Autore Déborah Danowski
CoautoreEduardo Viveiros de Castro
Titolo Esiste un mondo a venire?
SottotitoloSaggio sulle paure della fine
Edizionenottetempo, Roma, 2017, figure , pag. 292, cop.fle., dim. 14x20x1,7 cm , Isbn 978-88-7452-649-9
OriginaleHá mundo por vir? Ensaio sobre os medos e os fins [2014]
TraduttoreAlessandro Lucera, Alessandro Palmieri
LettoreGiorgia Pezzali, 2019
Classe filosofia , ecologia , evoluzione , inizio-fine , natura-cultura












 

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Indice


Prefazione all'edizione italiana                          11
Ringraziamenti                                            17


Esiste un mondo a venire?                                 19

E quali rozza bestia...                                   21
    Metafisica e mitofisica                               29
    Note                                                  32

...giunto infine il suo tempo,                            35
    Gaia e anthropos                                      35
    La prospettiva della fine del mondo                   53
    Note                                                  59

...striscia verso Betlemme per esser partorita?           64
    Il mondo prima di noi                                 64
    Il mondo dopo di noi                                  67
    Note                                                  71

Il fuori senza pensiero o la morte dell'Altro             73
    Un certo popolo senza mondo del recente passato       73
    La tesi tanatologica                                  76
    "Nessuno ne sentirà la mancanza"                      87
    Note                                                  93

Infine, soli                                              97
    Ceci n'est pas un monde                               97
    Dopo il futuro: la fine come inizio                  104
    Il Grande Dentro: la speleologia speculativa
    di Gabriel Tarde                                     125
    Note                                                 131

Un mondo di persone                                      138
    La fine delle trasformazioni, o il primo Antropocene 139
    Antropomorfismo contro antropocentrismo              151
    La fine del mondo degli indios                       159
    Note                                                 167

Umani e terreni nella guerra di Gaia                     173
    La specie impossibile                                174
    La fine del mondo come evento frattale               200
    Note                                                 224

Il mondo in sospeso                                      233
    Credere al mondo                                     251
    Note                                                 257

Bibliografia                                             263


 

 

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Pagina 21

E quale rozza bestia...


                               E quale rozza bestia, giunto infine il suo tempo,
                               striscia verso Betlemme per esser partorita?

                                                                      W.B. Yeats



La fine del mondo è un tema apparentemente sconfinato - perlomeno, è chiaro, fino a che non accade. Il registro etnografico restituisce una varietà di modi in cui le culture umane hanno immaginato la disarticolazione dei cardini spazio-temporali della storia. Alcune di queste concezioni sembrano aver riguadagnato nuova vita a partire dagli anni '90 del secolo scorso, quando si è formato un consenso scientifico sulle trasformazioni in corso nel regime termodinamico del pianeta. I materiali e le analisi sulle cause (antropiche) e le conseguenze (catastrofiche) della "crisi" planetaria si accumulano con estrema rapidità, mobilitando sia la percezione popolare, debitamente influenzata dai media, sia la riflessione accademica.

Mentre la gravità dell'attuale crisi ambientale e della civiltà si fa via via piú evidente, intorno a questa antichissima idea, che per semplificare ciò che questo saggio intende in parte complicare chiameremo "la fine del mondo", proliferano nuove variazioni e se ne attualizzano di vecchie. Su questo tema esistono blockbusters di genere fantascientifico, docu-fiction di History Channel, libri di divulgazione scientifica con vari livelli di complessità, videogiochi, opere musicali e artistiche, blog rappresentativi di ogni sorta di ideologia, congressi scientifici, riviste accademiche e reti di informazione specializzate, rapporti e dichiarazioni di organizzazioni mondiali tra le piú diverse, summit sul clima invariabilmente frustranti, simposi di teologia e pronunciamenti papali, saggi di filosofia, cerimonie new age e di altri movimenti neopagani, un numero esponenzialmente crescente di manifesti politici - ogni genere di testi, contesti, strumenti, oratori e tipi di pubblico. La presenza di questo tema nella cultura contemporanea si è intensificata sempre piú rapidamente, così come ciò a cui si riferisce, ovvero il moltiplicarsi dei mutamenti del macro-ambiente terrestre.

Tutta questa fioritura disforica va controcorrente rispetto all'ottimismo "umanista" che predomina nella storia dell'Occidente da tre o quattro secoli a questa parte. Annuncia, o addirittura rispecchia, qualcosa che sembrava escluso dall'orizzonte della storia in quanto epopea dello Spirito: la rovina della nostra civiltà globale in virtú della sua stessa incontrastata egemonia, una caduta che potrebbe coinvolgere considerevoli porzioni di popolazione umana. A cominciare, chiaramente, dalle masse miserabili che vivono nei ghetti e nelle discariche geopolitiche del "sistema mondiale"; ma è nella natura stessa del collasso imminente che esso, in un modo o nell'altro, raggiungerà tutti. Ecco perché non sono solo le società che incarnano la civiltà dominante, di matrice occidentale, cristiana e capitalistico-industriale, a essere chiamate in causa da questa crisi, ma tutta la specie umana, l'idea stessa di specie umana - anche e soprattutto, quei numerosi popoli, culture e società che non sono all'origine della crisi. Per non parlare delle migliaia di altri lignaggi di viventi che si trovano minacciati di estinzione, o che sono già scomparsi dalla superficie della Terra, a causa di modificazioni ambientali dovute alle attività "umane".

Un tale disastro demografico e della civiltà viene a volte immaginato come il risultato di un evento "globale", per esempio un'estinzione improvvisa della specie umana o di tutta la vita terrestre scatenata da un "atto di Dio" - un supervirus letale, una gigantesca esplosione vulcanica, un impatto con un corpo celeste, una megatempesta solare -, o per l'effetto cumulativo di interventi antropici sul pianeta, come nel film The Day after Tomorrow (2004) di Roland Emmerich o, infine, per una bella guerra nucleare vecchio stile. Altre volte, il disastro tende a essere descritto in maniera piú realistica (soprattutto se si segue l'evoluzione degli scenari proposti dalle scienze che studiano le interazioni tra la geosfera, l'idrosfera, l'atmosfera e la biosfera - il cosiddetto "Sistema Terra") come un processo di degradazione già iniziato, estremamente intenso, sempre più accelerato e sotto molti aspetti irreversibile, delle condizioni ambientali che accompagnano la vita umana nell'Olocene (epoca del periodo Quaternario, successiva al Pleistocene, iniziata 11.700 anni fa), con siccità seguite da uragani e alluvioni, carestie a cui succedono pandemie umane e animali, guerre genocide nel mezzo di estinzioni biologiche che raggiungono generi, famiglie e addirittura interi phyla, in una sequenza di effetti perversi di retroazione che spingerebbero progressivamente la specie, secondo un processo di "lenta violenza" (Nixon 2011) - che sembra sempre meno lenta -, verso un'esistenza materialmente e politicamente degradata. Quello che Isabelle Stengers (2009) ha chiamato "la barbarie che viene", e che sarà, c'è da crederci, ancora più barbara a mano a mano che il sistema tecno-economico dominante (il capitalismo mondiale integrato) proseguirà la sua fuite en avant.

