Autore Carlo Formenti
Titolo Utopie letali
SottotitoloContro l'ideologia postmoderna
EdizioneJaca Book, Milano, 2013, , pag. 256, cop.fle., dim. 15x23x2 cm , Isbn 978-88-16-41239-2
LettoreGiorgia Pezzali, 2014
Classe economia , economia politica , sociologia , politica , lavoro , movimenti












 

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Indice


Prefazione                                                           7


Parte prima   I DUE VOLTI DELLA CRISI                               11

Capitolo I    Finanziarizzazione                                    13

Capitolo II   Postdemocrazia                                        30


Interludio 1  PERCHΙ IL LIBERISMO Θ UN'IDEOLOGIA CRIMINALE          45


Parte seconda SULLA COMPOSIZIONE DI CLASSE                          63

Capitolo III  Americanismi                                          65

Capitolo IV   Aporie della moltitudine                              73

Capitolo V    Knowledge workers, freelance, Quinto Stato            87

Capitolo VI   Profili della classe operaia globale                 104


Interludio 2  CLASSE, STATO E PARTITO. RILETTURE                   123


Parte terza   LA POLITICA NELL'ERA DELLA CRISI DEL PARTITO         149

Capitolo VII  La deriva postideologica dei nuovi movimenti         151

Capitolo VIII Lotte e modelli organizzativi                        163

Capitolo IX   Le tentazioni liberali dei teorici
              dell'organizzazione orizzontale                      191


Interludio 3  IL DISINCANTO DELLA RETE                             199


Parte quarta  RIPENSARE LA TRANSIZIONE                             217

Capitolo X    Cinque motivi per tornare a discutere di transizione 219

1. Perché il capitalismo non muore da solo                         219
2. Perché il personale è politico, ma il politico non è personale  221
3. Perché i diritti non fanno la rivoluzione                       226
4. Perché dire né pubblico né privato è come dire privato          228
5. Perché è meglio farsi Stato che odiare lo Stato                 231

Conclusioni                                                        241

Bibliografia                                                       246
Indice dei nomi e dei luoghi                                       251


 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE



Utopie letali è un titolo spiazzante, che suscita curiosità e perplessità. Questo perché si tratta in qualche modo di un ossimoro, visto che siamo soliti associare un significato positivo alla parola utopia, usandola come sinonimo di sogni, desideri e speranze in un mondo migliore. Perché dunque affiancarle quell'aggettivo: letali? Eppure sappiamo che, a volte, le utopie producono effetti imprevedibili, se non catastrofici. Le destre, per esempio, ce lo ricordano continuamente, soprattutto dopo la caduta dei regimi socialisti dell'Est Europa: avete visto quanti orrori ha generato l'utopia comunista? Un ritornello che, in campagna elettorale, viene usato per proiettare un'ombra inquietante su una sinistra socialdemocratica che ha scontato da tempo i suoi peccati e che della parola comunista non ricorda nemmeno il significato, mentre, negli attacchi alle sinistre radicali, acquisisce il sapore di un esorcismo contro il vecchio spettro che non si decide a sparire. Le utopie letali con cui polemizza questo libro sono però di tutt'altro genere: anche queste sono utopie «di sinistra», ma hanno poco a che fare con l'utopia comunista che ancora spaventa il capitale; si tratta delle utopie di quelle sinistre «movimentistiche» postmoderne, postideologiche, postmateriali, postindustriali (l'elenco potrebbe andare avanti per pagine e pagine, ma ve lo risparmio) che hanno sostituito le velleità rivoluzionarie con il sogno di un crollo indolore del capitalismo che dovrebbe essere provocato da improbabili mutazioni della psicologia e dell'antropologia individuali, oppure dalle lunghe marce per i nuovi diritti, o dall'invenzione di «terze vie» che ci proiettino oltre la dicotomia fra pubblico e privato, oppure da tutto questo assieme e da altro ancora.

La lista delle ideologie chiamate in causa è lunga e, apparentemente, eterogenea: neo- e postoperaisti, neoanarchici, benecomunisti, girotondini, parte dei movimenti femministi, ecologisti e pacifisti; soggetti in cerca di riconoscimento identitario; entusiasti della democrazia di Rete; paladini dei nuovi diritti, ecc. Ho detto apparentemente eterogenea perché, in realtà, le schegge di questa galassia presentano molti tratti comuni: danno per scontata la necessità di «andare oltre» (non di ripensare criticamente) la storia e la cultura politica del Novecento (dopodiché rispolverano ideologie ottocentesche); sono antigerarchiche e antiautoritarie (ma si organizzano in piccole sette guidate da piccoli leader carismatici); sono più attente ai diritti personali e individuali che ai diritti sociali e collettivi; esaltano il ruolo democratizzante dei nuovi media (ignorando il fatto che sono stati ormai colonizzati da governi e corporation); hanno occhio solo per il lavoro immateriale di knowledge workers, creativi o per il lavoro autonomo (che scambiano per una nuova avanguardia politica e culturale, in barba all'incapacità di questi soggetti di esprimere coscienza antagonistica); rifiutano l'idea stessa di partito come organizzazione degli interessi di una parte sociale contro il «bene comune», alla quale sostituiscono vaghi modelli movimentistici; infine sono radicalmente «antistataliste», pretendendo di condurre la lotta contro la proprietà privata in nome di un concetto di bene comune proiettato «oltre il pubblico e il privato». La tesi di fondo che troverete nel libro che avete in mano è che tali caratteristiche attribuiscono a queste culture politiche un alto livello di contiguità con l'ideologia liberale che vorrebbero combattere. Sono utopie letali perché, invece di canalizzare l'energia antagonistica che abita in un corpo sociale martoriato da trent'anni di «guerra di classe dall'alto», la disperdono su obiettivi illusori o marginali e, quindi, indeboliscono le possibilità di ripartenza di una «guerra di classe dal basso».

Questa la pars destruens del libro, la parte propositiva si articola viceversa su quattro tesi di fondo che vengono argomentate in altrettante parti del libro:

1) la crisi in corso segna un mutamento irreversibile del modello di accumulazione capitalistica e ha provocato il definitivo divorzio fra democrazia e mercato, per cui oggi viviamo sotto regimi postdemocratici in cui gli interessi del capitale globale governano direttamente, senza mediazione politica, le nostre vite;

2) le nuove classi medie occidentali, che negli anni Novanta avevano accarezzato il sogno di un'economia della conoscenza e di un superamento pacifico del capitalismo, sono state letteralmente fatte a pezzi dalla crisi; in compenso, oggi assistiamo a una controtendenza alla concentrazione del proletariato globale che ha i suoi nuclei di condensazione nella classe operaia dei Paesi in via di sviluppo, e nei nuovi poveri dei Paesi occidentali, perciò il fronte di opposizione antagonistica al sistema capitalistico può e deve essere ricostruito a partire da lì;

3) le esperienze dei movimenti degli ultimi decenni insegnano che spontaneismo, orizzontalismo organizzativo e culturalismo (si parte dalle identità e non dall'appartenenza di classe) non pagano; occorre quindi tornare a riflettere sull'idea di partito come organizzazione antagonistica degli interessi di classe, un concetto che va tuttavia adeguato alle attuali condizioni di frantumazione delle soggettività, inventando nuove forme organizzative e nuove procedure decisionali;

4) il capitalismo non cade da solo, né possiamo illuderci che siano le richieste di diritti e riconoscimenti identitari a rovesciarlo, quindi non basta tornare a ragionare sul partito, occorre tornare a ragionare, con Gramsci, anche sul «farsi Stato» delle classi subordinate e sulla loro capacità egemonica, se si vuole gestire la transizione a una civiltà postcapitalistica.


Carlo Formenti

Lecce, settembre 2013

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Pagina 17

Fin qui la descrizione del fenomeno, ma quali le cause? Le risposte sono divergenti, anche da parte di chi adotta un punto di vista neomarxista. Anzi, in questo campo teorico, non tutti concordano nell'attribuire alla finanziarizzazione la responsabilità esclusiva o prevalente della crisi. Per alcuni, il fatto che essa abbia assunto forma finanziaria non dovrebbe distogliere l'attenzione dalle sue lontane radici strutturali, come la caduta del saggio medio del profitto, già in atto a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Ma la caduta del saggio medio del profitto è un fenomeno che richiede a sua volta spiegazione, per cui viene messo in relazione, di volta in volta, con l'aumento della composizione tecnica del capitale (secondo la classica tesi di Marx), con la saturazione dei mercati dei beni di consumo durevole, con l'aumento del costo delle materie prime, ecc. Altri puntano il dito sul calo dell'occupazione e sul conseguente indebolimento dei redditi delle classi subalterne, che ha determinato una crisi di sottoconsumo. Infine gli autori postoperaisti, dopo avere ricordato che la caduta del profitto negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo è stata il prodotto di un intenso ciclo di lotte operaie, e dell'impossibilità per il capitale di mantenere il controllo sulla forza lavoro fordista, sostengono che anche oggi sarebbe in atto un processo analogo, nel senso che la finanziarizzazione è lo strumento con cui il capitale tenta di fronteggiare i livelli di autonomia conquistati dal lavoro postfordista. Personalmente, ritengo che il rapporto fra finanzíarizzazione e crisi appaia in una luce più chiara ove osservato da una prospettiva di lungo periodo, come quella suggerita da Giovanni Arrighi e altri autori. Da questo punto di vista, la finanziarizzazione è un fenomeno ciclico che si ripresenta ogni volta che un certo modello di accumulazione capitalistica esaurisce la sua spinta propulsiva, e serve a gestire la fase di transizione verso un nuovo modello di accumulazione. Dal momento che il capitalismo non può sopravvivere senza riprodursi su scala allargata, e dal momento che tale riproduzione può assumere due forme: D-M-D' – dove D sta per l'investimento iniziale in capitale fisso e forza lavoro, M per le merci prodotte, D' per il plusvalore generato dal processo produttivo – e D-D' – che consiste nella produzione di denaro a mezzo di denaro, nelle rendite generate da investimenti speculativi –, è chiaro che quando il percorso D-M-D' si inceppa – come è successo quando il modello di accumulazione fordista è entrato in crisi – la finanziarizzazione diventa una scelta obbligata. Detto altrimenti: quando la produzione non genera più una quantità sufficiente di profitto, il profitto tende a trasformarsi in rendita.

