); la seconda descrizione viene messa su carta più tardi, in un posto qualsiasi, e il luogo sarà descritto a memoria, rievocando i ricordi legati a quel luogo particolare, la gente conosciuta, i microavvenimenti. Questi testi, qualche riga o più pagine, una volta terminati, dovevano essere chiusi in una busta sigillata con ceralacca.

In un anno ognuno di quei dodici luoghi veniva descritto due volte, tutto questo per dodici anni permutando le coppie di luoghi secondo una tabella (bl-quadrato ortogonale di ordine 12) fornita da un matematico indù che lavorava negli Stati Uniti. Iniziando nel gennaio 1969, nelle intenzioni dell'autore il lavoro sarebbe dovuto finire nel dicembre 1980, con l'apertura delle 288 buste sigillate: rileggere i testi e ricopiarli facendo gli indici necessari era il successivo passaggio. Il progetto non fu portato a termine, ci rimane solo questa traccia e il titolo che era stato scelto: Loci soli (o Soli loci ), un gioco di parole con «soliloquio", una strizzatina d'occhio a un libro di Raymond Roussel, Locus solus.

Ricordo di aver letto questa lettera-piano di lavoro una decina di anni dopo la data che Perec aveva fissato per aprire le sue buste, nel 1992. In Italia le politiche della memoria erano a una svolta o meglio sarebbe dire alla vigilia di un'ennesima, stupefacente capriola. Dopo anni di cupo silenzio si era nel pieno di una fase di transizione che va dal crollo del muro di Berlino all'ascesa del primo governo Berlusconi. La cultura del nostro Paese si accorgeva improvvisamente, si potrebbe dire dalla sera alla mattina, dei campi di internamento italiani, dell'esistenza del campo di Fossoli e della Risiera di San Sabba, di Formiggini e del suo clamoroso gesto di protesta, dei ragazzi salvati a Villa Emma. Si acquisiva dimestichezza con una parola ebraica sconosciuta ai più: Shoah. Il punto apicale di quella fase sarà l'uscita in sala del film di Roberto Benigni La vita è bella (1997).

[...]


Girando per l'Italia, in quegli anni di silenzi e di solitudine, fuori e dentro le stazioni ferroviarie, avrei dovuto appuntare i nomi delle rare riviste e degli isolati studiosi che avevano lavorato su quegli angoli abbandonati di paesaggio: don Chisciotte inascoltati, storici scalzi che non si erano rassegnati al soliloquio. Penso a due donne, studiose di valore, Anna Rossi-Doria e Anna Bravo. Penso a un alto funzionario RAI, sopravvissuto a Mauthausen, Bruno Vasari, a un poeta triestino, Fery Fölkel, che convinse un grande editore a pubblicare un primo libro su Trieste e la Risiera; penso a un medico pediatra che riaprì il dossier Ferramonti, Carlo Spartaco Capogreco. Se avessi sigillato in buste chiuse i miei ricordi e quelle buste le avessi aperte nella seconda metà degli anni Novanta sarebbe stata una sorpresa. A ripensarci oggi, credo che l'esercizio farebbe un gran bene anche a quanti si ingegnano a contestare gli abusi della memoria.

Solitaria fu la ricezione di Primo Levi, loci soli per lungo periodo i suoi libri: se avessi sigillato in busta chiusa le amare riflessioni che mi era capitato di fare sull'assenza di firme autorevoli fra le persone che si occupavano di lui quando era in vita, avrei potuto documentare l'effetto-sorpresa che causò in me la conversione in massa della migliore italianistica, degli storici, dei collaboratori delle terze pagine dei quotidiani, che dopo la sua morte, dopo "quella" morte, iniziarono a parlare di lui rapiti dall'entusiasmo per uno scrittore ora celebrato come un "venerato maestro", per adattare la sarcastica, ma calzante, formula di un altro protagonista della letteratura emiliana, Edmondo Berselli.

