Copertina
Autore Francesco Muzzioli
Titolo Scritture della catastrofe
EdizioneMeltemi, Roma, 2007, Melusine , pag. 288, cop.fle., dim. 12x19x2,5 cm , Isbn 978-88-8353-568-0
LettoreGiorgia Pezzali, 2007
Classe critica letteraria , fantascienza , inizio-fine
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Indice


  9 Parte prima
    Per una mappa delle "immaginazioni del peggio"

 11 Capitolo primo
    Perché la distopia

 34 Capitolo secondo
    Il perimetro di un'isola

 42 Capitolo terzo
    L'orrore del mostruoso: troppo corpo o troppo poco

 50 Capitolo quarto
    Andiamo a vedere come va a finire il progresso

 58 Capitolo quinto
    Prove di apocalisse

 66 Capitolo sesto
    Il distopico dispotico

 92 Capitolo settimo
    Dislocazioni: ironia, allegoria, linguaggio

104 Capitolo ottavo
    Disastri e regressioni

114 Capitolo nono
    Le macchinazioni dell'inumano

126 Capitolo decimo
    Margini 1: rovina e rinascita dei mondi nella fantascienza

141 Capitolo undicesimo
    Margini 2: basta la realtà
    (magari con qualche piccolo ritocco)

148 Capitolo dodicesimo
    Ultime accessioni: distopie problematiche?


155 Parte seconda
    Notizie dalle rovine di Babele

157 Premessa alle analisi testuali

160 1975: Grimus di Salman Rushdie

173 1977: Apocalipsis de Solentiname
    (Apocalisse di Solentiname) di Julio Cortázar

184 1978: Il pianeta irritabile di Paolo Volponi

196 1985: Galápagos di Kurt Vonnegut

213 1986: Die Rättin (La Ratta) di Günter Grass

226 1995: Ensaio sobre a Cegueira (Cecità) di José Saramago

242 1998: En attendant le vote des bétes sauvages
    (Aspettando il voto delle bestie selvagge)
    di Ahmadou Kourouma

257 2003: Oryx and Crake (L'ultimo degli uomini)
    di Margaret Atwood

271 Bibliografia

284 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 11

Capitolo primo

Perché la distopia


Se, come l'utopia fu immaginata situata su un'isola e accogliente visitatori, anche la distopia fosse collocabile in un posto preciso, non sarebbe affatto facile convincere qualcuno a farci un viaggio. Stando alle notizie che ne abbiamo, si tratta di un luogo inospitale quanti altri mai, dal pessimo clima e dai continui dissesti, un concentrato di cataclismi, un pericolosissimo sito, in cui a ogni passo si rischia di subire violenza, di venir contagiati o di assistere a barbare atrocità, dove l'"umano" è in non cale, tanto si prevede a breve termine l'estinguersi dell'intera popolazione. Va bene le vacanze selvagge e gli sport estremi, ma nessuna compagnia di assicurazione accetterebbe di coprire gli "imprevisti spiacevoli" di un simile posto.

Eppure, sembrerà strano, ma Distopia è oggi una località molto visitata, anche se, naturalmente, con l'immaginazione. Sempre più spesso vi sconfina la fiction e in particolare il cinema con tanto di suoi effettacci speciali; ma anche la narrativa scritta vi soggiorna spesso volentieri e con svariate soluzioni (come vedrete dagli "itinerari guidati" di questo libro). Dystopia (scritta con la "y", alla maniera inglese) è sigla e porta d'accesso di vari siti internet. Come mai? Vi è forse un masochismo di massa che spinge a bearsi di quanto gode cattiva reputazione? No, anche se le tortuosità della psiche non vanno mai sottovalutate, credo che la ragione sia diversa: è semplicemente che quel mondo dove il clima è pessimo e si rischia la morte a ogni passo non è mica poi così lontano: non è altro che il nostro mondo di oggi. Il mondo "strappato" tra superpotenza tecnologica e terrorismo kamikaze, tra la fame e la "realtà virtuale", tra multinazionali rapaci e disperati migranti, tra capi fanatici e leaders telegenici, ecc. Il mondo "ossimorico" della guerra umanitaria e della democrazia difesa con Guantanamo e Abu Grahib; il mondo "irritato" dell'aids e della sars, dei terremoti e degli tsunami all'ordine del giorno. Aggiungo altro?