Non sono solo le scienze naturali e la cultura di massa che se ne alimenta a registrare la deriva del mondo. Persino la metafisica, notoriamente la piú eterea delle discipline filosofiche, comincia a riverberare questa diffusa inquietudine. Negli ultimi anni abbiamo assistito, per esempio, a un'elaborazione di nuovi e sofisticati argomenti concettuali che si propongono, a modo loro, di "farla finita col mondo": farla finita col mondo sia in quanto inevitabilmente mondo-per-l'uomo, cosí da giustificare un pieno accesso epistemico a un "mondo-senza-noi" che si articolerà assolutamente prima della giurisdizione dell'Intelletto; ma anche farla finita col mondo-in-quanto-significato, in modo da determinare l'Essere come pura esteriorità indifferente; come se il mondo "reale", nella sua radicale contingenza e mancanza di significato, dovesse essere "realizzato" contra la Ragione e il Significato.

È vero che molte di queste fini-del-mondo metafisiche hanno una relazione causale solo indiretta con l'evento fisico della catastrofe planetaria, ma non per questo smettono di esprimerlo, di riecheggiare la vertiginosa sensazione di incompatibilità - se non di incompossibilità - tra l'essere umano e il mondo, visto che sono poche le zone dell'immaginazione contemporanea a non essere state scosse, in un vero e inaudito processo di "transdiscendenza", dalla violenta reintroduzione della noosfera occidentale nell'atmosfera terrestre. Ci credevamo destinati al vasto oceano siderale, ed eccoci di nuovo respinti al porto da cui siamo partiti...

Le distopie, dunque, proliferano; e un certo panico perplesso (chiamato peggiorativamente "catastrofismo"), quando non un macabro entusiasmo (recentemente reso popolare con il nome di "accelerazionismo"), sembra aleggiare sullo spirito del tempo. Il famoso "no future" del movimento punk si vede all'improvviso rivitalizzato - ammesso che il termine sia adatto -, cosí come riemergono profonde inquietudini da dimensioni comparabili alle attuali, come quelle suscitate dalla corsa al nucleare negli anni, non cosí lontani, della Guerra Fredda, Impossibile non ricordare la cupa e secca conclusione di Günther Anders (2007: 112-113), in un testo capitale sulla "metamorfosi metafisica" dell'umanità dopo Hiroshima e Nagasaki: "L'assenza di futuro è già iniziata".

Questo futuro-che-è-finito è arrivato di nuovo - il che suggerisce che non ha mai smesso di essere iniziato: nel Neolitico? nella Rivoluzione Industriale? a partire dalla Seconda Guerra Mondiale? Se la minaccia della crisi climatica è meno spettacolare di quella degli anni della minaccia nucleare (che, per inciso, non ha cessato di esistere), la sua ontologia è però piú complessa, sia per quanto riguarda le connessioni con l'attività umana, sia per ciò che concerne la sua paradossale cronotopia. Il suo avvento ha ricevuto il "nostro" nome: "Antropocene", una denominazione proposta da Paul Crutzen ed Eugene Stoermer per designare la nuova epoca geologica che segue l'Olocene e che sarebbe iniziata con la Rivoluzione Industriale, per poi intensificarsi dopo la Seconda Guerra Mondiale.

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Metafisica e mitofisica


Questo testo è un tentativo di prendere sul serio gli attuali discorsi sulla "fine del mondo", considerandoli come esperienze di pensiero sulla virata dell'avventura antropologica occidentale verso il declino, ovvero come sforzi, non necessariamente consapevoli, di inventare una mitologia adeguata al presente. La "fine del mondo" è uno di quei famosi problemi che, secondo Kant, la ragione non può risolvere, ma che non può fare a meno di porre. È il modo in cui lo fa passa necessariamente attraverso la forma di una fabulazione mitica o, come oggi piace dire, di "narrazioni" che ci orientano e motivano. Il regime semiotico del mito, indifferente alla verità o falsità empirica dei suoi contenuti, si instaura ogni volta che la relazione tra gli umani in quanto tali e le loro condizioni generali di esistenza si impone come problema della ragione. E se ogni mitologia può essere descritta come una schematizzazione delle condizioni trascendentali in termini empirici - cioè, una retroproiezione che convalida determinate ragioni sufficienti immaginate ("narrativizzate") come cause efficienti - allora l'impasse attuale si rivela tanto piú tragica, o ironica, quanto piú vediamo il problema di una Ragione che ha ricevuto l'avallo dell'Intelletto. Siamo qui di fronte a un problema essenzialmente metafisico, la fine del mondo, formulato nei termini rigorosi di scienze sommamente empiriche come la climatologia, la geofisica, l'oceanografia, la biochimica e l'ecologia. Forse, come Lévi-Strauss ha osservato più volte, la scienza, che ha iniziato a separarsi dal mito circa tremila anni fa, finirà per rincontrarlo al termine di una di quelle doppie torsioni che intrecciano la ragione analitica con la ragione dialettica, la combinatoria anagrammatica del significante con le vicissitudini storiche del significato.

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Pagina 35

...giunto infine il suo tempo,


                                                Non stiamo facendo allarmismo
                                                sta realmente accadendo.

                                                                   Thom Yorke



Per riprendere un'antica maledizione cinese, si può dire che viviamo realmente in tempi interessanti. Uno degli aspetti piú interessanti di questi tempi, come peraltro si è ampiamente osservato, è la sua incontrollata accelerazione. Il tempo è fuori sesto, e scorre sempre più rapidamente. "Le cose cambiano cosi velocemente che per noi è difficile star loro dietro", constatava recentemente Bruno Latour (2013a: 126). Il filosofo faceva riferimento allo stato della conoscenza scientifica del problema, ma possiamo dire che ormai è il tempo stesso, in quanto dimensione in cui si manifesta il cambiamento (il tempo come "numero del movimento", direbbe Aristotele), che sembra non solo subire un'accelerazione, ma cambiare qualitativamente "tutto il tempo". Virtualmente, tutto ciò che si può dire sulla crisi climatica diviene, per definizione, anacronistico, sfasato; e tutto ciò che deve essere fatto al riguardo è necessariamente troppo poco, ed è ormai troppo tardi - too little, too late. Questa instabilità meta-temporale si lega a un'improvvisa insufficienza di mondo - ricordiamo la tesi dei cinque pianeti Terra che sarebbero necessari per sostenere l'estensione a tutta l'umanità del livello di consumo di energia del cittadino medio nord-americano - che scatena in noi tutti qualcosa come un'esperienza di decomposizione del tempo (la fine) e dello spazio (il mondo), cosí come il sorprendente cedimento di queste due grandi forme condizionanti della sensibilità verso lo statuto di forme condizionate dall'azione umana. E questo è uno dei sensi, e non il meno importante, per cui si può dire che il nostro mondo sta smettendo di essere kantiano. È curioso notare che rispetto alle tre grandi idee trascendentali di Kant, ovvero Dio, Anima e Mondo (oggetti rispettivamente della teologia, della psicologia e della cosmologia), è come se stessimo assistendo al crollo dell'ultima idea, visto che Dio è morto tra il XVIII e il XIX secolo, l'Anima poco piú tardi (il suo avatar semiempirico, l'Uomo, potrebbe aver resistito fino alla metà del XX secolo), lasciando cosí il Mondo come ultimo e vacillante bastione della metafisica (Gaston 2013: ix).