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Pagina 83

[...] I luoghi contaminati dalla Seconda guerra mondiale, per quanto elevata e sincera sia la nostra volontà di ricordare, respingono, non attraggono. Sbagliamo a imporre ai giovani di visitare quei luoghi senza avvisarli con un cartello: PAESAGGIO CONTAMINATO. Ecco un altro errore che dobbiamo riconoscere, quello che richiede di essere per primo superato. Anche i libri, certi libri, iniettano veleno nel lettore. Non si può stare a lungo immersi in un testo sui campi di concentramento, il veleno di Auschwitz contagia anche lo specialista, non soltanto il lettore comune. Nella mia vita ho dedicato molto del mio lavoro a Se questo è un uomo, ma ho sempre sentito l'esigenza di concedermi delle pause durante le quali studiare altro era necessario, per non lasciarmi contaminare dal Male.

[...]


Tutte le volte che mi capita di uscire da Torino passando dal cavalcavia che divide Moncalieri da Nichelino, il mio pensiero corre a Emanuele Artom e ai miei esordi di insegnante nelle scuole di periferia. Ogni anno il torrente esce dagli argini creando danni ai piedi del nobile castello di Moncalieri e a due passi dalla dimora della Bela Rosin: sono i danni che la Natura ricorda all'Islandese nel famoso dialogo delle Operette morali, ma il mio pensiero malinconico non va a Leopardi, bensì a Emanuele, il cui corpo su quelle rive del Sangone fu abbandonato dai suoi aguzzini e mai più ritrovato.

Per decenni quella di Emanuele è stata una «illacrimata sepoltura». I suoi amici più cari, lo ricorda una di loro, Bianca Guidetti Serra , dopo la Liberazione vagarono su quelle sponde per cercare i suoi resti. Una via lì adiacente gli è stata dedicata. Altro locus solus per decenni. Era una delle zone più malfamate negli anni Settanta: sventurato chi vi capitasse con una nomina d'insegnante da quelle parti. Nessuno che si ricordasse di Emanuele. Dopo anni di silenzio qualcosa sta cambiando, per fortuna. Sono stati ripubblicati i suoi importanti Diari da una grande casa editrice. Il quartiere non è lo stesso di una volta, ma continuo a non andare volentieri in quel parco, non credo potrà diventare un'esperienza confrontabile con la forza d'urto prodotta dalla lettura dei diari, da quella frase su cui poco abbiamo meditato e che dovrebbe essere riprodotta a caratteri cubitali sulle rive del Sangone e per estensione in ogni altro luogo destinato a rammentare ai passanti la tragedia del regime di Mussolini: «Il fascismo non è una tegola cadutaci per caso sulla testa; è un effetto della apoliticità e quindi della immoralità del popolo italiano. Se non ci facciamo una coscienza politica, non sapremo governarci, e un popolo che non sa governarsi cade necessariamente sotto il dominio straniero o sotto la dittatura di uno dei suoi».

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Pagina 86

Paesaggi contaminati


Abbassare lo sguardo davanti a un paesaggio insanguinato o al luogo di una «illacrimata sepoltura» credo sia una reazione naturale che non andrebbe stigmatizzata, ma tradotta in pratiche nuove. La necessità di letture approfondite, di riflessione sui testi prevede i tempi lunghi di un'attesa sulla soglia, non l'ansia della visita in loco. Di qui la funzione maieutica che dovrebbero avere i Bibliotecari della Memoria. Non nego l'importanza del viaggiare, anche se sono stato e sono molto critico contro le esperienze dei Treni della Memoria. Vale di più una tappa nel salone d'ingresso della Stazione Centrale con una lettura dell'incipit di Austerlitz di Sebald di molte partenze con il trolley del viaggio d'istruzione; contesto l'urgenza dell'ingresso, la fretta di varcare una soglia che respinge. La preparazione, lo studio potrebbero svolgersi in prossimità. Biblioteche, ma anche un semplice campo, una strada di campagna. Non la dinamica del viaggiatore distratto, ma la staticità del viaggiatore immobile. Non so nemmeno quanto possano servire i progetti di restauro conservativo o la creazione ex novo di Giardini o Parchi della Memoria.