Il diffondersi delle rappresentazioni distopiche coincide non per caso con l'affermarsi della globalizzazione su scala planetaria. È davvero fin troppo ovvio: dal momento in cui finisce la divisione del mondo in due "blocchi" e cade l'alternativa tra capitalismo e comunismo, l'immaginario collettivo diventa incapace di pensare al futuro, se non nei termini, appunto, della fine del mondo. Il capitalismo trionfante, compiuto e assoluto, si bea della propria incomparabilità nei giochi combinatori del postmoderno (non ci può essere niente di nuovo: riscriviamo a piacere!), ma è anche un capitalismo rimasto "solo al mondo", che nella sua solitudine non può evitare di specchiarsi nell'incubo del proprio crollo, per altro annunciato da sintomi inquietanti che si affacciano or qua or là, sempre con maggiore fracasso. Lo aveva previsto acutamente Walter Benjamin: "la borghesia (...) è comunque condannata a perire dalle sue interne contraddizioni che le riusciranno fatali nel corso del suo sviluppo. La questione è soltanto se essa perirà per mano propria o per mano del proletariato. (...) E se la liquidazione della borghesia non si sarà compiuta ad un punto quasi esattamente calcolabile dello sviluppo economico e tecnico (lo segnalano inflazione e guerra chimica) tutto sarà perduto" (Benjamin 1928, pp. 43-44). Adesso che il proletariato ha mancato clamorosamente il suo compito e ha perso la sua occasione storica, ritrovandosi sconfitto e disperso (almeno finché non sorgeranno sindacati internazionali), alle nostre latitudini praticamente "invisibile", la borghesia stessa guarda preoccupata il capitalismo incontrastato, quasi fosse una macchina impazzita che nessuno è più capace di guidare. Adesso, a stare a Benjamin, il "punto-di-non-ritorno" è superato: non rimane che attendere l'autodistruzione. Non per nulla la parte di questo libro dedicata alla piu ampia analisi dei testi si applicherà al periodo recente, che ha il suo termine post quem alla metà degli anni Settanta, quando comincia a delinearsi il nuovo assetto mondiale. È da lì in poi che inizia a essere studiata la distopia come genere: i sensi di colpa dei vincitori e la follia "reale" del consumo infinito collaborano a dare incentivo a questo lato nero della fantasia. Per un altro verso, il successo attuale della distopia potrebbe essere facilmente messo in parallelo alla cattiva fama dell'utopia. All'utopia vengono comunemente attribuite gravissime colpe: in primis essa avrebbe una intrinseca vocazione totalitaria, in quanto farebbe del perfezionamento dell'uomo un traguardo talmente obbligato da passar sopra all'eliminazione fisica di quanti rimangano lontani dall'obiettivo. Curiosamente, il fallimento dell'utopia viene messo sul suo stesso conto, imputato ai suoi presupposti, mentre, semmai, sono quelli a esser stati stravolti e traditi. Di fronte agli stermini perpetrati in nome del "bene comune", non meno utopia bisognerebbe richiedere, ma di più. Liquidando l'utopia come "cattiva maestra", nel nostro orizzonte non rimane infatti che l'acquiescenza all'esistente, l'adeguamento passivo allo stato in cui ci troviamo a vivere. È vero, concepita astrattamente, l'utopia è in contrasto con la storia, perché pone come suo punto d'arrivo l'equilibrio generale, il che vorrebbe dire la definitiva cessazione dei conflitti e quindi della storia stessa. Non un traguardo forzoso, ma un percorso faticoso e aperto: in alternativa a un'utopia già tutta stabilita in partenza, occorrerà concepire un'utopia esitante e – perché no? – ironica. Un'utopia disposta a specchiarsi nel suo proprio contrario: del resto, se si tratta di svegliarsi da un sonno senza sogni, allora a questo compito un colpo allo stomaco può attagliarsi meglio di una fiduciosa lezioncina; meglio la distopia, intesa come segnale di allarme, a mostrare quello che ci attende, se le cose continuano ad andare come vanno.

Occorre però scavare un po' più a fondo, oltre che nella storia e nelle sue svolte – come farò nei paragrafi seguenti – anche nei diversi tipi di racconto distopico. Le possibilità sono molte: c'è la distopia della tirannide divenuta onnipotente e onnipervasiva; c'è la distopia della guerra che, sviluppando armi micidiali, elimina la vita dalla faccia del pianeta; ci sono le distopie delle catastrofi naturali e quelle dei contagi virali; ci sono le immaginazioni di un'umanità residua degradata a barbarie; ci sono le riscritture peggiorative della storia; e ancora di carattere distopico è quel futuro dove i cattivi, nel gioco dei travestimenti, sono indistinguibili dai buoni. Ma in tutti questi casi, per altro spesso mescolati fra loro, circolano alcune problematiche di fondo che configurano in generale un modo di rappresentazione, su cui vale la pena di riflettere almeno un poco, preliminarmente.