La storia umana ha già conosciuto differenti crisi, ma la cosiddetta "civiltà globale", denominazione arrogante data all'economia capitalista basata sulla tecnologia dei combustibili fossili, non si è mai confrontata con una minaccia come quella in corso. Non stiamo parlando solo del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici. Nel settembre 2009 la rivista Nature ha pubblicato un numero speciale in cui diversi scienziati, coordinati da Johan Rockström, dello Stockholm Resilience Centre, identificavano nove processi biofisici del Sistema Terra e cercavano di stabilire quali fossero i limiti di questi processi, oltrepassati i quali si genererebbero cambiamenti ambientali insopportabili per diverse specie, tra cui la nostra: i cambiamenti climatici, l'acidificazione degli oceani, la diminuzione dell'ozono nella stratosfera, il consumo di acqua dolce, la perdita della biodiversità, l'interferenza umana nei cicli globali di azoto e fosforo, i cambiamenti nello sfruttamento del suolo, l'inquinamento chimico, l'inquinamento atmosferico provocato dagli aerosol. Gli autori avvertivano, a mo' di conclusione, che "non possiamo concederci il lusso di concentrare i nostri sforzi in nessuno di questi [processi] in modo isolato. Appena si oltrepassa un limite, gli altri corrono lo stesso rischio". Tutto porta a credere, ancora secondo gli autori, che abbiamo già oltrepassato la zona di sicurezza per quanto riguarda tre di questi processi - il tasso di perdita della biodiversità, l'interferenza umana nel ciclo dell'azoto (il tasso con cui l'N2 è rimosso dall'atmosfera e convertito in azoto reattivo per l'uso umano, principalmente come fertilizzante) e i cambiamenti climatici - e siamo vicini al limite per altri tre - il consumo di acqua dolce, il cambiamento nello sfruttamento del suolo e l'acidificazione degli oceani.

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Pagina 42

Siamo, insomma, a due passi dall'ingresso - o siamo già entrati, e questa stessa incertezza illustra l'esperienza di caos temporale - in un regime del Sistema Terra completamente differente da tutto ciò che abbiamo conosciuto fino a ora. Il futuro prossimo, nello spazio di poche decadi, diviene imprevedibile, se non addirittura inimmaginabile al di fuori degli scenari della fantascienza o delle escatologie messianiche.

Ci sono varie immagini sconcertanti riguardo questo fenomeno di accelerazione delle alterazioni ambientali con un tasso percepibile nell'arco di una o due generazioni umane, come gli hockey stick graphs che mostrano l'aumento vertiginoso di diversi parametri critici a partire dalla fine del XIX secolo - temperatura media globale, incremento demografico, consumo di energia pro capite, tasso di estinzione delle specie ecc. - o come la "curva di Keeling", che descrive l'evoluzione del tasso di concentrazione di CO2 nell'atmosfera dal 1960, il quale ha raggiunto per la prima volta il limite di 400 ppm il 9 maggio del 2013. E non si tratta pertanto solo dell'ampiezza dei cambiamenti in rapporto ad alcuni valori di riferimento (per esempio i 280 ppm di CO2 precedenti alla Rivoluzione Industriale), ma della loro accelerazione crescente - l'intensificazione della variazione e la conseguente perdita di ogni valore di riferimento.

Viviamo il tempo dei punti catastrofici e dell'inversione delle curve.

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Pagina 45

Questa repentina collisione degli Umani con la Terra, la terrificante comunicazione del geopolitico con il geofisico, contribuisce in maniera decisiva al crollo della distinzione fondamentale dell' episteme moderna: la distinzione tra l'ordine cosmologico e quello antropologico, separati da "sempre" (cioè, perlomeno dal XVII secolo) da una doppia discontinuità, di essenza e di scala. Da un lato l'evoluzione della specie, dall'altro la storia del capitalismo (a lungo termine saremo tutti morti); alla fine tutto è termodinamica, ma è nel mercato finanziario che si fanno i conti che contano; la meccanica quantistica fluttua nel cuore della realtà, ma sono le incertezze della politica parlamentare che mobilitano i nostri cuori e le nostre menti - in due parole, Natura e Cultura (Latour 2009; Viveiros de Castro 2012a). Una volta distrutta la campana di vetro che allo stesso tempo ci separava e innalzava infinitamente al di sopra della Natura infinita "lí fuori" (Hache e Latour 2009), ci ritroviamo nell'Antropocene, l'epoca in cui la geologia entra in risonanza geologica con la morale, cosí come avevano profetizzato i celebri visionari Gilles Deleuze e Félix Guattari , vent'anni prima di Crutzen: il che, teniamo a sottolineare, non moralizza la geologia (la responsabilità umana, l'intenzionalità, il significato - vedi Pálsson et al. 2013), ma rende geologica la morale. L'affascinante stratificazione socio-cosmologica della modernità inizia a implodere di fronte ai nostri occhi. Si pensava che l'edificio avrebbe tenuto in virtù del pianterreno, l'economia, ma ci siamo dimenticati delle fondamenta. E sopraggiunge il panico quando si scopre che la determinazione in ultima istanza era solo la penultima...

Non solo la modernità si è globalizzata, ma il globo planetario si è modernizzato - e tutto ciò in un lasso di tempo brevissimo: "È solo in tempi molto recenti che la distinzione tra storia umana e storia naturale [...] ha iniziato a crollare" (Chakrabarty 2009: 207). L'idea che la comparsa della nostra specie sul pianeta sia recente, che la storia cosí come la conosciamo (agricoltura, città, scrittura) lo sia ancora di più, e che il modo di vita industriale, basato sull'uso intensivo dei combustibili fossili, sia iniziato da meno di un secondo nella scala dell'orologio evolutivo dell' Homo sapiens, sembra suggerire che l'umanità stessa sia una catastrofe, un evento improvviso e devastante nella storia del pianeta, e che scomparirà più velocemente dei cambiamenti che ha suscitato nel regime termodinamico e nell'equilibrio biologico della Terra. Nei resoconti di questa sorta di "Storia Profonda" che storici, paleontologi, climatologi e geologi stanno costruendo, gli esseri umani reciteranno un ruolo cruciale, tardivo e molto probabilmente effimero.

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Pagina 50

Naturalmente la maggior parte delle persone istruite ha imparato ad ammettere la finitudine oggettiva della specie, perlomeno dopo Darwin. Sappiamo che "il mondo è cominciato senza l'uomo e finirà senza di lui", secondo le parole cosí spesso riprese (e cosí spesso plagiate) di Lévi-Strauss (1996: 402). Ma quando le scale della finitudine collettiva e della finitudine individuale entrano in una traiettoria di convergenza, questa verità cognitiva diventa d'un colpo una verità caratterizzata da sentimenti ed emozioni difficili da gestire. Una cosa è sapere che la Terra, e tutto l'Universo, scompariranno tra qualche miliardo di anni, o che, molto prima di ciò, in un futuro ancora indeterminato, la specie umana si estinguerà - quest'ultimo sapere è, del resto, frequentemente neutralizzato dalla speranza che "ci trasformeremo in un'altra specie" (nozione carente di significato specifico); ben altra cosa è invece immaginare lo scenario che la conoscenza scientifica attuale colloca nel campo delle possibilità imminenti, in cui le prossime generazioni (le generazioni prossime) si troveranno a dover sopravvivere in un ambiente impoverito e squallido, un deserto ecologico e un inferno sociologico. Una cosa, insomma, è sapere teoricamente che moriremo; tutt'altra è ricevere dal nostro medico la notizia di essere affetti da una malattia estremamente grave, con prove radiologiche e altro alla mano.