Prima di analizzare le implicazioni di queste analisi sul piano della ridefinizione dei rapporti di forza fra capitale e lavoro, e prima di affrontare il tema della lotta di classe nell'era della finanziarizzazione, è tuttavia il caso di esaminare brevemente il punto di vista neokeynesiano sulla crisi. Paul Krugman , uno degli esponenti più noti di tale scuola, è ferocemente critico nei confronti delle politiche economiche adottate da Stati Uniti ed Europa per affrontare la sfida. La sua diagnosi è semplice: la depressione in atto è l'effetto di una domanda insufficiente – e importa relativamente stabilire che cosa abbia provocato il calo della domanda – e, se i governi la smettessero di attuare disastrose politiche di austerità per imboccare la via degli stimoli, potremmo ottenere una rapida ripresa. Per Krugman, la descrizione che Keynes aveva fatto della crisi del 1929 – definendola una cronica condizione di attività al di sotto della norma senza che si manifestassero tendenze alla ripresa – si adatta perfettamente anche alla crisi iniziata nel 2007, per cui anche le ricette che Keynes aveva indicato per risolverla restano valide. Invece i governi di Stati Uniti ed Europa vanno nella direzione opposta: tagliano la spesa pubblica, annullano investimenti che avrebbero potuto apportare benefici futuri, sono ossessionati dalla crescita del debito pubblico e dai pericoli di inflazione, invitano i lavoratori a tirare la cinghia e i consumatori a risparmiare. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: calano redditi e consumi, quindi calano anche produzione e investimenti, in una spirale che sembra non avere fine. Per uscire dallo stallo non c'è che una soluzione: visto che i debitori cercano di risparmiare per pagare i propri debiti, occorre che qualcuno faccia il contrario per rilanciare l'economia, e quel qualcuno non può essere che il governo, il che significa accettare un tasso di inflazione più alto e aumentare la spesa pubblica mettendo da parte l'ossessione del debito. I politici sanno quali sono gli strumenti con cui potrebbero porre fine alla crisi, per cui non hanno scuse. Ma se nessun governo imbocca la via indicata da Krugman – che pure sembra dettata dal buon senso –, allora vuol dire che le cose sono più complicate di quanto pensi l'economista americano. Il fatto è, come vedremo nelle prossime pagine, che la politica economica non è governata dal buon senso, bensì dagli interessi di classe.


***



La transizione dal ciclo D-M-D' al ciclo D-D' non cambia il presupposto su cui si basa il processo di accumulazione capitalistico: per sostenersi, tale processo deve potersi espandere all'infinito e, nel caso del ciclo finanziarizzato, l'espansione deve progredire a un ritmo più accelerato. Poco sopra ho affermato che questa iperaccelerazione non si sarebbe potuta innescare senza le politiche di deregulation. In questo nuovo paragrafo, cercherò di dimostrare che queste politiche rappresentano l'inizio di una vera e propria controrivoluzione: il liberal-liberismo – che dopo la caduta dei regimi socialisti ha rapidamente conquistato un'egemonia politica e culturale incontrastata – non è solo una rappresentazione ideologica della realtà: è l'arma strategica di una vera e propria guerra che il capitalismo globale ha dichiarato contro le classi subordinate di tutto il mondo, con l'obiettivo di distruggere i rapporti di forza che queste avevano acquisito fra la fine della seconda guerra mondiale e l'inizio degli anni Settanta. Descrivendo questa controffensiva del capitale, Luciano Gallino parla di «lotta di classe dall'alto» — immagine che trovo particolarmente azzeccata in quanto mette in rilievo l'unidirezionalità del conflitto. Infatti, le socialdemocrazie occidentali — dopo avere gestito per decenni il compromesso fra capitale e lavoro — non solo avevano scordato la teoria della lotta di classe, ne avevano dimenticato persino il lessico; la contrattazione sindacale su salari, orari di lavoro e condizioni di vita in fabbrica, e la capacità dei partiti di sinistra di strappare continui miglioramenti dello Stato sociale avevano mandato in pensione ogni velleità antagonista. Finché a riscoprire l'antagonismo ci ha pensato il capitale, non appena sono entrati in crisi sia il modello produttivo fordista sia il modello keynesiano di ridistribuzione dei redditi. Stabilire se a provocare la svolta siano stati la saturazione del mercato dei beni di consumo durevole, l'aumento della composizione organica del capitale, le richieste operaie di redditi sganciati dalla produttività, la crisi fiscale dello Stato o, come è più probabile, gli effetti combinati di questi e altri fattori, importa fino a un certo punto: ciò che importa è che, nel momento in cui il capitale ha imboccato la strada della finanziarizzazione, la civiltà del welfare è tramontata, sostituita dalla lotta di classe dall'alto — mentre sindacati e sinistre si dimostravano del tutto incapaci di reagire e di riacquistare a loro volta la volontà e la capacità di sostenere una lotta antagonista.

[...]

Consideriamo, infine, le «riforme» del diritto del lavoro che avanzano a ritmo serrato in tutti i Paesi occidentali perseguendo più o meno gli stessi obiettivi:

1) abbattere il potere di contrattazione dei lavoratori attraverso l'attacco ai contratti collettivi e alla presenza del sindacato in fabbrica;

2) ridurre le tutele nei confronti di disoccupati e sottoccupati;

3) promuovere forme contrattuali che favoriscono la precarizzazione, la flessibilizzazione e l'intermittenza del lavoro;

4) tagliare e ridurre le pensioni, aumentando nel contempo l'età pensionabile, ecc.

Rompere la «rigidità» delle vecchie forme del lavoro, si sostiene, offrirebbe nuove opportunità di impiego a giovani e donne, e la riforma del welfare consentirebbe di estendere a nuovi strati sociali le tutele fino ad ora monopolio di minoranze. Si tenta così di approfondire le divisioni interne alle classi lavoratrici: garantiti contro precari, anziani contro giovani, donne contro uomini, autoctoni contro migranti, ecc. In particolare, vengono lanciate continue, martellanti campagne propagandistiche in merito all'insostenibilità economica e all'ingiustizia sociale dei «privilegi» goduti dalle minoranze di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, ancora tutelati da contratti collettivi di lavoro e dai residui del welfare. Ma finora queste politiche non hanno prodotto l'aumento dell'occupazione giovanile e femminile, né hanno dato vita a forme più eque di welfare; al contrario, il loro effetto è stato l'universalizzazione della miseria, il livellamento generalizzato verso il basso dei redditi e delle condizioni di vita.

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Il vizio di curare la malattia con dosi massicce dello stesso farmaco che l'aveva causata non è tuttavia una prerogativa spagnola. Né è frutto di stupidità politica, come sembrano pensare i neokeynesiani alla Krugman: l'economia del debito è piuttosto iscritta nella logica stessa della crisi finanziaria. Lo spiega bene Franηois Chesnais , ricostruendo i passaggi storici che hanno condotto alla situazione attuale. Ancor prima della svolta imposta da Reagan e Thatcher, argomenta, la City di Londra aveva avviato – fra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta – un processo di accumulazione finanziaria attraverso la creazione di un mercato del prestito deregolamentato. Dopo la recessione petrolifera degli anni 1974-1976, i depositi della City si sono ulteriormente gonfiati grazie all'accesso di enormi masse di petrodollari. A quel punto le grandi banche, già incamminate verso la fusione di ruoli fra banca commerciale e banca di investimento, iniziano a consorziarsi e a cercare sbocco al surplus di capitale così accumulato investendo in prestiti ai Paesi poveri. Perciò, a partire dall'inizio degli anni Ottanta, si assiste, da un lato, alla crescita dei debiti pubblici, dall'altro lato, al fatto che i nuovi redditi da capitale, invece di alimentare investimenti produttivi e consumi, vengono reimmessi a ciclo continuo nel mercato finanziario, generando forme di investimento ad alto rischio, fra cui i subprime nati dalla cartolarizzazione dei crediti immobiliari e ipotecari. Il gioco consiste nel «ridistribuire il rischio», scaricandolo sulle spalle di altre banche e fondi di investimento. Finché, quando è esplosa la bolla immobiliare, le banche si sono trovate impigliate nella trappola che loro stesse avevano architettato. Invece di lasciarle fallire, i governi sono intervenuti per salvarle, svuotando ulteriormente le loro casse, già prosciugate da decenni di tagli alle tasse per i ricchi. In questo modo il circolo vizioso dell'economia del debito si chiude:

1) gli Stati socializzano le perdite delle banche scaricandole sui cittadini;

2) il debito pubblico aumenta;

3) le stesse banche che hanno provocato il disastro trovano nuove opportunità di profitto finanziandolo;

4) infine, per evitare che il debito salga fino a configurare rischi di default, pretendono, e ottengono, misure ancora più draconiane in tema di tagli a salari, pensioni e servizi pubblici.

Per tamponare il disastro, governi e mercati ci chiedono di stringere la cinghia. Commentando duramente gli inviti all'austerità che i governi rivolgono ai cittadini, chiedendo loro di rinunciare alla pretesa di vivere «al di sopra dei propri mezzi», e di onorare i debiti, Chesnais scrive che ciò che viene fatto passare per una «legge» di mercato altro non è se non servitù volontaria dei politici nei confronti della finanza. Ma non mancano altri complici: dai media, univocamente schierati a sostegno del dogma liberistico-monetarista, alla stragrande maggioranza degli economisti, impegnati a diffondere menzogne che spacciano per «scientifiche». Esemplare, a tale proposito, il caso di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff: i due – in uno studio del 2010 che intendeva legittimare la tesi della necessità di ridurre il debito pubblico per rilanciare l'economia – hanno teorizzato l'esistenza di una stretta correlazione fra livello del debito e crescita, sostenendo che, quando il rapporto debito/PIL di un Paese supera il 90%, il rischio di recessione è inevitabile. Peccato che alcuni studenti di economia dell'Università del Massachusetts-Amherst abbiano dimostrato che i calcoli statistici su cui si basava la tesi erano sbagliati e che, una volta corretto l'errore, si ottiene tutt'altro risultato: i Paesi oltre il 90% crescono in media del 2,2%. In ogni caso, a chiudere qualsiasi discussione basterebbe l'evidenza empirica degli effetti devastanti che la «cura» dell'austerità ha provocato nei Paesi più colpiti dalla crisi. Il risultato dei tagli selvaggi che la Comunità Europea ha imposto alla Grecia, per esempio, è stato che, oltre ad aggravare la recessione, e ad abbattere i livelli di occupazione e di reddito al punto da ridurre letteralmente alla fame larghi strati di popolazione, il debito greco è schizzato in soli tre anni dal 129% al 170%. Ma anche negli altri Paesi «curati» con l'austerità, come perfino il FMI ha finito per ammettere, il risultato è lo stesso: consumi e occupazione calano, mentre il PIL crolla a sua volta, peggiorando il rapporto con il deficit e il debito pubblico. Inoltre il combinato delle politiche di austerità e della deregulation finanziaria induce le banche a ridurre l'offerta di credito alle imprese. Queste ultime, infatti, in un contesto di contrazione della domanda aggregata, possono offrire meno garanzie, per cui le banche non solo concedono meno prestiti, ma tendono a concederli esclusivamente alle grandi imprese.