Innanzitutto, il racconto catastrofico porta all'estremo quella connessione con l'orrore, il terrore, la paura che è caratteristica di tutto il genere fantastico. È ciò che ci trattiene, come suol dirsi, incollati alla sedia. Ma tale piacere del negativo è, in primo luogo, prettamente esorcistico. Evocare ciò che più ci atterrisce allo scopo di scacciarlo, per ridurlo alla nostra misura e metterlo sotto controllo. Per vederlo, alla fine, come superabile. Questo effetto è facile da ottenere e non a caso prevale nel fantastico cinematografico hollywoodiano di oggi, tra Lord of the rings e Star wars. Un'epoca che arriva a fare della guerra un "abito" quotidiano non vede l'ora di riprodurre il suo messaggio bellicoso in tutti i linguaggi possibili. Tanto meglio per lei se si dice anche attraverso la rimessa in onda degli ancestrali archetipi. Chi sostiene le truppe in marcia contro il Male Assoluto ha bisogno di trovare conferma in baldanzosi eroi, per giunta supportati dalle forze cosmiche della magia, che sconfiggono in pochi coraggiosi intere orde di orchi o di cloni (mentre nella realtà le proporzioni sono invertite, of corse, per sicurezza). Anche l'immaginario collettivo viene arruolato, con sue specifiche "regole d'ingaggio": e quella della "finzione" è davvero una "guerra preventiva"! Infatti, non ha mai smesso di anticipare la distruzione reale, basti pensare a quanti finti "inferni su Manhattan" hanno preceduto l'11 settembre. La distopia però ha qualcosa di diverso: il modello esorcistico, infatti, si fonda sulla vittoria finale del Bene e sul salvataggio in extremis degli eroici campioni. Questo è il nocciolo della fantasia autogratificante che trasmigra, già a sentir Freud, nel racconto di consumo: "se il primo volume si è concluso con l'affondamento durante una tempesta della nave recante il nostro eroe, siamo sicuri di leggere al principio del secondo volume la storia di un salvataggio miracoloso" (Freud 1908, p. 55). Ora, la distopia sembrerebbe (anche se non sempre è così, come vedremo) invalidare l'ultima parola del "lieto fine". E dunque? Che piacere provano i lettori a veder "finir male" la finzione, dove potremmo scegliere liberamente la conclusione che più ci aggrada?

Riflettiamo: immaginare il peggio, per alcuni, è un atto di disfattismo. I politici lo sanno bene, tanto che capita di sentir attribuire a un'astuzia dell'opposizione ogni denuncia sul cattivo andamento, come se poi le cose andassero effettivamente a rotoli solo per il fatto che molti se ne sono convinti. Ecco allora che, rispetto alle illusioni rosee del "tutto va bén", del benessere generale e dello sviluppo indiscriminato, le distopie suonano a netta smentita, come un atto di smascheramento rispetto agli scenari paradisiaci. È un po' come accade nella grottesca allucinazione del Kongres futurologiczny (1971, Il congresso di futurologia) di Stanislaw Lem dove la realtà è pessima, però, grazie al potere delle pillole, tutto appare straordinariamente bello, si può abitare in una angusta topaia e sentirsi in una sontuosa villa: ora, in Lem, l'unico antidoto a questa creazione chimica della realtà è un'altra pasticca, di effetto contrario. Anche la distopia funziona così: deformazione contro deformazione, finzione contro finzione. Dove, appunto, la controfinzione è altrettanto immaginaria, anzi di più.

Del resto, la letteratura in genere, entrando nella modernità e schierandosi per l'appunto dal lato dell'alternativa permanente all'esistente, non è arretrata di fronte al negativo e si è posta a osservarlo da molti lati ed è arrivata, nelle sue frange più radicali, a rivolgerlo contro se stessa. Non è soltanto il pessimismo di una cultura che ha perso qualunque fede e non è nemmeno lo stoicismo di non voler recedere di fronte al "reale", per quanto insopportabile. Non è una perdita di energia, ma al contrario un acquisto. Ce lo ha spiegato proprio un nostro autore ormai superclassico, Leopardi dico, in una sua nota contro il "lieto fine". Il lieto fine ci illude che giustizia sia fatta e l'ordine ristabilito, mentre lo è solo nell'immaginazione. Senza lieto fine, invece, il nostro rincrescimento per il cattivo esito della storia non viene sanato, le tensioni e gli squilibri messi in essere dall'opera rimangono attivi anche al di là del suo termine e quindi l'effetto è maggiormente profondo (è un effetto "grande e forte", "durevole e saldo", dice Leopardi): tanto meno le cose si risolvono positivamente nella finzione e tanto più starà a noi contrastare nei fatti la cattiva sorte. Avremmo, insomma, per così dire, una catarsi prolungata nella prassi. Sicché, in un certo senso, la reazione prodotta dal negativo sfocia precisamente nel suo contrario. Ma allora, se il suo senso va inteso a rovescio, la distopia non sarebbe altro che il modo di esprimersi dell'utopia nella modernità più avanzata? Le analisi condotte in questo libro dimostrano che i rapporti sono spesso intrecciati e non di rado paradossalmente interscambiabili. L'utopia non può affermarsi come traguardo sicuro, pena il cadere in una goffa sicumera e nella presunzione di una "natura buona" alla fine vincente per forza di cose; l'utopia ha solo da guadagnare dal passaggio sotto le forche caudine della messa in crisi, sotto la verifica "acida" di un possibile fallimento. Anche Jameson, in un suo recente volume (Archeologies of the Future, 2005), ammette che la "pulsione utopica" tende oggi ad assumere nuove forme e può presentarsi mescolata al proprio contrario. Ma lo diceva già il nostro Calvino (1980, p. 249): "come genere letterario l'utopia rivive solo come anti-utopia".