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Pagina 57

La dualità mitica "umanità/mondo", pensata a partire dalla sua dissoluzione attraverso la sottrazione di uno dei poli, ci pone cosi di fronte a quattro casi basilari, tenendo conto della sua proiezione verso il futuro o verso il passato. Ma questa semplice matrice si raddoppia subito in otto casi, se si considera la tonalità affettiva o il valore attribuito a ognuna di queste risoluzioni sottrattive. Il mondo dopo di noi può essere visto alternativamente come una nuova Età dell'Oro per la vita o come un deserto silenzioso e morto; l'umanità dopo la fine del mondo può essere vista come una razza di superuomini il cui destino è il cosmo infinito o come un pugno di sopravvissuti miserabili sopra un pianeta devastato, e via di seguito.

Ma il quadro è in verità molto più sfumato a causa del semplice fatto che il significato e il riferimento al "mondo" e all'"umanità" nelle differenti fabulazioni mitiche, artistiche, scientifiche o filosofiche sulla fine del mondo, sono estremamente variabili. Il polo "soggetto" o "persona" sembra quasi sempre riferirsi, come abbiamo visto, alla totalità dell'umanità in quanto specie; ma può anche ridursi alla "vera" umanità, cioè a una certa incarnazione socioculturale specifica dell'eccellenza umana (noi, per esempio); o, al contrario, estendersi a una virtualità antropomorfica universale, una sorta di fondo di umanità in quanto prima materia. Questo "mondo" di cui si immagina la fine può riguardare la totalità della biosfera terrestre; può designare il cosmo come un "tutto" (l'insieme degli enti e dei processi spazio-temporali, ovvero il "mondo" della fisica), o anche la Realtà nel suo senso metafisico, o, ancora, l'Essere in quanto tale; ma può anche designare l' Umwelt [l'ambiente] socionaturale umano o, in modo piú ristretto, un certo modo di vita considerato come l'unico degno di veri esseri umani (possiamo vivere senza aeroplani o senza computer, senza plastica o senza antibiotici?).

Queste fluttuazioni o equivoci non sottraggono importanza e pregnanza all'idea della "fine del mondo"; al contrario, le fanno subire una diffrazione e la moltiplicano in una varietà di fini e di mondi che sembrano nonostante tutto esprimere nell'insieme una stessa intuizione storica fondamentale: ci è stato rivelato che le cose stanno cambiando in modo rapido, e sicuramente non in meglio, per la vita umana "cosi come la conosciamo". E soprattutto, non abbiamo la minima idea di cosa dobbiamo fare. L'Antropocene è l'Apocalisse, nella sua duplice accezione, etimologica ed escatologica. Tempi interessanti, in effetti.

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Ma il mondo, al contrario, può assentarsi a poco a poco. La prospettiva di una crisi ambientale planetaria sembra esporre meno le specie viventi al rischio di una morte rapida che all'aggravarsi di una malattia degenerativa, la cui subdola origine ci sarebbe sfuggita. Se le cose continuano nella direzione che hanno preso, la narrazione piú verosimile ci dice che effettivamente vivremo tutti, o i pochi che resteranno, in maniera sempre peggiore, in un mondo sempre più simile a quelli concepiti dalla Gnosi distopica di Philip K. Dick. Dei mondi o, come spiega Dick, degli "pseudo-mondi" in cui lo spazio e il tempo cominciano a decomporsi e a disintegrarsi, in cui le azioni s'interrompono a metà per prendere andamenti incomprensibili, in cui, in maniera erratica, gli effetti precedono le cause, le allucinazioni si materializzano in ontologie contraddittorie, la vita e la morte divengono tecnologicamente indiscernibili, misteriosi Messia ipercapitalisti amministrano religioni mediatiche per masse ipnotizzate (opportunamente dopate da dispositivi regolatori dell'umore), e in cui l'unica occupazione possibile e, in fin dei conti, impossibile che hanno i personaggi è cercare di mantenere la lucidità in mezzo a un'entropia che corrode la stessa narrazione, facendo impazzire la logica diegetica - i libri di Dick non descrivono, ma inscrivono la frammentazione del reale. Come sosteneva Leibniz esponendo lo schema piramidale dei mondi possibili alla fine dei Saggi di teodicea, il numero dei mondi peggiori tra tutti quelli in cui potremmo essere è infinito. Il peggiore dei mondi non esiste; c'è solo il migliore dei mondi possibili: il nostro. All'epoca di Leibniz, ciò poteva ancora suonare come un'affermazione ottimista.

Esistono, nella letteratura e nel cinema, numerosi esempi di rappresentazioni pessimiste (anche se talvolta in tono celebrativo) di un futuro che corrisponde allo schema "noi-senza-mondo", ovvero di una umanità a cui vengono sottratte le proprie condizioni fondamentali di esistenza. Ci viene subito in mente Mad Max, ma potremmo anche includere The Matrix, se accettiamo una certa equivalenza tra un mondo ecologicamente desertico, come quello del primo film, e un mondo di puri miraggi, come quello del secondo, miraggi suscitati, come si sa, dal "deserto del reale". In entrambi i casi, siamo di fronte a una "fine del mondo" che è la fine del mondo umano, in quanto risultato di un processo di devitalizzazione ontologica dell'ambiente (devastazione o artificializzazione integrale del pianeta), con effetti "disumanizzanti" sui sopravvissuti.

Ma forse il miglior esempio dello scenario di un'umanità a cui è stato sottratto il mondo è il romanzo di Cormac McCarthy La strada (McCarthy 2014), in cui lo stile laconico e il tema cupo si armonizzano mirabilmente. Il mito apocalittico qui elaborato può essere riassunto in una semplice formula: alla fine non rimarrà piú niente a parte gli esseri umani - e non per lungo tempo. Questo libro racconta il cammino di un padre e di suo figlio attraverso una terra morta, grigia e putrefatta, in seguito a un disastro ambientale planetario dalle cause oscure. All'interno di ecosistemi completamente distrutti, in assenza di acqua potabile, di parassiti e piante, i pochi esseri umani rimasti sopravvivono in maniera sordida grazie ai resti della civiltà (cibi in scatola, vestiti e utensili rimediati nei centri commerciali), oppure praticando il cannibalismo.