Come si giustifica, allora, l'ostinazione con cui si insiste a percorrere la via dell'austerità? Il fatto è che, per quanto le politiche di austerità rischino di costituire un rimedio peggiore del male, esse rappresentano una soluzione obbligata per la coalizione di politica e finanza che governa l'economia globale, perché l'alternativa rappresentata dal ritorno a strategie espansive di tipo keynesiano è incompatibile con il modello di accumulazione fondato sulla speculazione finanziaria. Riflettendo su questa contraddizione apparentemente senza via di uscita, c'è chi ne trae l'ottimistica — s'intende dal punto di vista marxista — conclusione che della crisi non esiste altra soluzione se non la transizione a una società postcapitalistica. La crisi del 1929 è stata risolta con il New Deal, vale a dire grazie all'avvento di una governance politica e sociale che ha favorito la transizione verso un nuovo modello di accumulazione; oggi nulla del genere sembra possibile, perciò, se il processo di finanziarizzazione non è in grado di garantire l'espansione illimitata dei mercati, il futuro può riservarci solo un aumento costante di conflittualità sociale, governabile solo con continui ricorsi allo Stato di eccezione. «La crisi», scrive per esempio Andrea Fumagalli , «diventa strumento di governance e quindi è crisi perenne, la crisi diventa norma». Ci troviamo dunque di fronte a una crisi senza fine? Abbiamo finalmente raggiunto la tanto agognata — sempre dal punto di vista marxista — «fase terminale» del capitalismo? Personalmente ritengo che questa diagnosi sia troppo ottimistica. Il capitalismo ha sempre dimostrato una straordinaria energia vitale, fondata tanto sulla sua formidabile capacità di adattarsi rapidamente a inediti contesti sociali, culturali politici e tecnologici, quanto sulla violenza distruttiva che non ha mai esitato a mettere in atto ogni volta che ha dovuto lottare per sopravvivere. Non mi sento quindi di escludere che il capitalismo riesca a uscire dal vicolo cieco inventandosi un secondo New Deal, oppure qualcosa di simile alla Grande Trasformazione descritta da Karl Polanyi , allorché lo Stato salvò da se stesso un capitalismo ottocentesco divorato dalle pulsioni autodistruttive dell'utopia liberista. Difficile? Forse, ma non impossibile. Né andrebbe dimenticato che, dalla crisi del 1929, non si uscì solo grazie al New Deal, ma anche e soprattutto grazie alla seconda guerra mondiale, che rimise in moto il processo di accumulazione grazie all'olocausto di milioni di vite umane: le transizioni fra i «grandi secoli» della storia del capitalismo non sono mai state pranzi di gala. Ciò detto, condivido l'idea che quella attuale sia una crisi «senza fine», sia perché non è immaginabile un ritorno al modello di accumulazione novecentesco, sia perché le classi subalterne non potranno riconquistare rapporti di forza accettabili senza tornare a praticare forme di lotta antagonistiche, sia perché le sue proporzioni sono effettivamente tali da configurare la possibilità (non la necessità!) di una svolta di civiltà. Ma perché ciò diventi nuovamente pensabile dopo il crollo delle «sinistre reali», occorre riaprire il confronto su composizione di classe, organizzazione politica e forme della possibile transizione a una civiltà postcapitalistica. Θ quello che cercherò di fare nelle tre parti che seguono.

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Un autore che abbiamo già incontrato nella Parte prima, il sociologo Luciano Gallino , è fra coloro che con maggiore energia hanno rivendicato la necessità di recuperare la nozione «tradizionale» di classe. Chi afferma che le classi non esistono più, sostiene Gallino, confonde l'esistenza con la visibilità. Detto altrimenti: che i partiti della sinistra tradizionale abbiano rinnegato la loro natura di classe, né intendano più rappresentare interessi di classe ma si proclamino difensori del «bene comune», e che, come abbiamo argomentato poco sopra, il lessico della lotta di classe sia stato oggetto di una «pulizia etnica» che lo ha cancellato dalla neolingua liberista, non implica che le classi in quanto realtà oggettiva, per il semplice fatto che non vengono più nominate, siano sparite. Accantonando il paradigma postmoderno in sociologia, Gallino torna quindi a prendere in considerazione la distinzione marxiana fra classe in sé e classe per sé: non si appartiene a una classe sociale solo se, come sostengono Aronowitz e altri, «si pensa» di appartenervi, bensì quando si appartiene a una comunità di destino e se ne subiscono le conseguenze in termini di reddito, qualità della vita e chance di mobilità sociale. Le utopie liberal-liberiste si alimentano da sempre del mito del self-made man – in nome del quale contrappongono alle pretese egualitarie e redistributive della sinistra un ideale di giustizia sociale fondato sulla promessa di garantire «pari condizioni di partenza» nella gara per dare la scalata alla gerarchia sociale; ma l'evidenza empirica dimostra come, negli ultimi decenni e nei Paesi occidentali che più coltivano l'ideologia della mobilità, l'appartenenza a una determinata classe – definita in termini oggettivi di risorse disponibili – sia divenuta ereditaria quasi quanto lo sono le appartenenze di casta in India. Una chiusura che la crisi sta rendendo ancora più ermetica, nella misura in cui riduce drasticamente quelle risorse – come l'accesso all'università e ad altre componenti del welfare – che in passato offrivano qualche limitata chance di fuga verso l'alto ai membri delle classi inferiori.

Se l'esistenza delle classi in sé è un dato di fatto che può essere negato solo attraverso barocchi funambolismi ideologici, il discorso sulla classe per sé evoca problematiche più complesse. Gallino lo affronta con efficacia laddove analizza il compattamento delle classi dominanti protagoniste di quella «lotta di classe dall'alto» che, a partire dalla controrivoluzione liberal-liberista degli anni Ottanta, ha completamente ridisegnato i rapporti di forza fra alto e basso nelle nostre società. In particolare, descrive bene il processo di integrazione fra capitale finanziario e imprese multinazionali e la convergenza fra potere politico ed economico, favorita dall'aumento dei costi della politica e dal conseguente potere di ricatto delle lobby. Al tempo stesso, dimostra come questo processo di integrazione sia andato di pari passo con la scomposizione del proletariato globale, con il moltiplicarsi delle divisioni prodotte dalla stratificazione delle condizioni di lavoro, reddito e vita (un risultato ottenuto soprattutto grazie allo sfruttamento della forza lavoro dei Paesi emergenti, che ha permesso di peggiorare le condizioni dei lavoratori dei Paesi ricchi) e infine con le divisioni fra lavoro qualificato e non qualificato, rese più acute dai processi di ristrutturazione tecnologica e dal progredire della New Economy. Tuttavia non basta prendere atto di questo processo di scomposizione: per interrogarsi sulle possibilità di riattivare un controprocesso di aggregazione dal basso, di ricostruzione del proletariato globale come classe per sé, occorre «leggerne» la frantumazione in termini di composizione politica: quali strati esprimono i livelli più avanzati di autoconsapevolezza e antagonismo, come e in quale misura è possibile trasformarli in nuclei di condensazione di nuove forme di organizzazione politica? Sono domande cui tenterò di rispondere nei prossimi capitoli.

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Si tratta di un salto logico che deve non poco alle polemiche dei teorici liberal della New Economy nei confronti della proprietà intellettuale. Una polemica che viene da lontano, se è vero che già nel XIX secolo l'ala più radicale del pensiero liberista aveva assunto una linea «abolizionistica» nei confronti di copyright e brevetti , in quanto sosteneva che la libera circolazione di informazione e conoscenze fosse una condizione indispensabile per accelerare l'innovazione e, quindi, per aumentare la ricchezza sociale. Nelle visioni neoschumpeteriane di autori come il già citato Benkler e Lawrence Lessig queste idee tornano di attualità in riferimento allo scontro che oppone oggi, da un lato, le vecchie industrie culturali, dall'altro lato, l'industria hi tech e le Internet company. In quella «economia immateriale dell'abbondanza» che la rivoluzione digitale avrebbe reso possibile, argomentano questi autori, la proprietà intellettuale diviene un inutile ingombro. Per sfruttare meglio le opportunità che le pratiche innovative di massa dei prosumer interconnessi via Internet dischiudono per le imprese innovative, occorre rimuovere ogni ostacolo giuridico: le masse devono potersi appropriare liberamente dei servizi e dei prodotti immateriali che circolano in Rete, perché dal loro lavoro di remixaggio dei «regali» così ottenuti scaturisce la materia prima dei processi di valorizzazione dei giganti della Net Economy (le varie Amazon, Google, Facebook, Apple, ecc.). Ecco perché autori che non nascondono minimamente la loro fedeltà ai valori del capitalismo si impegnano in una battaglia «progressista» contro i continui inasprimenti delle leggi a tutela del copyright; inasprimenti che denunciano come odiose pratiche di enclosure ai danni dei commons immateriali, simili a quelle che proprietari terrieri e protocapitalisti inglesi, tra fine Seicento e Settecento, misero in atto ai danni del demanio delle comunità locali (non a caso, Karl Polanyi è uno degli autori più citati negli ultimi anni). Altrove ho cercato di svelare la mistificazione incorporata nelle tesi di questi ideologi «progressisti» e liberal impegnati nella battaglia contro la proprietà intellettuale: il loro reale obiettivo consiste nel favorire l'ascesa dei settori della New Economy che si alimentano del lavoro gratuito di enormi masse di utenti consumatori, i quali si offrono inconsapevolmente in olocausto alla più poderosa macchina di sfruttamento (e di egemonia culturale) che il capitalismo abbia mai messo in atto. Ma invece di riflettere su tale aspetto, i teorici postoperaisti preferiscono interpretare la geniale ritirata strategica del capitalismo digitale sul fronte del copyright come una «resa» nei confronti di pratiche di massa che prefigurerebbero l'ascesa di un'economia dei beni comuni. André Gorz , per esempio, sostiene che l'«economia dell'abbondanza» digitale tende spontaneamente verso un'economia della gratuità, per cui si potrebbe affermare che il capitalismo immateriale e cognitivo coincide con la crisi del capitalismo tout court. Il capitalismo postmoderno si troverebbe insomma costretto a imboccare suo malgrado la strada dell'economia dei beni comuni, a compiere una scelta obbligata quanto ad alto rischio, visto che lascia balenare la possibilità di transitare, in modo più o meno indolore, verso un'economia postcapitalistica. In questo modo, le tesi dei piazzisti del capitalismo digitale vengono integrate – e nobilitate – in un discorso pseudomarxista: dalle bubbole sul tramonto dell'economia della scarsità alla favola di un capitalismo a corto di idee e di capacità di controllo, che sopravvivrebbe parassitando la cooperazione produttiva spontanea dei soggetti in Rete.