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Pagina 126

Capitolo decimo

Margini 1: rovina e rinascita dei mondi nella fantascienza


Uno dei territori confinanti con la distopia è costituito dalla fantascienza. Per la verità, si potrebbe a buon diritto sostenere che la distopia faccia parte della Science fiction (per gli anglofoni, familiarmente "sf"): ne sarebbe quella sottospecie o sottogenere, in cui l'ambientazione nel futuro è mantenuta sul nostro pianeta, senza ricorso ad alieni o astronavi. Ci si potrebbe accontentare di questo e assegnare alle distopie la localizzazione "terrestre", alla fantascienza stricto sensu l'ambito del resto-del-cosmo. Una spartizione non disdicevole, se non ci fosse dell'altro. Basta andare oltre la mera cornice ambientale, e si deve ammettere che quella tra fantascienza e distopia non è tanto una distinzione, quanto uno strano rapporto di attrazione e repulsione. Intendo dire che la "sf" è attirata dalla prospettiva "peggiorativa", ma di solito ne risulta refrattaria, almeno per tre ordini di motivi: 1) se la fantascienza ha alla base, come dice Todorov, il "meraviglioso scientifico", essa sarà portata a un'esaltazione dello sviluppo tecnologico, con le sue strabilianti macchine di trasporto e di comunicazione (l'"ascensore gravitazionale" di Asimov, l'"ansible" della Le Guin, e chi più ne ha più ne metta). La fantascienza ha, comunque, una "disposizione attivistica", che implica "fiducia nel carattere e nelle capacità umane" (Amis 1960, pp. 102-103); 2) immaginando un futuro lontano e, volendo, lontanissimo, la fantascienza dimostra che le previsioni catastrofiche a breve scadenza non avevano nessuna ragion d'essere: l'umanità si è salvata e anzi si è esportata su vasta scala sugli altri pianeti; 3) la tendenza alla forma-saga (da Asimov ai vari cicli stellari) e il carattere "replicante" della spedizione spaziale escono indenni da qualsiasi cataclisma: l'"infinità" dell'universo esplorabile, nella cosiddetta Space Opera, modello Star Trek, contraddice il pessimismo della "fine". La fantascienza si mostra interessata piuttosto ai "nuovi inizi"; non c'è Nightfall che non preveda un ritorno di luce.

Certo, c'è anche qui un versante più critico, che esplora i limiti del progresso umano e considera tutte le difficoltà profonde del "contatto" con il mondo alieno, come nelle riflessioni di Stanislaw Lem nei suoi classici, Solaris (1961) e Niezwyciezony (1964, L'invincibile); ma proprio la coscienza che non basta esplorare lo spazio esterno se non si è esplorato il proprio problema interiore dovrebbe garantire dagli effetti distruttivi. E c'è la fantascienza umoristica – la mia prediletta – dove la distruzione, sì, avviene, senonché l'antiantropocentrismo di fondo rende di scarso peso la catastrofe. Penso, oltre al Lem di Dzienniki gwiazdowe (1971, Memorie di un viaggiatore spaziale), a The Hitchhicker's Guide to the Galaxy (1996, Guida galattica per gli autostoppisti) di Douglas Adams, dove la trascurabilissima Terra è fatta fuori in un attimo per costruire un'autostrada iperspaziale e poi si scopre che il nostro pianeta era stato fatto su commissione dei topi, animali molto più intelligenti di noi. E penso anche allo Stefano Benni di Terra! (1983), dove l'aggravarsi della crisi energetica è risolto – con derisione delle prerogative tecnologiche occidentali – dalle risorse miracolose lasciate nelle rovine dell'impero Inca dai cosmonauti che, per uno sbalzo temporale, sono approdati nel passato.