La strada descrive, un po' come Ubik di Dick, lo sviluppo di un processo inarrestabile di decomposizione, in cui gli oggetti intorno a noi si degradano a un ritmo sempre più rapido, fino a che, alla fine, ci rendiamo conto che la morte non è, come pensiamo, un nemico esterno contro cui dobbiamo lottare in condizioni di infinita asimmetria di forze, ma un principio interno: siamo già morti e la vita è ciò che è accaduto all'esterno. Possiamo dire che è qui all'opera qualcosa come un cambio di prospettiva, nel senso amerindio del termine: mentre pensavamo di essere i difensori del mondo dei viventi, è già da parecchio tempo che siamo stati catturati dal punto di vista dei cadaveri. ("Siamo già morti!" è anche la frase urlata in 4:44 - che, malgrado il suo suono stentoreo, suona molto piú come il whimper, il lamento ricorrente nella poesia di Eliot - dal personaggio interpretato da Willem Dafoe, rivolta alle persone che si suicidano gettandosi dall'alto dei loro appartamenti e che tentano cosí di esercitare per l'ultima volta la libertà umana davanti a una morte annunciata). Nel romanzo di McCarthy, in effetti, la morte minaccia per tutto il tempo di catturare i rari sopravvissuti sottraendo loro il mondo: sottraendo loro gli oggetti, erodendo la memoria umana dei propri significati, corrodendo a poco a poco il linguaggio stesso; devastando i loro corpi con malattie e fame; trasformandoli in nutrimento per i predatori cannibali, ex umani che hanno perduto la loro anima - piú precisamente, la loro "umanità". L'afasia prelude all'antropofagia. È difficile leggere questo libro senza provare l'angosciante sensazione di essere già nel mondo dei morti; e il "fuoco" metaforico che alcuni rari personaggi portano con sé non è nient'altro che una specie di semi-vita (come quella che conservano i morti recenti in Ubik) che non tarderà a spegnersi. Il mondo intero è morto e noi ci stiamo dentro. Il padre del bambino muore; il bambino prosegue con alcune persone incontrate lungo la strada che gli ispirano fiducia. Ma non hanno nessun luogo in cui andare. Coloro che camminano lungo la strada non arriveranno in nessun luogo, per la semplice ragione che non c'è piú nessun posto in cui arrivare. Non c'è via di uscita.

Un altro esempio di un mondo che si svuota a poco a poco, lasciando gli umani dolorosamente impotenti, è il magnifico film di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky Il cavallo di Torino.

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Dopo il futuro: la fine come inizio


Ma c'è chi vede con entusiasmo la prospettiva della perdita del mondo, considerandola come il semplice scarto di un'intelaiatura provvisoria, una struttura di appoggio non più necessaria agli umani, poiché alcuni stimano che la fine del mondo, in quanto fine di una "Natura" non umana o antiumana, avrà luogo nella forma di un compimento del nostro destino manifesto. Il genio tecnologico della specie le permetterà di vivere in un Umwelt configurato su misura da questa e per questa. Tale versione letteralmente costruttivista di una umanità-senza-mondo nutre la visione di un iperprogresso che libererà gli esseri umani (forse solo l'1%, per cominciare?) dal loro "sostrato biologico" grazie al prolungamento della longevità degli individui, raggiungendo finalmente la trascendenza della corporeità organica - il nostro "wetware" per usare le parole di Rudy Rucker.

L'idea di un'autofabbricazione dell'uomo del futuro e del suo ambiente attraverso l'eugenetica e la sintesi tecnologica di una nuova Natura è diffusa dai difensori della tesi della "Singolarità", riconducibile a pensatori pop come Vernor Vinge e Ray Kurzweil , collocati alla frontiera tra tecnologia (intesa nel doppio senso di padronanza tecnica e di pensiero della tecnica) e universo della fantascienza. Singolarità è il nome di una discontinuità antropologica, di un improvviso Rapimento cibernetico annunciato dalla crescita esponenziale della capacità di trattamento dei dati da parte della rete mondiale dei calcolatori. Questa crescita raggiungerà, più o meno tra una ventina d'anni, un punto di inflessione catastrofico (ricordiamoci del "punto Omega" di Teilhard de Chardin ) quando avrà finalmente superato la capacità complessiva di tutta la materia grigia del pianeta. La biologia e la tecnologia umana si fonderanno, creando una forma superiore di coscienza macchinica che resterà tuttavia al servizio dei disegni umani - permettendo, in particolare, la trasmigrazione delle anime, ovvero la codificazione della coscienza all'interno di software applicabili a un numero indefinito di supporti materiali e il loro caricamento in Rete per un'eventuale futura incarnazione in corpi puramente sintetici (o geneticamente "personalizzati" nel minimo dettaglio). La morte, a cui dobbiamo l'idea stessa di necessità, diverrà alla fine opzionale.

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L'accelerazionismo ha l'abitudine di rivendicarsi come un erede legittimo dello spirito della sinistra, concentrando le sue energie polemiche contro le posizioni anticapitaliste alternative - e perlomeno in questo senso è, di fatto, un autentico erede del vecchio spirito della sinistra. Il suo peggior nemico ideologico sembra essere l'ambientalismo e altri discorsi "riterritorializzanti" dello stesso genere (Lindblom 2012), che sognano un ritorno a condizioni meno artificiali d'esistenza, presumibilmente più fedeli all'indiscernibilità ontologica tra la specie, la vita e il mondo (continuità, orizzontalità, correlazione materiale). La difesa dell'urgenza di un rallentamento della locomotiva imballata della crescita economica nasconde goffamente, pensano gli accelerazionisti, l'obiettivo di recuperare valori e relazioni vigenti nel passato precapitalista, un passato che non solo è irrecuperabile, ma anche del tutto fantasioso e, in ultima istanza, miserabile. Quale lavoratore d'oggi vorrebbe ritornare a una condizione contadina e al "fango organico" dei propri antenati? - domanda acidamente Mark Fisher in uno dei suoi blog.

[...]

Recentemente due giovani autori, Alex Williams e Nick Srnicek (2013), hanno redatto un Manifesto accelerazionista dal profilo piú solare, ma non meno aggressivo, rispetto alla versione nichilista dell'accelerazionismo fine secolo rappresentata da Nick Land. Il manifesto ha conosciuto un certo successo nella blogosfera filosofica d'avanguardia - la Rete è la nicchia ecologica favorita dei pensatori del realismo speculativo. Il testo difende una "politica prometeica di massimo controllo sulla società e sul suo ambiente" come il solo mezzo per sconfiggere il Capitale. Questa mastery mira a "preservare i guadagni del tardo capitalismo" evitando di distruggere la "piattaforma materiale del neoliberismo". Si tratta, insomma, di "scatenare" (unleash) le forze produttive che il capitalismo, secondo la diagnosi classica di Marx ed Engels, genera e allo stesso tempo atrofizza, suscita e limita. Ma, per farlo, è imperativo riporre la nostra fiducia nel Piano (= lo Stato), recuperando un senso positivo della trascendenza che il nostro credere semplicisticamente nelle virtú immanenti della Rete (= il Mercato) ha spinto a disprezzare. La pianificazione economica centralizzata e l'autorità politica verticale riprendono cosí cittadinanza nell'immaginazione di una sinistra senza complessi, "a proprio agio" (at ease) nell'ambiente messianico del Modernismo. Altri forse direbbero: nell'immaginazione confusa di una sinistra gravemente affetta dalla sindrome di Stoccolma.

[...]

Noys (2014) osserva come il programma del Manifesto accelerazionista non sia poi cosí originale. Nonostante insista sui punti centrali del venerando Manifesto del 1848, riprende molto della piattaforma gramsciana, con il difetto, sostiene Noys, di non proporre nessuna strategia concreta per controllare dialetticamente l' astrazione che denuncia e, allo stesso tempo, elogia. Ci sembra, quindi, che il programma accelerazionista sia piú di un semplice upgrade tecnico della vulgata marxista.