A questo punto disponiamo degli elementi necessari a comprendere il senso del concetto di moltitudine. Se produzione biopolItica significa messa al lavoro della vita stessa, mercificazione/valorizzazione delle pratiche quotidiane di vita, della comunicazione e del linguaggio, della sfera delle relazioni affettive e di cura, delle stesse singolarità iscritte nel corpo e nella mente di ogni soggetto vivente; se si pensa che il luogo centrale di questa appropriazione capitalistica non sia più la fabbrica (non che non sia più solo la fabbrica, il che sarebbe condivisibile, ma che tale luogo, in barba ai miliardi di operai cinesi, indiani, brasiliani, ecc., sia oggi politicamente e culturalmente marginale), bensì la Rete in quanto ambiente e forma della cooperazione produttiva libera e spontanea, è evidente che la condizione lavorativa in quanto tale perde rilievo ai fini della definizione delle identità individuali e collettive: il lavoro, già «rifiutato» negli anni Sessanta e Settanta, viene ora fatto sparire con un tocco di bacchetta magica. Restano una miriade di individualità (ma nel lessico postoperaista si preferisce definirle singolarità) che, benché siano ancora oggetto di espropriazione da parte del capitale, non possono più essere organizzate, comandate, controllate da quest'ultimo. Queste masse di individui disaggregati manifestano la loro presenza politica nel mondo con modalità imprevedibili e intempestive, come folle che si coagulano improvvisamente per ottenere determinati obiettivi, paragonabili a sciami di cavallette che piombano inattese a devastare un territorio. Si tratta dunque di un'entità molteplice, indefinita, politicamente irrappresentabile; un'entità, sostengono i teorici postoperaisti, che non può essere integrata nemmeno nella tradizionale categoria di popolo che, per quanto generica, era ancora definita da una serie di caratteristiche storico-politiche e geoculturali, da confini nazionali, lingua e repertori condivisi di narrazioni; cioè da un insieme di fattori che, come argomentano Negri e Hardt in Impero , appaiono oggi depotenziati dai processi di globalizzazione e dalla messa in mora del principio di sovranità nazionale. In un certo senso (anche se ciò non sarebbe gradito agli inventori del concetto), potremmo dire che la moltitudine è una sorta di «grado zero» del popolo, una sommatoria di singolarità sottratte al contenitore nazione che le unificava sotto il segno universalizzante della cittadinanza.

Se questo è il nuovo orizzonte dell'antagonismo, perché continuare ad arrovellarsi sul concetto di composizione di classe? Eppure il termine non è stato accantonato. Al contrario, nelle elaborazioni postoperaiste più recenti, esso gode di un inatteso revival. In un articolo dedicato alle stratificazioni di potere e di reddito determinate dalle appartenenze di razza e di genere, per esempio, si mette giustamente in rilievo come i movimenti politici fondati su tali appartenenze tendano a degenerare nella politica della contrapposizione identitaria, nel biologismo e nelle «dialettiche del riconoscimento», e se ne conclude che, senza riferimenti di classe, tali esperienze non possono ambire ad alcuno sbocco antagonistico. Ma di che classe stiamo parlando? Cacciata dalla porta, la classe rientra dalla finestra in forme inedite: non come classe in sé, di cui si decreta l'inesistenza, bensì come classe per sé, o meglio, come fantasma della classe per sé, cioè come costrutto culturale, operazione nominalistica. Non trovo infatti altro modo di definire le «quattro figure soggettive primarie» che, nel libro Questo non è un manifesto, Negri e Hardt elencano come potenziali soggetti di ribellione o addirittura come nuove figure del potere: l'indebitato, il mediatizzato, il securizzato e il rappresentato. Θ evidente che qui non si parla di sostantivi bensì di attributi, non si parla cioè di soggetti sociali bensì di caratteristiche ad essi riferibili che vengono elevate a soggetto; tuttavia – anche mettendo fra parentesi le perplessità filosofiche nei confronti di tale capriola postmodernistica – resta l'insostenibilità empirica dell'operazione: il debito, per esempio, è una condizione comune a differenti strati di classe, alcuni dei quali lo assumono come terreno di lotta, mentre altri lo vivono come colpa individuale, maledizione divina, più che come fonte di rabbia e di rivolta; la pervasività dei media, vecchi e nuovi, viene sfruttata come strumento di mobilitazione da parte di minoranze organizzate, mentre nella maggioranza dei casi agisce come veicolo di un «obbligo a esprimersi» che il potere impone alla gente, per bombardarla di informazioni manipolatorie o irrilevanti, alimentare illusioni di partecipazione e, soprattutto, per affondare i tentacoli del controllo in ogni anfratto del corpo sociale; le procedure e le tecniche di securizzazione, con il loro potere di limitare mobilità e libertà, funzionano perché il potere ottiene il consenso di una parte delle masse, terrorizzate dalla «violenza» di chi si ribella contro le conseguenze della crisi; infine il rifiuto della rappresentanza si manifesta come astensione/rifiuto nei confronti di ogni attività politica, oppure come adesione a movimenti populisti di destra, piuttosto che come sperimentazione di nuove forme di democrazia diretta e partecipativi. Detto altrimenti: soggetti di ribellione possono diventare quegli strati di classe che vivono in modo politicamente consapevole le quattro contraddizioni sopra descritte, non le «figure» che definiscono tali contraddizioni. Siamo quindi di fronte a una distorsione prospettica che si ripresenta in un articolo di Andrea Fumagalli, dedicato al tema della precarietà. Fumagalli scrive – e ciò è condivisibile – che la sfera della precarietà non si limita all'ambito della condizione lavorativa, ma proietta la sua ombra sull'intera esistenza, è divenuta una condizione esistenziale per moltissime persone. Aggiunge poi – e anche questo mi trova d'accordo – che la condizione precaria non definisce una classe precaria, perché non dà luogo a un processo di presa di coscienza, in quanto gli effetti di tale condizione sono individualismo, senso di colpa e di impotenza, stress, depressione, ecc. A questo punto, ci si aspetterebbe la conclusione che il passaggio dalla sofferenza alla presa di coscienza non si dia individualmente né spontaneamente, ma solo collettivamente e attraverso l'organizzazione politica. Invece Fumagalli, partendo dalla constatazione che il biocapitalismo è capace di indurre l'interiorizzazione del conflitto, conclude che la presa di coscienza o è autocoscienza o non è. Così il cerchio dell'ideologia postmoderna si chiude: la parabola dell'operaismo, partita dalla valorizzazione della soggettività operaia ai fini della determinazione dell'identità di classe, e passata attraverso la rimozione delle identità oggettive, approda a una soggettività che non si sostanzia in pratiche e comportamenti collettivi, bensì in percorsi di «autocoscienza»; approda, cioè, alla psicologizzazione del conflitto.

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La seduzione che questa breve stagione ha esercitato nei confronti degli intellettuali di sinistra è riconducibile soprattutto alle critiche che questi soggetti sociali rivolgevano al sistema della proprietà intellettuale, cui opponevano la cultura dei commons digitali. Esperienze come quelle delle comunità del software open source e dei redattori di Wikipedia, presentate da Yochai Benkler e altri come embrioni di una nascente «economia del dono», sembravano configurare la possibilità di una «terza via», alternativa a capitalismo e socialismo, così come inducevano a rimuovere la stridente contraddizione che caratterizza tale cultura, la quale, da un lato, esalta la condivisione delle conoscenze e la cooperazione sociale mediata dalla Rete; dall'altro lato, appare in totale continuità con l'etica individualistica del self-made man, con il mito americano che attribuisce al mercato — a condizione che le sue «leggi» siano libere di operare senza l'interferenza di monopoli privati e politiche pubbliche — la capacità di offrire a tutti pari opportunità di successo e di premiare i meritevoli. In effetti, solo la rimozione di questa contraddizione ha consentito agli intellettuali postoperaisti di attribuire a questi lavoratori il duplice ruolo di avanguardie tecnologiche e politiche. L'autonomia e il potere di controllo sulla produzione (del tutto illusorie!) che le comunità interconnesse dei knowledge workers sembravano avere accumulato a spese del comando capitalistico suggerivano la possibilità di un rovesciamento dei rapporti di produzione che sarebbe avvenuto con modalità analoghe a quelle della transizione settecentesca fra un Ancien Régime già decomposto e una società borghese già compiutamente dispiegata.