Si obietterà che, proiettandosi nello spazio sconfinato, i dark horizons della distopia vengono elevati alla ennesima potenza, fino al pericolo di un crollo di proporzioni immense, addirittura astrali. Tuttavia, tanto peggio, tanto meglio: in Asimov, per quanto il corso dell'Impero finisca continuamente nelle mani sbagliate, non c'è verso ne abbia danno il cammino segnato della "psicostoria". A rischi estremi, estremi rimedi, e se la distopia si estende ai mondi extraterrestri è a maggior gloria dell'unificazione planetaria: come nella Ekumen della Le Guin, il sogno della pace dei popoli rasserena il peggiore degli incubi. La distopia potrà soltanto rappresentare l'antitesi di un processo guidato verso il lieto fine: per esempio, Asimov, in Pebble in the Sky (Il paria dei cieli, 1950), racconta di un pianeta Terra ormai contaminato dalle radiazioni atomiche di una guerra dissennata, e ridotto a luogo marginale e malfamato. Per paradosso: ormai gli esseri umani sono andati dappertutto (la capitale imperiale è sul lontano pianeta Trantor), ma hanno perduto la memoria dell'origine (a parte talune supposizioni archeologiche), mentre gli "indigeni" rimasti sulla Terra sono ritenuti un popolo disprezzabile; sono appunto i paria dei cieli. Eppure, sebbene la Terra sia nel degrado e nella penuria energetica (tanto che vi vige la legge del sessagesimo: passati i 60, si è sottoposti a eutanasia, ahimè...), il governo fondamentalista dell'Alto Sacerdote e del suo mefistofelico segretario concepisce un malvagio piano "terrorista": bombardare la galassia proprio con i virus di cui la Terra è piena, spopolare l'universo e infine conquistare il comando supremo. Più distopia di così! È quasi la distruzione totale... Però, alla fine, il diabolico progetto è sventato dai terrestri "buoni", più un archeologo di Sirio (che s'innamora della figlia dello scienziato, superando i pregiudizi spaziali – un'unione "correttamente" interculturale) e soprattutto un nostro contemporaneo, sbucato attraverso la distorsione temporale e dotato per "synapsification" di superpoteri mentali. Il riassunto basta a mostrare l'uso "condizionato" della situazione distopica, che deve concludersi a maggior gloria degli eroi positivi. Non per nulla, il motto che apre e chiude questo romanzo del primo Asimov è precisamente il contrario del pessimismo; il motto dice, infatti: "Il meglio deve ancora venire" ("The best is yet to be": è la citazione di un verso di Robert Browning, cfr. Asimov 1950, pp. 13, 240). E però Pebble in the Sky ha un suo effetto di straniamento – noi siamo terrestri, ma non possiamo "tenere" per i terrestri – e coglie in anticipo un punto di forte attualità: la possibilità che proprio i diseredati, facendo forza sulla loro disperazione e sul fatto che non hanno niente da perdere, possano trasformare la loro sconfitta in un'arma micidiale. Al limite della distopia arrivano anche altri classici della fantascienza, come The Three Stigmata of Palmer Eldritch di Philip Dick (1965, Le tre stimmate di Palmer Eldritch ). Qui i consueti elementi del "sistema" dickiano – il sensitivo "precog"; un potente o due, senza scrupoli; la donna piacente e preferibilmente infedele; la piccola comunità – sono messi sullo sfondo del fallimento delle "magnifiche sorti" del futuro fantascientifico.

L'emigrazione sui pianeti non ha portato che noia e sfiducia, una vita extraterrestre sopportabile solo con l'ausilio di droghe che consentono l'evasione in realtà artificiali. Fino al potentissimo allucinogeno che Palmer Eldritch diffonde e che costituisce l'alienazione totale: basta assumerlo una volta e si è coinvolti nel suo universo, dove egli è onnipresente e tutti sono lui, segnati con le tre "stimmate" (il braccio meccanico, i denti impiantati, gli occhi lenticolari). Il testo rimane in bilico tra l'interpretazione positiva e quella negativa: se lo intendiamo come allegoria metafisico-religiosa, Eldritch è Dio e promette la vita eterna (lui stesso continua a esistere dopo essere stato ucciso... e poi "eldritch" significa "soprannaturale"); se lo intendiamo come allegoria socio-economica, l'inflazione di Palmer Eldritch prefigura l'invadente pressione della comunicazione sull'immaginario nel mondo globale. E se lo intendiamo come incubo psicoanalitico? Eldritch=figura paterna ossessiva? Oppure, l'intero testo come allegoria del solipsismo? Dick, in questo che è ritenuto da molti il suo capolavoro, mantiene l'esitazione, anticipando il tema postmoderno della mescolanza di realtà e finzione: non sapremo mai se Palmer Eldritch sia una forma di vita aliena oppure un losco trafficante; né sapremo mai se i suoi nemici riusciranno a ucciderlo davvero o rimarranno soltanto a svolgere un ruolo prefissato nel suo mondo immaginario.