Può essere letto come una versione forte di ciò che Oswald de Andrade (1990 [1950]) chiamava "filosofia messianica», ossia la millenaria narrativa patriarcale, repressiva, trascendentalista, razzista e fallocratica che attraversa come un filo rosso la storia dell'Occidente, da san Paolo a Marx, Husserl, Heidegger e oltre. Molto piú dei turbolenti Williams e Srnicek, è un altro pontefice dell'Universale a esprimere alla perfezione ciò che realmente muove gli accelerazionisti, spiegando la loro ostilità verso ciò che chiamano "primitivismo". È cosí che Alain Badiou sostiene:

Non ho timore di affermarlo: l'ecologia è il nuovo oppio dei popoli. E come sempre, questo oppio ha il suo filosofo di turno, che è Sloterdijk. Essere affermazionisti significa anche andare oltre le manovre intimidatorie condotte in nome della "natura". Occorre affermare con nettezza che l'umanità è una specie animale che tenta di superare la propria animalità, un insieme naturale che tenta di de-naturalizzarsi.


Difficile essere più chiari o piú "affermativi" (tre volte in qualche riga, in verità), e piú in errore. Ciò che Badiou chiama "ecologia", e che in realtà è il nome di una perdita di fede nel destino manifesto della specie e nelle delizie della sua sublimazione comunista, è demonizzato come una sorta di movimento reazionario, superstizioso, che propaga una religione della paura (Alain Badiou e Pascal Bruckner, même combat?) e pretende audacemente di definire il contenuto della politica e la forma del politico. Ecco allora che i noiosi ecologisti vorrebbero riportarci indietro - ma no pasarán - alle primitive paure di un'umanità animalizzata, inerme di fronte a una Natura onnipotente e imprevedibile. La convergenza del discorso degli accelerazionisti (e dei loro guru) con quello dei Singolaritaristi e degli ideologi del capitalismo vibrante del Breakthrough Institute è, "non abbiamo timore di affermarlo", piuttosto inquietante.

Gli accelerazionisti ritengono che "noi" dobbiamo scegliere tra l'animale che siamo stati e la macchina che saremo. Nella loro angelologia materialista propongono, in definitiva, un mondo senza "noi" - ma fatto per noi. Immaginano reciprocamente una specie postumana rimodellata da una "piattaforma materiale" ipercapitalista - ma senza capitalisti. Sognano un'umanità extracorporea, un mondo extraterrestre. Una natura de-naturalizzata attraverso i de-umani. Un materialismo spiritualizzato, insomma!

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Umani e Terreni nella guerra di Gaia


                                             Cosa fai, quando smetti di fingere?

                                         Dougald Hine, The Dark Mountain Project



Come abbiamo visto all'inizio del nostro saggio, nella cultura contemporanea c'è il sentimento crescente - il che non significa affatto che si tratti di una convinzione unanime e tanto meno coerente (Latour 2013b) - che i due attanti della nostra mito-antropologia, l'"umanità" e il "mondo" (la specie e il pianeta, le società e i loro ambienti, il soggetto e l'oggetto, il pensiero e l'essere ecc.) siano entrati in una congiunzione cosmologica nefasta, associata ai nomi controversi di "Antropocene" e "Gaia". Il primo designa, un nuovo "tempo" o, piuttosto, un nuovo tempo del tempo - un nuovo concetto e una nuova esperienza della storicità - in cui la differenza di ampiezza tra la scala della storia umana e le scale cronologiche della biologia e della geofisica è diminuita drammaticamente, per non dire che tende a rovesciarsi: l'ambiente cambia più velocemente della società, e il futuro prossimo diviene non solo sempre piú imprevedibile, ma, forse, sempre piú impossibile. Il secondo nome, Gaia, designa una nuova maniera di sperimentare lo "spazio", attirando l'attenzione sul fatto che il nostro mondo, la Terra, da un lato divenuta improvvisamente piccola e fragile, dall'altro suscettibile e implacabile, ha assunto l'apparenza di una Potenza minacciosa che evoca le divinità indifferenti, imprevedibili e incomprensibili del nostro passato arcaico. Imprevedibilità, incomprensibilità, sensazione di panico di fronte alla perdita di controllo, se non vera e propria perdita della speranza: ecco, sono certamente queste le sfide inedite lanciate all'orgogliosa sicurezza intellettuale della modernità.

Tre autori hanno fin qui guidato la nostra analisi, non solo perché riconoscono l'ampiezza e la gravità delle trasformazioni attuali, ma soprattutto perché insistono sulla necessità di una reinvenzione metafisica - una riconcettualizzazione e/o rifigurazione - delle nozioni di "umanità" e di "mondo", suscitate dall'entrata in scena dell'Antropocene e di Gaia: Chakrabarty, Anders e Latour.

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Pagina 194

Poiché non stiamo discutendo se ci sia o meno il riscaldamento globale o una catastrofe ambientale in corso, e visto che si tratta di uno dei fenomeni meglio "referenziati" (nel senso di Latour 2012: cap. 3) della storia delle scienze, la guerra di Gaia è una guerra di mondi, e non un conflitto sullo stato presente e futuro del mondo. Non si tratta di una matter of fact, una questione di fatti, poiché non esiste nessuna significativa controversia tra gli scienziati riguardo all'origine antropica della catastrofe climatica. Il che non impedisce che parti dell'opinione pubblica, compresa l'accademia - per non parlare dei governi, delle grandi multinazionali e dei loro "mercanti del dubbio" (Oreskes e Conway 2010) - pongano in dubbio tale consenso, insistendo su una politica del business as usual, o sull'ottimismo da capitalismo verde basato sulla "crisi come opportunità". Ciò accade perché, in questo caso, la teoria razionalista dell'azione (stabilire i fatti --> discutere le misure da adottare --> passare all'azione) non funziona, proprio come non ha funzionato nel caso della crisi nucleare della Guerra Fredda, in cui matters of fact e matters of concern si mostravano indissolubilmente aggrovigliati.

Nella controversia ambientale, la disputa verte su posizioni in cui gli attori sono politicamente implicati, in cui alcuni hanno tutto da perdere e altri molto da guadagnare, e per questo la distinzione tra "fatto" e "valore" non ha, in realtà, nessun valore. Si tratta di una situazione di guerra civile e non di un'operazione di polizia eseguita a partire da un principio d'autorità legittima ("riportare alla ragione" i delinquenti, applicando la Legge). Si tratta, insomma, di decidere in quale mondo vogliamo vivere:

Gli enunciati sui conflitti ecologici saranno piú simili a quelli sul "punto di ebollizione dell'acqua" o a quelli sulla "minaccia della Guerra Fredda"? In altri termini, abbiamo qui a che fare con un mondo di fatti [matters of fact] lontani, o con un mondo di preoccupazioni [matters of concern] estremamente sensibili? Ecco un altro chiaro spartiacque, poiché coloro che si trovano da una parte e dall'altra della frontiera, letteralmente, non abitano lo stesso mondo. Per dirlo in maniera piú diretta: alcuni tra noi si preparano a vivere come dei Terreni nell'Antropocene; altri hanno deciso di restare Umani nell'Olocene. (Latour 2013b: 11)


Questo non significa che informarsi correttamente sul sapere prodotto dalle relative scienze riguardo al riscaldamento globale non sia un fattore importante per portare molti "umani" dal lato terreno - come del resto sta accadendo.