Queste illusioni sono state spazzate via dalle due crisi globali che si sono intrecciate nel primo decennio del nuovo secolo. Il «popolo della Rete» — la forza lavoro delle startup e delle dot.com che si era autocandidata a classe dirigente negli anni Novanta del secolo scorso — è stato fatto a pezzi da licenziamenti di massa, drastiche riduzioni di salari e redditi, blocco della mobilità e declassamento professionale. Milioni di posti di lavoro sono stati cancellati dall'evoluzione del software e dalle pratiche di outsourcing verso i Paesi in via di sviluppo, mentre le aspirazioni delle poche startup sopravvissute si riducevano alla speranza di essere acquistate da uno dei quattro colossi (Google, Apple, Amazon, e Facebook) che oggi si disputano il controllo sui mercati della New Economy, a coronamento del più rapido e radicale processo di concentrazione monopolistica della storia del capitalismo. Così i rapporti di forza dei knowledge workers si dissolvevano come neve al sole, mentre la libertà di cambiare datore di lavoro ogni pochi anni o mesi lasciava il posto alla disperata ricerca di un posto qualsiasi, anche a costo di accettare salari e condizioni di lavoro molto peggiori, se non il declassamento nel terziario arretrato, negli inferi delle grandi catene commerciali a fianco dei migranti. Il che non ha impedito ai guru dell'economia digitale di riprendere a intonare i loro peana a mano a mano che le piattaforme del Web 2.0 (blog, social network, wiki, ecc.) arruolavano – e mettevano al lavoro gratuito! – centinaia di milioni di prosumer. Solo che, nel frattempo, gli «eroi» delle loro narrazioni erano cambiati: non più le élite di hacker e nerd, bensì le masse impegnate nella creazione di «contenuti autoprodotti» (testi, video, notizie, foto, file musicali, ecc.), cioè di quelle conoscenze e informazioni che funzionano da semilavorati dei processi di valorizzazione del capitalismo digitale. La facilità con cui il capitale è riuscito a distruggere i rapporti di forza dei «creativi» – per far fuori l'operaio massa era servito ben altro! – suona come una tragica smentita della tesi che attribuisce al lavoro cognitivo un alto grado di autonomia: la verità è che, come ricorda Loris Caruso in un suo saggio10, solo il 30% di questi lavoratori è dotato di competenze e livelli di autonomia significativamente superiori a quelli del lavoro fordista, mentre a tutti gli altri vengono richieste competenze applicative e contestuali, più che sufficienti a eseguire routine predeterminate dal software. Considerazione, quest'ultima, che ci introduce alla discussione sul secondo fenomeno cui facevo riferimento qualche pagina sopra: l'evoluzione del ruolo dell'università.

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In tale contesto, l'attacco all'università di massa nata nella seconda metà del secolo scorso si sviluppa secondo quattro direttrici:

1) drastica riduzione delle risorse disponibili e della qualità delle conoscenze trasmesse;

2) reintroduzione di dispositivi selettivi che riservano i livelli di istruzione più elevati alle élite;

3) privatizzazione;

4) sfoltimento degli iscritti per neutralizzare il ruolo dell'università come luogo di concentrazione di una «classe pericolosa».

Analizziamo ora le singole fasi del progetto.

Dequalificazione. Tutte le «riforme» attuate negli ultimi anni – vedi l'introduzione del sistema tre più due in Italia – sono parse finalizzate alla «licealizzazione» dell'università, cioè all'obiettivo di formare forza lavoro dotata di competenze tecniche o linguistiche di base funzionali a un mercato del lavoro che richiede quote decrescenti di competenze di livello elevato. Significativa, in tal senso, la scelta americana di attivare scuole tecnologiche a orientamento informatico della durata di sei anni – che incorporano media superiore e primo biennio universitario – destinate a formare sviluppatori di applicazioni per social network e sistemi operativi di smartphone e addetti all'assistenza online per utenti hardware e software; non meno significativi i ripetuti inviti del governo «tecnico» di Mario Monti, che ha guidato l'Italia nel 2012, affinché i giovani scegliessero percorsi formativi meno ambiziosi, accantonando i sogni di carriera universitaria. Selezione di classe. I continui e cospicui aumenti delle tasse di iscrizione – in Inghilterra sono state addirittura triplicate da un anno accademico all'altro – hanno lo scopo evidente di rigerarchizzare l'università, riservandone l'accesso ai rampolli delle classi dominanti. Al tempo stesso appaiono funzionali a rimpinguare le casse di istituzioni che si comportano sempre più – anche quando restano pubbliche – come imprese private. Passiamo così alla voce privatizzazione – processo che negli Stati Uniti appare ormai compiutamente realizzato, con il capitale privato che finanzia e orienta la ricerca universitaria e l'università che sforna brevetti e know how per le imprese, quando non provvede lei stessa a fare impresa grazie al meccanismo degli spin off, cioè attraverso la creazione di startup da parte di docenti, ricercatori e studenti che sfruttano sul mercato i risultati delle ricerche svolte in università. Per tacere delle università for profit che vendono formazione come un qualsiasi altro prodotto, contribuendo ad alimentare (vedi Parte prima) la bolla del debito studentesco. A causa dei fenomeni appena descritti il numero delle matricole è in calo significativo in molti Paesi occidentali, mentre governi, media e imprese invitano a risolvere il problema trasferendo la formazione universitaria dalle aule alla Rete: í corsi online, si dice, costano meno, sono più adatti alla mentalità di una Net Generation abituata a costruire il proprio capitale intellettuale attraverso Internet e poco disposta a sorbirsi noiose lezioni frontali. Arriviamo così al quarto e ultimo obiettivo: desertificare l'università. Si tratta di compiere un'operazione analoga a quella che ha portato allo smantellamento della fabbrica fordista; si tratta, cioè, di sterilizzare un luogo di concentrazione di forze antagonistiche – un'operazione che per il capitale appare tanto più urgente quanto più le lotte studentesche assumono la natura di lotte contro la disoccupazione e il precariato giovanili. Alla massificazione della produzione culturale attraverso la standardizzazione dei linguaggi resa possibile dal codice informatico, corrisponde quindi lo svuotamento delle fabbriche della cultura attraverso il taglio delle iscrizioni e la promozione della formazione a distanza: queste le due ganasce della tenaglia con cui il capitale tenta di schiacciare un potente nodo di soggettività antagonistica. Se le lotte studentesche svolgono ancora un ruolo di avanguardia non è perché esprimono la presunta autonomia dell'intellettualità di massa nei confronti del capitale, ma perché si oppongono alla distruzione di un luogo strategico di concentrazione materiale di corpi soggetti a condizioni comuni di sfruttamento, oppressione e sofferenza.

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Capitolo VI
PROFILI DELLA CLASSE OPERAIA GLOBALE



Dal percorso critico fin qui compiuto emerge una chiara indicazione di metodo: per capire quali siano i soggetti sociali antagonisti, occorre abbandonare il paradigma biopolitico. Si è visto come tale paradigma sposti l'attenzione dalla produzione alla vita, in quanto il capitalismo materiale avrebbe cancellato la distinzione fra i due termini, visto che oggi è la vita stessa ad essere messa al lavoro. Questo punto di vista dilata l'orizzonte della soggettività antagonistica fino ad abbracciare la quasi totalità del genere umano, neutralizzando, di fatto, qualsiasi possibilità di ordinare gerarchicamente gli strati di classe in relazione alla loro omogeneità interna, ai livelli di consapevolezza e alle pratiche di lotta. La verticalità, implicita nel concetto di composizione politica di classe, viene sostituita dall'orizzontalità della nebulosa moltitudinaria, fatta di singolarità individuali e posizioni di ceto che rispecchiano valori culturali. Contro tale visione, che attribuisce alla classe una consistenza puramente contingente, fondata sull'esistenza o meno di capacità di autoidentificazione e autocoscienza, chi scrive intende riproporre un punto di vista «sostanzialistico», secondo cui la classe esiste a prescindere dall'esistenza di strutture politiche, associative e/o di «discorsi» che la rappresentino, essendo definita dall'appartenenza a una «comunità di destino» e dalle conseguenze economiche, culturali e sociali associate a tale appartenenza. Si tratta di un punto di vista che trova una sintetica quanto efficace definizione nelle seguenti parole di Edward P. Thompson: «La classe nasce quando un gruppo di uomini, per effetto di comuni esperienze (ereditate o vissute), sentono ed esprimono un'identità di interessi sia fra loro, sia nei confronti di altri gruppi con interessi diversi e, socialmente, antitetici. L'esperienza di classe è determinata, in larga misura, dai rapporti di produzione nel cui ambito gli uomini sono nati – o vengono involontariamente a trovarsi. La coscienza di classe è il modo in cui queste esperienze sono vissute e riplasmate in termini culturali: incarnatesi dunque in tradizioni, in sistemi di valori, in idee, in istituti caratteristici». Chiarita la prospettiva metodologica da cui prende le mosse il discorso di chi scrive, si tratta ora di entrare nel merito della composizione del proletariato globale e del potenziale antagonistico dei differenti strati che ne fanno parte.

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Naturalmente esiste un altro Gramsci rispetto a quello che ho qui riproposto attraverso le pagine delle Note sul Machiavelli. Nell'analisi di questo paragrafo, per esempio, sono rimasti esclusi concetti fondamentali come quelli di blocco sociale, rivoluzione passiva, apoliticismo – per citarne solo alcuni. In ogni caso, mi pare di avere dimostrato quanto mi premeva dimostrare: contrapporre Gramsci a Marx e Lenin sui temi del rapporto fra classe, partito e Stato è operazione del tutto arbitraria e infondata. Sia pure con sfumature teoriche differenti – che rispecchiano i momenti storici, gli scenari geopolitici e le composizioni di classe cui si riferiscono –, questi tre «mostri sacri» del pensiero rivoluzionario concordano sui seguenti princìpi di fondo:

1) il proletariato è la sola classe rivoluzionaria, ma la sua azione politica spontanea non può garantirle la vittoria;

2) per ottenere tale vittoria occorre un partito rivoluzionario che incarni i soli interessi della parte sociale sottomessa al dominio del capitale, rifiutando per principio ogni concessione all'interesse generale, al bene comune e analoghe mistificazioni;

3) lo Stato moderno è espressione del dominio della borghesia su tutte le altre classi sociali e questa sua natura non è riformabile, per cui la macchina statale va distrutta e sostituita con le forme di autogoverno delle classi subordinate;

4) la storia dimostra che, in particolari circostanze (Comune, soviet, ecc.), la coscienza politica del proletariato è in grado di inventare organismi di autogoverno fondati sulla democrazia diretta e partecipativa.

I punti 2) e 4) definiscono un'area problematica irrisolta, in quanto organizzazione rivoluzionaria e istituzioni dell'autogoverno proletario sono sistematicamente entrati in conflitto reciproco, per cui questa resta la maggiore sfida teorica che la tradizione novecentesca ci ha lasciato in eredità. Questa sfida può essere ignorata, come invitano a fare quei teorici postmoderni che considerano il Novecento come un secolo da «rottamare», e che pensano che la sua storia fatta di guerre, rivoluzioni, totalitarismi e altri orrori sia stata anche – se non soprattutto – il risultato del tentativo di mettere in pratica i quattro assunti sopra elencati. Θ chiaro che obiettivo di questo lavoro è dimostrare che questi assunti restano invece attuali. Tragicamente attuali, perché rivendicarne l'attualità non significa indulgere in compiacimenti nostalgici né, tanto meno, negare il prezzo terribile che essi hanno imposto (e che potrebbero ancora imporre finché resteranno validi). Nella Parte prima, ho cercato di dimostrare come il capitalismo e lo Stato che ne incarna gli interessi restino irriformabili, e che dalla crisi non si esce se non distruggendoli. Nella Parte seconda, dedicata alla composizione di classe, ho tentato di definire i soggetti antagonistici che potrebbero assumersi tale compito. Questo secondo Interludio rappresenta un ponte verso le Parti terza e quarta, nelle quali tenterò di discutere che tipo di organizzazione possano darsi gli attuali movimenti rivoluzionari, e quali forme istituzionali potrebbe assumere la transizione a una società postcapitalistica.