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Pagina 196

1985: Galàpagos di Kurt Vonnegut


Le distopie di Kurt Vonnegut sono animate e spesso addirittura travolte da una carica umoristica. Nella prima parte di questo libro abbiamo già incontrato Player Piano (1952), il primo romanzo dell'autore, che preconizza con lungimiranza la società della "fine del lavoro". Ma la polemica contro le "magnifiche sorti e progressive" dell'umanità, illusa in un percorso in avanti tutto lineare e infinito, continua anche nelle opere successive.

Soprattutto, Vonnegut si appoggerà su un uso straniante della fantascienza e utilizzerà alcune figure ritornanti, come Kilgore Trout, suo alter ego, autore di narrativa di serie B, oppure gli alieni di Tralfamadore, provenienti dalla Nebulosa di Magellano. Così, in The Sirens of Titan (1959, Le sirene di Titano ) l'odissea nello spazio che conduce da Marte ai satelliti di Saturno serve per stigmatizzare lo scarso valore delle cose umane, perché si scopre che la Terra non è altro che il veicolo elaborato per far pervenire un pezzo di ricambio all'astronave in panne di un inviato spaziale, portatore di un messaggio per l'universo – ma un messaggio del tutto banale e risibile: "Greetings", saluti! Più pienamente distopico è il successivo Cat's cradle (1963, tradotto, alludendo a un altro elemento della storia, Ghiaccio nove), dove una invenzione bislacca finisce per congelare il mondo intero, tra nuove religioni giocose e strofette di calipso come questa:

    Uno di questi giorni
    il mondo finirà,
    E ciò che ci ha prestato
    Dio si riprenderà.
    Tu sgridalo se vuoi
    Ma lui sorriderà
(Vonnegut 1963, p. 203)1

Dal canto suo, Slapstick (1976, Comica finale ) viene raccontato da un superstite che vive in mezzo a variopinte "famiglie" tribali e sedicenti nuovi "regni", tra le rovine di Manhattan. Qui l'America è stata spopolata da una micidiale malattia, cui – per distinguerla dai già troppi morbi "rossi" (da Poe a London) – viene attribuito il colore verde, la "Green Death", accompagnata per soprammercato dall'"Albanian Flu" (l'influenza albanese). Che, in fondo, la rovina totale non sarebbe una gran perdita, lo attestano diverse sentenze pronunciate qua e là dal nostro autore, a proposito della "fine del mondo" come: "E sarebbe ora, tra l'altro" (Vonnegut 1973, p. 31). Oppure: "Il Mondo perlomeno finirà. È questo un evento che tanti attendono con grande gioia" (Vonnegut 1990, p. 11). Ancora: "la fine del mondo non arriverà mai abbastanza presto" (Vonnegut 1997, p. 14). E, in un recentissimo scritto autobiografico: "secondo me il pianeta Terra farebbe bene a sbarazzarsi di noi" (Vonnegut 2005, p. 97).

Umorismo nient'affatto leggero, quindi, ma incentrato su ben pesanti realtà, soprattutto sul tema devastante della guerra: un tema che innerva il capolavoro di Vonnegut, Slaughterhouse-Five (1969, Mattatoio n. 5 ), basato sulla testimonianza degli orrori della seconda guerra mondiale e, in particolare sul bombardamento di Dresda; ma che si ritrova in Hocus Pocus (1990), con i ricordi del Vietnam; in Deadeye Dick (1982, Il grande tiratore), dove invece esplode su Midland una sperimentale bomba al neutrone. Meno esiziale, ma nondimeno ironicamente graffiante sarà Timequake (1997, Cronosisma ), il cui guaio è soltanto un blocco temporale che costringe a rivivere pari pari gli ultimi dieci anni, a controcanto delle teorie diffuse sulla "fine della storia" e certamente a derisione del "libero arbitrio" (un altro dei temi su cui si appunta la satira di Vonnegut).

Ma il testo che vorrei trattare qui con maggiore spazio e Galápagos (1985), che si contraddistingue sia per il trattamento ironico della distopia, sia per la particolare costruzione narrativa. È un testo degli anni Ottanta, ambientato in Ecuador, in una zona del sottosviluppo che ormai si trova investita dal vento della globalizzazione. Il carattere predominante del capitalismo non è più la produzione ma il consumo e il denaro tende a "smaterializzarsi", a gonfiarsi nella bolla finanziaria o a scorrere nei rami della rete informatica. Così Vonnegut:

A quel punto, gran parte del denaro detenuto nelle banche americane era diventato così immaginario, impalpabile, inconsistente, che qualunque ammontare del medesimo poteva essere trasferito seduta stante in Ecuador, o in qualunque altro luogo in grado di ricevere un messaggio via radio o telegrafico (Vonnegut 1985, p. 80).