Ma, sei Terreni dell'Antropocene non si confondono con la specie umana intesa come un tutto, ciò significa che il popolo di Gaia è parte di questa specie e solo di essa? I Terreni sono il partito per cui Latour sembra propendere, quello che cerca di convocare nelle sue conferenze di teologia politica. Legati ontologicamente e politicamente alla causa della Terra, i Terreni prendono oggi la via della guerra (ma, riecheggiando stranamente Carl Schmitt , Latour spera che "possano divenire un giorno gli artigiani della pace") contro gli Umani ambigui e traditori che, beninteso, non sono altro che i Moderni, la razza - originariamente nord-occidentale, ma sempre meno europea e sempre più cinese, indiana e brasiliana - che ha rinnegato doppiamente la Terra: sia affermandosi come tecnologicamente svincolata dalle tribolazioni della natura, sia definendosi come la sola civiltà sfuggita al mondo chiuso (ma pericoloso e imprevedibile) degli animismi arcaici e in grado di aprirsi all'universo infinito (ma saturo di un'imperturbabile necessità) della materia inanimata.

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Pagina 210

Una volta che si accetta questa definizione allargata di "tecnica" o "tecnologia", è possibile vedere piú chiaramente come la divisione tra Umani e Terreni non è solo interna alla nostra specie. (Crediamo che questo sia qualcosa con cui Latour concorderebbe facilmente). La guerra di Gaia oppone due campi o partiti popolati da umani e non umani - animali, piante, macchine, fiumi, ghiacciai, oceani, elementi chimici, insomma tutta la gamma di esistenti che si trovano implicati nell'avvento dell'Antropocene e la cui persistenza (con le loro "traiettorie", "iati", "passaggi" e "condizioni di felicità" specifiche, Latour 2012) si pone, virtualmente o attualmente, come "negatrice" del campo opposto o "negata" da quest'ultimo: nella situazione schmittiana di nemico politico, dunque. I virus letali che si propagano con l'altrettanto devastante turismo intercontinentale, l'innumerevole fauna simbiotica che si è co-evoluta con l'apparato digestivo umano, i batteri ormai definitivamente immuni agli antibiotici, le armi atomiche che attendono silenziosamente il loro momento in silos sotterranei e in sottomarini in continuo movimento, la spaventosa legione di animali confinati e torturati in campi di sterminio per l'estrazione di proteine ( Foer 2010 ), le potenti fabbriche di metano istallate negli stomaci di miliardi di ruminanti "creati" per l'industria alimentare, le inondazioni e le siccità devastatrici provocate dal riscaldamento climatico, il Mare di Aral che è diventato deserto, le decine di migliaia di specie che scompaiono ogni anno (a un tasso almeno 1000 volte piú veloce del tasso medio di estinzione nella scala evolutiva - vedi Kolbert [2014] sulla "sesta estinzione"), la deforestazione accelerata in Amazzonia e in Indonesia, lo sbarramento dei bacini amazzonici per generare energia idroelettrica (con effetti macro-regionali molto probabilmente nefasti, se non catastrofici), la saturazione dei terreni agricoli grazie ai pesticidi Bayer e BASF (onorevoli successori della IG Farben, di cui non è necessario ricordare qui la storia), il coraggioso Amaranthus palmeri o "amaranto inca" resistente all'erbicida Round-Up di Monsanto che invade le piantagioni di soia transgenica negli Stati Uniti, i semi Terminator imposti con forza agli agricoltori proprio da questa maledetta multinazionale a cui si oppongono i coltivatori tradizionali di mais, manioca, riso, sorgo o miglio con i loro semi ostinatamente preservati dai contadini delle zone di resistenza all'agroindustria, i numerosi e misteriosi (per i consumatori) additivi chimici negli alimenti, gli animali dà compagnia e i cani poliziotto, gli orsi che perdono la pazienza con gli esseri umani che non sanno rispettare le differenze tra le specie, l'insostituibile popolo delle api in pericolo di estinzione a causa di una sinergia di fattori d'origine antropica, i droni assassini, le onnipresenti telecamere di vigilanza, lo scioglimento del permafrost, internet, i satelliti del sistema GPS, l'armamentario di strumenti, modelli ed esperienze scientifiche che permettono di valutare l'evoluzione dei "limiti planetari" - insomma, tutti questi innumerevoli agenti, attività, attori, attanti, azioni, fenomeni o come altro volete chiamarli, sono automaticamente mobilitati nella guerra di Gaia (notiamo che alcuni, forse molti tra loro, possono cambiare di campo, effetto e funzione in modo sempre piú inatteso) e si articolano all'interno di diversi popoli, collettivi e organizzazioni di individui della specie Homo sapiens, opposti tra loro a seconda delle alleanze che mantengono con la moltitudine dei non umani, ovvero, a seconda degli interessi vitali che li legano a loro.

[...]

Ciò detto, tanto per cominciare le responsabili dei due terzi delle emissioni di gas a effetto serra nell'atmosfera terrestre sono solo 90 grandi compagnie: Chevron, Exxon, BP, Shell, Saudi Aramco, GazProm, la norvegese Statoil, la brasiliana Petrobrás, le società statali per l'estrazione di carbone di paesi come Cina, Russia, Polonia... Poi, ci sono nomi come Monsanto, Dupont, Syngenta, Bayer, Cargill, Bunge, Dow, la "nostra" Vale, Rio Tinto, Nestlé, le imprese dei sinistri fratelli Koch - e molti altri ancora meriterebbero di essere indicati per i loro diversi contributi alla conversione del "mononaturalismo" cosmologico dei Moderni in una megaeconomia agricola di "monocolture", per le alterazioni durature dei cicli geochimici del suolo e delle acque, per l'inquinamento ambientale massivo, per la disseminazione di alimenti nocivi alla salute umana... Non trascuriamo poi la lista delle 147 banche e delle altre multinazionali connesse in una super-rete tentacolare che stringe il pianeta in un abbraccio mortale (Coghlan e MacKenzie 2011). E non dimentichiamo di includere i governi di paesi come il Canada, l'Australia, gli Stati Uniti, il Brasile e altri ancora, che favoriscono pratiche d'estrazione di combustibili e minerali ad alto potenziale contaminante, incitando cosí alla deforestazione, costruendo dighe e intralciando i negoziati intorno alla catastrofe climatica... La lista è quindi lunga, ma non infinita. Non è contro la "civiltà", il "progresso", la "storia", il "destino" o l'umanità" che i Terreni stanno lottando concretamente, ma contro queste entità appena nominate. Sono loro ad agire in nome degli "Umani".