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La sociologia ha versato fiumi di inchiostro sulla fenomenologia dei movimenti «postideologici». Pur nella loro varietà – che spazia dai movimenti globali di massa quali pacifismo, femminismo, ambientalismo e movimenti contro la globalizzazione, ai movimenti iperlocali che si oppongono alla realizzazione di infrastrutture che minacciano gli equilibri di un ecosistema naturale, economico o culturale, alle lotte delle comunità indigene per il riconoscimento e la tutela della loro identità etnica e culturale, ecc. – essi presentano una serie di analogie di fondo:

1) con qualche eccezione (come quella del movimento No Global), si tratta per lo più di mobilitazioni single issue, che si concentrano cioè su un unico, specifico obiettivo rivendicativo (o su una costellazione omogenea di obiettivi), senza inquadrarlo in visioni politiche «antisistema»;

2) si tratta di lotte che raramente si impegnano per rivendicare l'uguaglianza, mentre tendono assai più spesso a ottenere il riconoscimento di differenze (di genere, di scelte sessuali, linguistico-culturali, ecc.);

3) il loro carattere post- o extraideologico consiste, da un lato, nel fatto che – accantonata ogni pretesa di presa del potere e/o di controllo sulla macchina statale – si concentrano sul tentativo di ottenere un controllo diretto e immediato sulle condizioni di vita, dall'altro lato, nel fatto che tendono ad assumere profili politici «trasversali», non classificabili in base all'asse oppositivo destra/sinistra;

4) dedicano in generale grande attenzione ai rapporti interpersonali e comunitari, che si propongono di cambiare qui e ora, a partire dalla loro stessa prassi, per cui privilegiano modelli organizzativi orizzontali, antigerarchici, con attenzione ossessiva alle regole da adottare per evitare la distribuzione ineguale dell'autorità;

5) infine tendono a spostare l'asse del conflitto sociale sul terreno della rivendicazione di nuovi diritti, nonché a privilegiare i diritti civili rispetto ai diritti sociali e i diritti concreti di singoli e minoranze rispetto all'universalismo astratto dei diritti collettivi.

Dal punto di vista marxista, è evidente che questo insieme di fattori contorna una serie di limiti radicali. In primo luogo, è chiaro che nessuno di questi movimenti appare capace di assumere un ruolo controegemonico. Sí tratta, infatti, di forme di agire collettivo che Gramsci avrebbe definito «apoliticiste», sia per il rifiuto di qualsiasi forma di istituzionalizzazione, sia per l'assenza di qualsiasi preoccupazione di prefigurare scenari futuri, per l'assenza cioè – volendo ancora usare il lessico gramsciano – di «spirito statale». Non a caso, si è insistito sulla loro endemica incapacità di durare nel tempo, in quanto il soggetto collettivo che ne è protagonista si dissolve nel momento stesso in cui ottiene l'obiettivo desiderato, o perde la fiducia nella possibilità di raggiungerlo. Agli occhi degli intellettuali postmoderni, questa «volatilità» appare, tuttavia, come una qualità positiva, poiché conferma le loro tesi sulla soggettività politica come «costruzione» discorsivo/narrativa. Scagliandosi contro questo «elogio della leggerezza», Mario Tronti , ne rintraccia le radici nei movimenti del '68, i quali ignoravano «che abbattere l'autorità non voleva dire automaticamente liberazione differentemente umana», così come ignoravano che la libertà da essi invocata avrebbe significato anche e soprattutto «libertà per gli spiriti animali capitalistici che scalpitavano dentro la gabbia d'acciaio dell'accordo politica-società». Si tratta di critiche «inattuali» che non smuovono gli autori che assumono come irreversibile l'approdo a una fase postideologica dei movimenti. Qui di seguito mi occuperò di tre di questi autori – il sociologico Ulrik Beck , il giurista Stefano Rodotà e il politologo Pierre Rosanvallon – che rappresentano altrettanti esempi di tentativi non banali di dare soluzione teorica ai problemi del conflitto politico nelle società dette postmoderne.

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La cultura di Internet è stata caratterizzata, fin dagli esordi, da cinque grandi promesse:

1) una democratizzazione dell'economia che avrebbe consentito alle startup di competere alla pari con le corporation e avrebbe appiattito le gerarchie aziendali, rafforzato la capacità di autogestione dei knowledge workers, ampliato i margini di autonomia di freelance e indipendenti, ridotto le barriere all'ingresso nei settori a più elevato contenuto di innovazione;

2) un'illimitata possibilità di accedere liberamente a informazioni e conoscenze, che avrebbe favorito l'ascesa al potere della «classe creativa»;

3) un processo di empowerment dei consumatori, sempre più in grado di controllare e condizionare le politiche commerciali e produttive delle imprese;

4) una messa in trasparenza dei meccanismi di funzionamento del potere politico, che si sarebbe esposto al controllo dei cittadini attraverso nuove forme di democrazia diretta, partecipativa e deliberativa;

5) un potenziamento del ruolo dei movimenti sociali, i quali, grazie alla nuova capacità di organizzazione e mobilitazione ottenuta dalla Rete, avrebbero svolto un ruolo strategico nell'arena politica del XXI secolo.

Ebbene: queste promesse non si sono realizzate; o si sono realizzate in modo parziale, a causa di processi che hanno operato in direzione opposta.


***



Se il mito della democratizzazione dell'economia sta ancora in piedi, in barba a ogni smentita empirica, ciò è soprattutto dovuto alle tante voci – confuse o interessate – che continuano ad alimentarlo: guru della rivoluzione digitale, i quali, dopo la pausa di silenzio imposta dal crollo del Nasdaq nel 2000-2001, hanno sfruttato il glamour del Web 2.0 per tornare a profetizzare l'avvento di un'economia immateriale proiettata oltre i vincoli della scarsità; teorici dell'avvento di una versione postmoderna dell'economia del dono precapitalistica, i quali spacciano le pratiche delle comunità degli sviluppatori del software open source e dei redattori di Wikipedia come modello di un'economia alternativa, né capitalistica né socialista; teorici postoperaisti, i quali eleggono i knowledge workers a protagonisti di un processo di emancipazione del lavoro immateriale dal controllo e dal comando capitalistici.

A pochi anni dall'inizio della crisi, di queste chiacchiere non resta in piedi quasi nulla. In un brevissimo arco di tempo, quell'economia di Rete che avrebbe dovuto rivelarsi la tomba delle corporation, incapaci di reggere il ritmo dell'innovazione imposto dalle startup, si è al contrario trasformata nel teatro del più formidabile processo di concentrazione monopolistica della storia del capitalismo. La «banda dei quattro» – come il boss di Google Eric Schmidt ha definito il gruppo costituito da Amazon, Apple e Facebook, oltre che dalla stessa Google – concentra nelle proprie mani una quota enorme dei mercati di hardware, software ed e.commerce (in pratica l'intera industria hi tech, ad eccezione delle telecomunicazioni). Prendendo atto di tale situazione, l' Economist, in un articolo del dicembre 2011 intitolato «Big and Clever», liquidava definitivamente il mantra «piccolo è bello» per ribadire che il principio che attribuisce un formidabile vantaggio competitivo alle economie di scala vale anche nel capitalismo immateriale, in quanto le grandi imprese dispongono di un surplus di risorse finanziarie che consente loro di arruolare e mettere al lavoro una massa molto superiore di competenze e talenti. Se negli anni Novanta questo paradigma era sembrato in crisi, ciò è dipeso soprattutto dalle distorsioni prospettiche generate dalla «bolla tecnologica»; dopodiché è tornata a valere la lezione di Schumpeter , secondo cui, ai periodi di «innovazione distruttiva» seguono inevitabilmente periodi di concentrazione e consolidamento. Per tacere del fatto che le crisi comportano sempre sia un calo degli investimenti che la loro concentrazione sulle imprese di grandi dimensioni.

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Passiamo ora al rapporto fra movimenti e Rete. Mi sono già occupato del tema ragionando sulle esperienze di Occupy Wall Street e del Movimento 5 Stelle, ma il caso più intrigante, da questo punto di vista, è quello della Primavera Araba. Anche perché è quello che più di ogni altro ha alimentato la discussione in merito alla presunta capacità della Rete, non solo di agire da catalizzatore e strumento di organizzazione e mobilitazione dei movimenti, ma addirittura di «generarli». A quest'ultima idiozia sono già state rivolte critiche argomentate e convincenti, come quelle avanzate da Malcolm Gladwell in un articolo apparso sulle pagine del New Yorker, e riprese in modo ancora più efficace da Cory Doctorow su quelle del Guardian. Replicando alla tesi sostenuta dai media occidentali – secondo cui i moti nordafricani sarebbero una sorta di «Twitter Revolution» –, i due ricordano che la stragrande maggioranza dei milioni di persone scese in piazza erano lavoratori poveri e analfabeti che non dispongono di connessioni Internet, e che non sarebbero state comunque in grado di postare i messaggi in inglese che hanno raccontato la rivoluzione al mondo; dopodiché sostengono che, a mobilitare le masse, sono state piuttosto le cronache dei grandi network televisivi in lingua araba, come Al-Jazeera, comprese da centinaia di milioni di persone di tutti i Paesi coinvolti. Inoltre, aggiunge Evgeny Morozov in un altro articolo apparso sul Guardian, chi esalta il ruolo delle élite acculturate e anglofone e accredita la tesi che questa «avanguardia» si sarebbe aggregata spontaneamente dal basso grazie ai social media, ignora che le insurrezioni erano state preparate da militanti tunisini ed egiziani che erano in contatto da anni, non solo attraverso la Rete, ma anche con incontri faccia a faccia. Ancora Morozov, in un libro che approfondisce la riflessione sul rapporto fra Rete e movimenti, smonta quella che chiama la «dottrina Google», cioè la tesi secondo cui i regimi autoritari, nel momento in cui devono fare i conti con la comunicazione mediata dalla Rete, avrebbero le ore contate perché, con la sua sola presenza, Internet sarebbe in grado di innescare una spinta irreversibile verso la democrazia. L'unica verità contenuta in questo discorso, sostiene Morozov, consiste nel fatto che la crisi dei regimi islamici moderati provocata dalla Primavera Araba e l'incremento nell'uso dei social media che l'ha accompagnata offrono agli Stati Uniti e alle corporation hi tech una straordinaria opportunità per rafforzare la loro influenza nell'area.