È un mondo che non riesce più a raccapezzarsi, in una crisi economica diffusa non solo tra i paesi per antonomasia poveri (nella lista dei paesi in "bancarotta" l'autore include anche Stati europei, come Irlanda e Belgio e perfino l'Italia), e questo intensifica le tensioni e lo stato di guerra, che sfocerà, nel punto culminante del racconto, nell'attacco dell'aviazione peruviana all'Ecuador – uno scontro di confine latente che si verificherà davvero, anni dopo. Gli è che la guerra è ormai diventata una condizione normale; una guerra permanente che giustamente, nel libro, viene definita "World War Three", terza guerra mondiale. Su questo panorama, già sufficientemente disastroso, la ciliegina sulla torta sarà un virus portatore di sterilità, che decreterà la fine dell'umanità sulla Terra. Quella di Galápagos sarebbe dunque, se la volessimo classificare, una distopia di estinzione, sul tipo di Aldiss 1964 e di James 1992. Senonché Vonnegut indica il suo esito "apocalittico" e il suo agente invisibile soltanto di passaggio:

Un essere vivente sconosciuto, invisibile a occhio nudo, divorava tutte le uova delle ovaie umane. (...). Le donne (...) venivano colpite da una leggera febbre, che andava e veniva nell'arco di un giorno o due, e che talvolta annebbiava la vista. Dopo di che si ritrovavano nelle esatte condizioni della Hepburn [è la protagonista del romanzo, che non ha avuto figli e non può averne]: non avrebbero più potuto mettere al mondo dei bambini. Non ci fu modo di trovare un antidoto che arrestasse il diffondersi del morbo: la malattia sarebbe dilagata praticamente ovunque (Vonnegut 1985, p. 170)3.

A differenza dei suoi affini tematici, qui la storia della "fine generazione" rimane quasi del tutto fuori del racconto, che si focalizza esclusivamente sul piccolo gruppo di personaggi che approderanno alle isole Galápagos, unico luogo rimasto esente dal virus. Ancora una volta, ci vuole un'isola. Ma le Galápagos non sono isole qualunque. Sono, infatti, le isole in cui si sono preservate alcune specie naturali (tartarughe, iguane, e quant'altro). E sono le isole di Darwin (non a caso la nave da crociera che diventerà una "seconda Arca di Noè", ha per nome Bahía de Darwin), che hanno dato da pensare alla teoria dell'evoluzione. In fondo, a veder bene, Vonnegut, tra le lame taglienti della sua ironia, fa proprio un elogio dell'evoluzione. Solo che sarebbe sbagliato pensare all'evoluzione come una "selezione del migliore" che pervenga trionfalmente all'apice nell'uomo come signore e padrone della natura. L'evoluzione (e la fauna delle Galápagos sta lì a dimostrarlo) può compiere anche delle scelte strane e incomprensibili. Come non è chiaro agli studiosi il modo in cui certi animali siano potuti arrivare su quelle isole, così vi sono nella natura misteriose permanenze (lo "schema di sopravvivenza" della iguana marina, rimasto invariato nel tempo), come pure bizzarri scherzi (l'uccello-vampiro) o soluzioni chiaramente non funzionali, veri e propri errori. Ma se così è, allora l'evoluzione può correggersi. È questa l'ipotesi del libro che riguarda il principale errore della selezione naturale, cioè l'ipertrofia del genere umano.

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1995: Ensaio sobre a Cegueira (Cecità) di José Saramago


Nel caso di Saramago , l'ago tra utopia e distopia sembrerebbe oscillare di più dalla parte della speranza. E sì che le situazioni pesantemente negative non mancano nella sua narrativa. In A Jangada de Pedra (1986, La zattera di pietra ), tutta la penisola iberica si stacca dal continente, iniziando una capricciosa "deriva" nell'oceano, con conseguenze di panico, migrazioni, sconvolgimenti. A Caverna (2000, La caverna ) rappresenta in un enorme edificio quadrangolare, il "Centro", la quintessenza del nuovo dominio economico del consumismo, un dominio assoluto, inumano e mortale. Di Ensaio sobre a Cegueira (1995, Cecità ), con i suoi ciechi abbandonati nell'orrore di una società in disfacimento, parlerò tra poco dettagliatamente. Dunque, il quadro della distopia c'è, eppure l'esito è regolarmente quello della soluzione positiva. Il protagonista di Saramago riesce sempre a conservare la propria umanità, tanto che non è mai solo, ma preferibilmente unito in una coppia. L'amore alla fine vince. Fondamentali sono, in questo senso, le figure femminili, ma molto spesso funziona da simbolo catalizzatore anche un animale, il cane, presente, con sfumature quasi-magiche, a sottolineare la solidarietà come norma naturale. Se si considera che perfino la morte (nell'ultimo Saramago del 2005) finisce per innamorarsi, allora è detto tutto. Si può fare una verifica sulla prima distopia dell'autore, che è una distonia poetica. Scritto a ridosso di un tentativo rivoluzionario fallito nel 1974, poco prima della caduta del regime fascista in Portogallo, O ano de 1993 (1975, L'anno mille993) descrive nei suoi versetti una città sottoposta a occupazione militare esacerbata e prostrante. Particolari punte di spietatezza (che vanno al di là di Orwell e degli altri classici della distopia) si possono rinvenire, tra l'altro, nell'immaginazione di un penitenziario trasparente che offre agli sguardi di curiosi spettatori la vita intima dei reclusi e la loro tortura; oppure nei calcolatori alimentati con carne umana. Tuttavia, dopo essere passato attraverso l'espropriazione e l'abiezione più acute, il popolo alla fine riconquista la libertà ("Ancora una volta infine il mondo").