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Il mondo in sospeso


                             Volere la guerra contro le guerre future e passate,
                             l'agonia contro tutte le morti; e la ferita contro
                             tutte le cicatrici, in nome del divenire e non
                             dell'eterno.
                                                             Deleuze e Guattari



Fino a qui, abbiamo evocato tre autori che ci hanno guidato per buona parte del nostro percorso, ma dobbiamo attirare l'attenzione su un ultimo nome del tutto essenziale, quello di Isabelle Stengers. È da qualche anno, perlomeno dopo il suo libro Au temps des catastrophes. Resister à la barbarie qui vient (Stengers 2009), che questa pensatrice ha messo in evidenza, cosí come Latour, la figura ambigua e complessa di Gaia, personaggio chiave per la comprensione del significato di questo nostro "tempo delle catastrofi". La Gaia di Stengers, tuttavia, non è la stessa entità evocata da Latour. Innanzitutto è il nome di un evento, l'"intrusione" nella nostra storia di un tipo di "trascendenza" che non possiamo piú ignorare: l'orizzonte cataclismico definito dal riscaldamento globale antropogenico. Gaia è l'evento che mette in pericolo il nostro mondo, il solo che noi abbiamo, e dunque... (Stengers 2013b: 135). Come vedremo, è precisamente di fronte a questo "dunque" che bisogna fermarsi a riflettere; pensare alle conseguenze, strettamente legate all'estensione politica che dobbiamo dare a questo "noi", che si possono trarre da tale dunque.

Gaia è la trascendenza che, in maniera brutalmente implacabile, risponde alla trascendenza, altrettanto indifferente perché brutalmente irresponsabile, del Capitalismo. Se l'Antropocene, nel senso di Chakrabarty o Latour, è il nome di un effetto che riguarda tutti gli abitanti del pianeta, la Gaia di Stengers è il nome di un' operazione, nel senso di un effetto che, a sua volta, tale effetto deve suscitare su coloro che lo hanno causato:

Il disordine climatico e l'insieme degli altri processi che avvelenano la vita sulla Terra e che hanno un'origine comune in quello che si [on] chiama sviluppo, riguardano certamente tutti coloro, dai pesci agli uomini, che la abitano. Ma nominare Gaia è un'operazione che si indirizza a "noi" [i Moderni], che cerca di suscitare un "noi" al posto di un "si" [on]. (ivi: 115)


Stengers attira qui l'attenzione sulla Grande Divisione che ha opposto, nel corso degli ultimi secoli, i "popoli" che vivevano una relazione onirica, fantasmatica con la Terra, e un "noi" che credeva di essere un "si" impersonale (in francese on), una Terza Persona astratta, un punto di vista anonimo da cui si, o meglio, da cui homen - il pronome indefinito del portoghese arcaico apparentato al francese on - apprendeva l'essenza reale della natura, e del quale i Moderni erano gli attenti custodi. "Gaia", dunque, ci riguarda: prima di tutto riguarda "noi uomini", coloro che si sono considerati le teste pensanti dell'umanità e che si sono dati come missione quella di civilizzare e modernizzare tutti gli altri popoli del mondo - ricavandone dei buoni profitti, beninteso. Stengers, in una formula in cui si incrociano il discorso di Latour e un'affermazione cruciale di Deleuze e Guattari, sembra dire: è tempo di fare in modo che gli Umani riconoscano che non sono responsabili dei Terreni, ma che sono soprattutto responsabili dinanzi ai Terreni. Non c'è negoziazione possibile senza quest'ammissione preliminare, e non si troverà un accordo essenziale con Gaia finché non ci si convincerà che non è possibile alcun accordo con la logica assolutamente non addomesticabile del capitalismo.

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Pagina 240

Uno dei dibattiti piú appassionanti attualmente in corso ruota intorno alla velocità della storia e alla sua variazione. Si tratta della divergenza tra la corrente filosofica (metafisica, politica, estetica) che propone un' economia politica dell'accelerazione e i partigiani di un' ecologia politica del rallentamento (ralentissement), su cui Isabelle Stengers insiste molto (2009, 2013b), e che si sviluppa con temi comuni a Latour quali l'"esitazione", l'"attenzione", la "diplomazia" e la necessità di "fare spazio agli altri" [faire la place aux autres].

Nel primo Manifesto accelerazionista citato in precedenza, gli autori fanno un'osservazione, a nostro avviso, di grande importanza:

Crediamo che la principale frattura della sinistra contemporanea sia quella che si è prodotta tra coloro che sono legati a una politica folk fatta di localismo, azione diretta e orizzontalità intransigente da un lato, e coloro che, al contrario, articolano ciò che possiamo chiamare una politica accelerazionista, che si sente a proprio agio [at ease with] nell'atmosfera di una Modernità definita dall'astrazione, dalla complessità, dalla globalità e dalla tecnologia. (Williams e Srnicek 2013: 3.1)


Per quanto ci riguarda, pensiamo che questa diagnosi sia, grosso modo, corretta: è proprio questa, di fatto, la frattura piú importante della "sinistra". Quello che consideriamo per niente corretto è, sia chiaro, l'ovvio giudizio di valore contenuto nel paragrafo e sviluppato nel Manifesto, secondo cui la prima opzione - tacciata di essere, in senso peggiorativo, una "politica folk del localismo" ecc. - è retrograda e conservazionista, mentre la seconda si configurerebbe come la sola capace di condurci in un paradiso post-industriale in cui i fusi non solo lavoreranno da soli, ma anche senza avere all'apparenza nessun impatto concreto; dopotutto, l'epoca si definisce in base all'astrazione. La Tecnologia provvederà.

Come abbiamo già detto, ci sembra che sia esattamente questa "politica accelerazionista", ispirata in modo esplicito all'escatologia eurocentrica del Progresso, a mostrarsi nostalgica di un passato razionalista, imperialista e trionfalista - "la sinistra deve connettersi nuovamente con le sue radici illuministe" (Srnicek, Williams e Avanessian 2014) -, come pure ci sembra che la persistenza della sua fede nelle virtù liberatrici dell'"automazione" e del progresso tecnico in generale richieda un gigantesco "punto cieco" situato proprio al centro della sua visione futurologica: precisamente, l'intrusione di Gaia.

I manifesti insistono sulle virtù dell'accelerazione tecnologica senza proferire parola sulle condizioni materiali - energetiche, ambientali, geo-politiche ecc. - di un tale processo che, pensano gli autori, condurrebbe "automaticamente" alla riduzione della giornata lavorativa (anche in Bangladesh? quando?), all'aumento del tempo libero (la società dello spettacolo esce allo scoperto!), al reddito universale ecc.:

Contrariamente a chi, nell'intero spettro politico, si diletta fantasiosamente con soluzioni locali, di piccola scala, alle nostre molteplici crisi, [pensiamo che la situazione] richieda di sottomettere il nostro mondo complesso, astratto e multiscalare a una re-ingegnerizzazione, senza cercare di semplificarlo attraverso un qualche schema precostituito. Al posto delle soluzioni politiche folk, dovremmo lottare per l'automazione integrale del lavoro, per la riduzione del numero dei giorni lavorativi, per il reddito minimo universale. (ivi)


Riguardo all' altra accelerazione, quella relativa ai processi di superamento dei valori critici dei parametri ambientali - quando raggiungeremo i +4°C, che forse saranno +6°C o +8°C? Quando esauriremo le scorte di pesci? Quando la foresta amazzonica si trasformerà in un'arida savana facilmente infiammabile? Quanti milioni di rifugiati climatici invaderanno la Fortezza Europa? -, essa viene menzionata in modo frivolo, per non parlare di puro e semplice negazionismo: "Oggi è senso comune presumere che il cambiamento climatico e i suoi effetti devasteranno l'ambiente..." (ivi; corsivo nostro).

Come direbbe Stengers, "i nostri sogni di liberazione ci contrappongono gli uni agli altri" (2013b: 124).

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