Il tragico fallimento della rivoluzione egiziana – passata dalle speranze della Primavera Araba alla vittoria elettorale dei Fratelli Musulmani, e infine approdata a una nuova, efferata dittatura militare – dovrebbe indurci a mettere da parte una volta per tutte le chiacchiere sulla «Twitter Revolution», per avviare una seria analisi sulla compo- sizione di classe dei movimenti arabi. Qui non ho lo spazio per affrontare il compito, per cui mi limito a offrire qualche spunto in tal senso. L'Occidente ha voluto vedere, nella rivolta delle élite giovanili, acculturate e informatizzate che hanno dato inizio ai movimenti una domanda di riforme politiche ed economiche per avviare la transizione verso forme di democrazia liberale, e per accelerare l'integrazione dell'area nel mercato globale. Viceversa, a me pare che l'ideologia delle masse giovanili arabe sia più simile a quella dei protagonisti dei movimenti occidentali come Occupy Wall Street, gli Indignados e 5 Stelle: si trattava soprattutto di studenti e neolaureati, consapevoli di non avere la minima chance di trovare occupazioni all'altezza del livello di conoscenze acquisito, condannati all'emigrazione o a sopravvivere con redditi da fame. La convergenza fra queste élite e le masse proletarie avrebbe potuto avvenire sul piano di una richiesta di ridistribuzione delle ricchezze accumulate dalle caste dominanti grazie al petrolio. Ma questo non è successo e, come è avvenuto con i movimenti occidentali, anche qui non è stato possibile instaurare un rapporto di egemonia fra avanguardie intellettuali e masse proletarie. La successiva vittoria elettorale dei Fratelli Musulmani non deve quindi stupire, non solo per il loro pluridecennale, profondo radicamento culturale fra le masse popolari, ma anche e soprattutto perché hanno sempre praticato forme di solidarietà nei confronti degli esclusi, garantendo una sorta di «welfare religioso» autogestito dal basso. Una volta al potere, tuttavia, non hanno avuto il coraggio e la forza di rompere con l'Occidente e i paradigmi neoliberisti, per imboccare la via di un «socialismo estrattivista» simile a quello di alcuni Paesi latinoamericani (vedi capitolo IX). Di qui l'aggravarsi della crisi economica e la ripresa dei conflitti che ha provocato il nuovo golpe militare, benedetto dai Paesi occidentali come il male minore, come soluzione obbligata per evitare che la situazione precipitasse nel caos e nell'ingovernabilità. Benedetto, purtroppo, anche da una parte della sinistra democratica egiziana, nonché dalle sinistre occidentali e, meno sorprendentemente, dai media globali. Mai come in questa circostanza, l'insipienza culturale e politica di una sinistra globale sempre più allineata con i valori occidentali è apparsa evidente, al punto da abdicare al compito di analizzare la situazione dal punto di vista della lotta di classe per aderire, di fatto, alla tesi di Samuel Huntington sullo «scontro di civiltà» fra Islam e Occidente.

Chiusa la parentesi politologica, resta il dato di fatto della sopravvalutazione del ruolo della Rete come agente scatenante della Primavera Araba. Il che non significa sostenere che Internet non abbia svolto e non continui a svolgere un ruolo importante per i movimenti: negarlo sarebbe come negare che la stampa abbia svolto un ruolo nella nascita e nel consolidamento del movimento operaio alla fine dell'Ottocento. Più semplicemente si tratta di sfatare il mito che attribuisce a Internet il compito di fare le rivoluzioni e liberare il mondo, mito che Morozov ha definito «Internet-centrismo». Ciò di cui occorre prendere atto una volte per tutte è che le tecnologie in generale, e le tecnologie digitali in particolare, non contengono soluzioni già pronte ai dilemmi politici e sociali che esse stesse creano. Solo adottando questa posizione «cyber-realistica», è possibile analizzare lucidamente in che misura, perché e a quali condizioni la Rete può funzionare come strumento per alimentare, gestire e organizzare il conflitto politico e sociale. Troviamo un esempio di questo atteggiamento realistico e anti-ideologico nel già citato libro sulle lotte No Tav curato da Askatasuna: richiamata l'attenzione sul crescente livello di integrazione fra vecchi e nuovi media, sempre più controllati dall'industria culturale; raccontate le operazioni di «guerrilla marketing» contro il movimento, messe in atto dai media mainstream grazie alla loro capacità di «infiltrare» e manipolare i social media; ricordato che le forme più importanti di comunicazione del movimento No Tav rimangono il passaparola da paese a paese e la «chiacchiera da bar», i curatori ribadiscono che la Rete resta in ogni caso un canale di controinformazione, uno strumento di organizzazione e di mobilitazione e, soprattutto, uno strumento di rafforzamento delle relazioni faccia a faccia. Come dire: Internet rappresenta un nuovo, importante campo di opportunità per i movimenti, ma la sua efficacia è commisurata alla capacità di interagire con legami sociali preesistenti o generati nel corso della lotta.

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Capitolo X
CINQUE MOTIVI PER TORNARE A DISCUTERE DI TRANSIZIONE



1. Perché il capitalismo non muore da solo



Dopo il crollo dell'Unione Sovietica Francis Fukuyama annunciava «la fine della storia»: sparita ogni alternativa al capitalismo, l'ideologia liberal-liberista poteva celebrare il proprio ingresso nell'eternità, lo Spirito Assoluto hegeliano aveva trovato incarnazione terrena. Qualche anno dopo, lo stesso annuncio è stato ripetuto in versione «di sinistra»: che altro sono i discorsi sulla produzione biopolitica e sul «comunismo del capitale»? Dai teorici dell'Impero abbiamo appreso che il potere non ha più centro, essendo interamente distribuito nelle reti, il che può significare solo due cose: o che il potere è inscalfibile e inattaccabile, in quanto «introiettato» da tutti i soggetti del corpo sociale (versione Fukuyama), o che il potere può essere «spento», neutralizzato dall'interno attraverso la presa di coscienza dei soggetti (versione Negri). Immaginare una rottura rivoluzionaria da parte di nemici esterni dell'Impero è vano, perché la rottura può venire solo dall'interno e la posta in palio può essere solo il comando imperiale. Addio storia, perché l'idea di rivoluzione perde ogni connotato di catastrofe (di «redenzione» in senso benjaminiano) per appiattirsi sul significato letterale di ritorno allo stesso punto; e addio conflitto perché, se si tratta di decidere chi detiene il comando restando all'interno delle leggi imperiali, è evidente che fra i contendenti deve esistere una relazione mimetica. Così si dà per scontato che il potere non abbia più trascendenza, sia interamente immanente alle strutture economiche; si afferma che non ha più senso aspettare la nascita di un uomo nuovo, in quanto la natura umana sarebbe già cambiata; si sostiene che il capitale non organizza più la cooperazione produttiva, la quale sarebbe già nelle mani di una creatività sociale diffusa, autonoma e auto-organizzata. Insomma: perché aspettare la rivoluzione comunista se il comunismo è qui e ora? Oggi la rivoluzione vive nel presente e, per liberarla dallo spettro del capitale, basta far emergere «l'imprenditorialità del comune». Mimesi: non c'è autonomia del politico perché, se il potere è totalmente immanente all'economia, capitale e lavoro sono due «nomi» della stessa cosa, basta cambiare nome all'organizzazione produttiva per far sparire il capitalismo. Il nuovo nasce dal guscio di un vecchio che è ormai vuoto, privo di sostanza come un uovo prossimo a schiudersi per liberare il pulcino, allo stesso modo in cui la Rivoluzione francese ha liberato la borghesia dal guscio dell'Ancien Régime. In un mondo in cui il general intellect è egemone, il concetto di transizione lascia il posto al concetto di potere costituente come espressione di un nuovo riformismo.

Se per Negri basta evocare il nome del comunismo per renderlo reale, l'anarchico Graeber si limita ad affermare – con un pizzico di prudenza in più – che ci sono buone ragioni per credere che il capitalismo sparirà nel giro di una generazione. Invece di motivare questa improbabile profezia, Graeber si limita a dire che l'ottimismo è un «imperativo morale», e che l'affermazione secondo cui un altro mondo è possibile va assunta come un «atto di fede» (sic). Affermazione che rafforza aggiungendo che il potere avrebbe paura dei movimenti, il cui più grave errore consisterebbe nel non saper riconoscere le proprie vittorie. A parte questa delirante applicazione del gramsciano ottimismo della volontà, a Graeber va riconosciuto di non avere del tutto dimenticato il pessimismo della ragione, visto che ammette che, oggi, la rivoluzione potrebbe attuarsi solo come improbabile dominio di una minoranza, per cui occorre prepararsi a una lotta di lungo periodo. In ogni caso, tanto la posizione di Negri quanto quella di Graeber si presentano come varianti della teoria del crollo capitalistico. Nella versione classica, tale teoria rinviava a cause strutturali, quali l'inarrestabile tendenza alla caduta del saggio del profitto, oppure, nella lezione ecologista, ai limiti che l'esaurimento delle risorse non rinnovabili e il degrado ambientale impongono allo sviluppo e alla crescita. Nella versione nominalistico-soggettivistica di postoperaisti e anarchici il crollo è invece attribuito a una sorta di esaurimento della capacità egemonica del «racconto» del capitale, per cui si avvicina il momento in cui noi tutti ci «sveglieremo» dall'incantamento per renderci conto che già viviamo in un mondo nuovo.