Ma adesso vorrei analizzare più a fondo l' Ensaio sobre a Cegueira (tradotto in italiano, in modo a dire il vero un po' semplificato, eliminando il riferimento al "saggio" e lasciando solo la cecità). Vi si narra l'improvviso apparire di una malattia degli occhi fulminante e contagiosa. Per gli esperti le cause sono ignote e i rimedi mancano. In un primo tempo, le autorità cercano di arginarla con l'isolamento e l'internamento dei contagiati, ma è chiaro che i ciechi, rinchiusi e abbandonati a se stessi, non sono in grado di sopperire alle minime esigenze, mentre per di più si offrono inermi alle angherie dei prepotenti che, in breve, trasformano il ricovero in un inferno. Senonché, al di là di tutti i tentativi di contenimento, l'epidemia dilaga e non ci sono più reclusorii che tengano: tutto il paese è popolato di ciechi che vivono di espedienti in attesa dell'esaurimento delle risorse rimaste, attaccati alla provvisoria sopravvivenza. Infine, tanto di botto com'era venuta, la malattia scompare. Da questo sommario riassunto si può derivare l'architettura del testo, che è diviso in: una prima parte che serve da prologo, in cui vengono raccontati i primi casi di cecità e le prime reazioni; due grandi tranches narrative, dedicate una agli orrori del concentramento dei ciechi nell'ex manicomio, l'altra all'attraversamento della città ormai interamente abitata da non-vedenti; infine, un brevissimo epilogo, dove avviene la sorpresa dell'inattesa guarigione.

Notiamo che, fin dall'inizio, Saramago descrive il fenomeno come qualcosa di inusuale. La cecità del suo romanzo, infatti, non è l'oscuramento e il nero del buio, ma al contrario è un "male bianco", la visione di un'uniforme e lattea luminescenza. Così è descritta l'esperienza del personaggio che per primo ne viene affetto e che, nel corso del testo, sarà denominato il "primo cieco":

(...) si ritrovava immerso in un biancore talmente luminoso, talmente totale da divorare, più che assorbire, non solo i colori, ma le stesse cose e gli esseri, rendendoli in questo modo doppiamente invisibili (Saramago 1995, p. 8)1.

La patologia non solo non è contemplata dalla scienza medica, ma risulta assolutamente inspiegabile, non ha sintomi né consente rilevamenti di virus, non ci sono meteoriti o lampi verdi, come accadeva in The Day of the Triffids (1951, Il giorno dei Trifidi) di Windham. Forse si diffonde per contatto o per vicinanza: un primo personaggio diventa cieco mentre guida l'automobile davanti a un semaforo, poi diventa cieco chi lo soccorre, poi il medico che lo visita, poi la moglie, poi anche gli altri pazienti che erano con lui all'ambulatorio, precisamente una ragazza con gli occhiali scuri (che fa la prostituta e che perderà il lume degli occhi al culmine di un orgasmo), un vecchio dalla benda nera (che deve operarsi alla cataratta all'unico occhio buono e quindi passa, per ironia della sorte, dal pericolo della cecità alla cecità completa) e un ragazzino strabico. Mi soffermo sulla descrizione di questi personaggi perché Saramago, sebbene il suo romanzo sovrabbondi di comparse e di scene di massa, tra risse e resse, non mollerà più questi iniziali, che andranno a formare il gruppo, la micro-comunità, il nucleo umano residuo nel dissolversi dei vincoli sociali. Con l'aggiunta di un altro personaggio, fondamentale e centrale, che è la moglie del medico; che non ho nominato tra i precedenti perché è l'unica esente dal male, l'unica che resta in grado di vedere nell'universale cecità. Questo privilegio non solo la rende indispensabile sul piano pratico, per l'aiuto ai ciechi, tra i quali rimane fingendosi cieca anch'essa in modo da non abbandonare il marito; ma è importante anche sul piano narrativo, perché la presenza del suo punto di vista consente al narratore di focalizzare alternamente una prospettiva "dal di dentro" in cui è sparito il senso visivo e una prospettiva "dal di fuori" in cui può essere inquadrato lo stato di degrado.

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