Con le terre insanguinate d'Europa, finita la guerra, la pedagogia ha seguito invece la strada opposta: attrattiva, non repulsiva, il sopralluogo, l'immedesimazione senza straniamento. Non è detto che sia stata la strada giusta. Pensare che un giovane, sia pure bene informato, possa reggere lo sguardo davanti al paesaggio insanguinato è un errore che gli scrittori della memoria obliqua consigliano di evitare. Essere introdotti, portati dentro, senza la mediazione di una contrainte, non potrà mai produrre una maturità consapevole. Questo errore di psicologia elementare ha prodotto guai irreparabili. Non è semplice adesso fare marcia indietro.

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Pagina 119

La boutique oscura della memoria


La memoria ha un limite, che è dato dai sogni. C'è chi ha la fortuna di sognare altri sogni. I luoghi e i libri sono due nutrimenti essenziali per i miei sogni, ma non rinuncio a sognare cose che non ci sono e vorrei che ci fossero. Sarà perché dormo poco, ho un sonno molto leggero, ma non sono incubi i miei. Dispongo di una discreta memoria libresca, così per trascorrere il tempo nel dormiveglia il ricordo di luoghi che mi sono molto cari si abbina al ricordo di autori dimenticati, in un gioco di rimandi che talvolta mi costringe, nel corso della giornata, a faticose ricerche nelle seconde file della mia biblioteca per trovare quello che cerco e spesso non ritrovo.

Luoghi, libri e sogni si sorreggono a vicenda. Mi capita spesso di sognare un luogo descritto in un libro. Nella sfera onirica mi ritrovo in Perec , forse perché come lui sono un mancino corretto in conseguenza di una pratica scolastica in uso ai tempi in cui facevo le scuole primarie. Gli effetti di quel sopruso, scrive Perec, producono la predilezione per le memorie oblique, l'attitudine a tenere la testa leggermente inclinata a sinistra, l'incapacità di distinguere destra e sinistra scoperta il giorno in cui si dà l'esame per la patente, l'accento acuto da quello grave, il concavo e il convesso, il segno maggiore di (>) dal segno minore di (<), l'iperbole dalla parabola, il numeratore dal denominatore, l'afferente dall'efferente, il dividendo dal divisore, la metafora dalla metonimia, i Capuleti dai Montecchi.

Aggiungerei, tra le abitudini dei mancini corretti, la passione per le sfide impossibili, per i sogni a occhi aperti, per le modeste proposte, i paradossi alla Jonathan Swift. Ancora sogni scaturiti da libri e da luoghi. Dal giorno in cui è esplosa la pandemia, il groviglio dei paesaggi contaminati, dei giardini in movimento ha ravvivato la camera oscura dei miei ricordi e se ne sono visti i segni nella pagine precedenti. Perec parla di una boutique obscure della memoria. Molti di questi miei pensieri notturni li ho già svelati: Pollack, Clément, il gioco matematico dei loci soli nella lettera dello stesso Perec a Maurice Nadeau, i racconti di Loria, la lapide in via Mazzini, l'erba del cimitero di Ferrara nel racconto di Bassani, la necropoli di Cerveteri illuminata dalla voce di Giannina, la prima raccolta di poesie di Zanzotto Dietro il paesaggio, il Dialogo della Natura e di un Islandese, la filosofia del ciononostante di Morte a Venezia, i racconti di Alberto Cantoni, la bonifica delle terre malariche e alluvionate di Giovanni Cena e Tullo Massarani, la Casa del Ridere secondo Formiggini.

L'emersione dalla boutique oscura dei sogni è come l'eruzione dell'Etna: al mattino ti senti come i contadini siciliani interrogati da Berenson. E i libri e i luoghi, anche se sognati, sono una risorsa per suggerire, per via di paradosso, qualche modesta proposta.

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