Nel corso di questo lavoro credo di avere dimostrato l'inconsistenza di tale punto di vista: il capitalismo non muore da solo; il suo potere resta saldo e reale e, anche se non è più concentrato in qualche Palazzo d'Inverno, si incarna in soggetti sociali e politici concreti, un «nemico» contro cui ha ancora senso organizzare la resistenza di soggetti sociali e politici altrettanto concreti, piuttosto che attendere il «risveglio» delle moltitudini. La più letale delle utopie evocate dal titolo di questo libro consiste nel presentare il mondo in cui viviamo come «ambiguo», come convivenza fra «narrazioni» in concorrenza reciproca, una delle quali – quella del capitale – sarebbe prossima a perdere senso, e quindi la capacità di in-formare di sé la realtà. Anche Marx afferma che il lavoro è, al tempo stesso, astratto fattore produttivo per il capitalista e concreta esperienza di vita per l'operaio; due mondi che convivono pur escludendosi reciprocamente sul piano del senso; ma il suo discorso non si inscrive nell'ordine dell'ambiguità, bensì nell'ordine della contraddizione: per usare l'operaio come fattore produttivo il capitalista deve annientarne la resistenza; per riconquistare la condizione di soggetto vivente l'operaio deve annientare il capitalismo.


2. Perché il personale è politico, ma il politico non è personale


Il pensiero marxista convive da sempre con una contraddizione irrisolta. Da un lato, sostiene la parzialità del punto di vista operaio, rivendica una prospettiva di classe che rifiuta l'idea di «bene comune», l'astratto universalismo dell'ideologia borghese che maschera gli interessi della classe dominante. Dall'altro lato, afferma che l'emancipazione della classe operaia realizzerà l'emancipazione dell'intera umanità, finalmente liberata dall'alienazione del mercato – il che equivale a far rientrare dalla finestra il punto di vista universalistico cacciato dalla porta. Il rischio è quello di cadere in un'antropologia ingenuamente ottimistica, per cui si presume che gli esseri umani, una volta liberati dall'alienazione economica, diventino «buoni» e che tutti i conflitti sociali e culturali spariscano nel paradiso del comunismo. Sono convinto che questa visione vada superata, riconoscendo che la fine del conflitto di classe non comporterà l'estinzione di altri conflitti, non meno «strutturali», come il conflitto di genere, il conflitto fra uomo e ambiente e il conflitto fra tradizioni e identità culturali diverse; se mai, potrebbe contribuire a rendere tali conflitti meno distruttivi, neutralizzando il surplus di antagonismo che il capitalismo inietta al loro interno. Il curioso è che, a mano a mano che le donne, le identità sessuali alternative, quelle etnico-culturali, le lotte per la pace e per l'ambiente, ecc. hanno sostituito la classe operaia nella narrazione dei movimenti di sinistra, la tensione fra punto di vista parziale e punto di vista universale non è affatto venuta meno; al contrario, si è radicalizzata. Ciò è evidente nel caso del movimento femminista, il quale – sia pure in modo non univoco e con diverse accentuazioni – ha spesso sostenuto che l'esito della lotta per la liberazione della donna coinciderà con l'emancipazione dell'intera umanità, con la riappropriazione delle proprie vite da parte di tutti i soggetti, individuali e collettivi. Ancora una volta si presume che un punto di vista parziale possa e debba rovesciarsi dialetticamente in punto di vista universale. Certamente le donne rappresentano un candidato più credibile della classe operaia, se non altro perché sono la metà del genere umano laddove la classe operaia è una minoranza, ancorché di massa. Ciò nondimeno, la seduzione «universalistica» non si è rivelata meno letale per il movimento femminista di quanto sia stata per il movimento operaio: in entrambi i casi, ha funzionato da agente di neutralizzazione dell'energia antagonistica favorendone l'integrazione nei dispositivi di dominio del capitale. Argomenterò questa tesi intrecciando quattro aree tematiche: 1) effetti controintuitivi dello slogan «il personale è politico»; 2) effetti della rimozione/sottovalutazione dei conflitti sociali e culturali che marcano e striano l'identità femminile; 3) fallimento della tesi secondo cui la fine del patriarcato comporterebbe la fine del dominio economico e politico del capitalismo; 4) funzionalità dell'ideologia politically correct alla conservazione e al rafforzamento del capitalismo nella sua fase postmoderna.

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CONCLUSIONI



Se un libro è riuscito a spiegare al lettore le idee che l'autore desiderava trasmettergli, non dovrebbero servire conclusioni: queste spetterebbero al lettore, piuttosto che all'autore (che si presume abbia già detto tutto ciò che voleva dire). Se non c'è riuscito, le conclusioni non potranno ovviare al fallimento. Ma le conclusioni sono un rito editoriale cui nessuno può sottrarsi, perciò, pur arrendendomi alla tradizione, cercherò di tributarle un omaggio limitato. Le pagine che seguono, per la gioia del lettore che ha già affrontato un lungo percorso, saranno le più sintetiche possibili. In questo lavoro, il dibattito teorico e la descrizione dei fatti sociali, politici ed economici sono strettamente intrecciati. Per facilitare quest'ultimo passaggio proverò tuttavia ad esporli separatamente.

Sul piano teorico il libro espone quattro tesi. La prima (capitoli I e II) afferma che la crisi in corso è sintomo di un irreversibile mutamento del modello di accumulazione capitalistica. Tale processo comporta, oltre ai processi di finanziarizzazione e globalizzazione, già analizzati da una serie di autori, un radicale cambiamento dei rapporti di forza fra le classi sociali che si esprime:

1) nello smisurato arricchimento dei già ricchi e nel progressivo immiserimento dei già poveri e delle classi medie, le quali facevano in precedenza da cuscinetto fra base e vertice sociali;

2) nello smantellamento dello Stato sociale, accompagnato da estese privatizzazioni e dalla trasformazione in servizi commerciali di una quota crescente di attività che prima rientravano nelle sfere delle relazioni private, famigliari e comunitarie;

3) nella frammentazione del proletariato dei Paesi occidentali e nella parallela crescita di grandi masse proletarie nei Paesi in via di sviluppo;

4) in un'evoluzione dei sistemi politici che segna il divorzio fra mercato e democrazia: gli Stati-nazione – privati di quote importanti della loro sovranità, trasferite ad agenzie internazionali, megaimprese private, aggregati politici regionali, ecc. – si trasformano in regimi postdemocratici incaricati di gestire gli interessi locali del capitale globale.

La seconda tesi (capitoli III, IV, V, VI) rovescia il paradigma – caro a postoperaisti, teorici dell'economia della conoscenza, cantori della Rete come ambiente di una «economia del dono», profeti del lavoro autonomo, ecc. – secondo cui i knowledge workers rappresenterebbero una sorta di avanguardia economica, sociale, politica e culturale destinata a guidare la transizione quasi indolore verso una civiltà postcapitalistica. A questa visione viene contrapposta l'idea secondo cui questo strato, dopo le due crisi che hanno squassato il primo decennio del 2000, si è spaccato in due componenti, la prima delle quali è stata integrata/cooptata nella stanza dei bottoni, mentre la seconda è precipitata nel proletariato dove, tuttavia, non rappresenta l'avanguardia bensì il fianco molle della classe, quello più esposto all'offensiva nemica. Viceversa, analizzando la composizione di classe a livello planetario, emergono nuove forze – la classe operaia dei Brics, le masse indigene e contadine dell'America Latina, i lavoratori precari del terziario arretrato negli Stati Uniti e in Europa, i migranti che si spostano a milioni in tutto il mondo, ecc. – che incarnano una controtendenza verso la concentrazione di enormi energie antagonistiche al sistema capitalistico.

La terza tesi (capitoli VII, VIII, IX) riapre il dibattito sull'organizzazione politica. Trent'anni (1980-2010) di esperienze politiche caratterizzate dai «nuovi movimenti» – femminismo, ambientalismo, pacifismo, No Global, fino alle più recenti insorgenze di Primavera Araba, Occupy Wall Street e Indignados – dimostrano che la rinuncia alla centralità del soggetto di classe e la sua sostituzione con identità di genere, culturali, di status, ecc. hanno determinato il crollo della capacità delle sinistre – radicali e non – di contrastare l'attacco del capitale. Spontaneismo (si presume che i movimenti si auto-organizzino e debbano respingere le interferenze esterne), culturalismo (si ripudia la collocazione produttiva come criterio identitario), «orizzontalismo» (caro a neoanarchici, postoperaisti e movimenti «incantati» da Internet) hanno provocato l'incapacità dei movimenti di coordinarsi, sedimentare memoria delle proprie esperienze, adottare obiettivi, programmi e forme organizzative comuni. Inoltre questo miscuglio di ideologie antigerarchiche, antistataliste, antiautoritarie, orientate alla rivendicazione di diritti individuali/personali (esito della lunga deriva postsessantottina) sono contigue ai valori della cultura liberale, se non addirittura liberista (è il caso delle idee anarco-capitalistiche che prevalgono in molte culture cyber). Θ chiaro che non si viene a capo di questa regressione riproponendo il modello novecentesco del partito di classe; ma tanto meno se ne viene a capo assecondando il rifiuto di ogni organizzazione politica strutturata – che ironicamente genera conventicole guidate da piccoli leader carismatici. Θ possibile recuperare l'idea del partito come espressione di interessi di una parte sociale contro la mistificazione di un presunto «interesse generale», in una epoca in cui la parte è esplosa in pezzi? Sì, se si riparte dai pezzi senza chiedere loro di rinunciare alla propria specificità, se si immagina, cioè, un modello federativo che riunisca identità differenti – andando oltre l'obsoleta distinzione fra partiti, sindacati, movimenti, associazioni, ecc. – ma convergenti su un programma di opposizione antagonistica.

La quarta tesi (capitolo X) – conseguenza logica delle precedenti – afferma la necessità di tornare a riflettere sul concetto di transizione. Contro le nuove teorie del crollo che predicano che il comunismo è immanente al nuovo modo di produrre, per cui basterebbe che la gente se ne accorgesse per mandare in pensione il capitalismo; contro il mito (femminista e non solo) secondo cui la rivoluzione si fa «partendo da sé», modificando la psicologia e l'antropologia personali, piuttosto che attaccando direttamente i rapporti economici e politici di dominio; contro l'idea che si possa arrivare a cambiare il mondo attraverso una lunga marcia dei diritti; contro le utopie «benecomuniste» che pensano si possa cancellare con un tratto di penna «costituente» millenni di diritto pubblico e privato, si sostiene che partito e Stato vanno riprogettati come strumenti della transizione al postcapitalismo, e che, a questo fine, rivisitare le teorie gramsciane sul «farsi Stato» e sull'egemonia delle classi subalterne è assai più utile delle chiacchiere sul «potere costituente» delle moltitudini.

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