Autore Marco Pacini
Titolo Pensare la fine
SottotitoloDiscorso pubblico e crisi climatica
EdizioneMeltemi, città, 2022, Linee 158 , pag. 152, cop.fle., dim. 14x21x1,2 cm , Isbn 978-88-5519-575-1
PrefazioneFranco Farinelli
LettoreCorrado Leonardo, 2022
Classe ecologia , economia , filosofia , antropologia , inizio-fine , natura-cultura












 

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Indice


     Prefazione
  7  Viaggio al termine del futuro
     Franco Farinelli

 13  Esercizi preparatori

 19  Introduzione


     Capitolo primo
 31  Way of life
 31    1.1. Numeri
 35    1.2. Parti in commedia
 43    1.3. Bla bla bla


     Capitolo secondo
 55  L'altro pensiero
 55    2.1. Totalitarismo
 59    2.2. Se Sapiens perde il centro
 66    2.3. Ostacoli
 74    2.4 Nuovo inizio?


     Intervallo
 85  Green


     Capitolo terzo
 49  In trappola


     Capitolo quarto
103  Il clima delle parole
103    4.1. Metamorfosi
111    4.2. Crescita (economica e demografica)
117    4.3. Capitalismo
119    4.4. Democrazia
122    4.5. Giustizia
126    4.6. Etica


     Capitolo quinto
131  Dopo la festa
131    5.1. E se la smettessimo col "post"?
136    5.2. La grande ritirata
139    5.3. Inventare futuri?
141    5.4. O immaginarli?


 

 

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Pagina 13

Esercizi preparatori


Proviamo a immaginare di essere il portavoce dei 39mila miliardi di batteri che costituiscono il nostro microbiota. Saremmo lamentosi, rivendicativi: "A nome di tutti gli altri simbionti che convivono con te, Sapiens, da molto prima che ti definissi tale; e con te, mio specifico ospite, da quando sei sbucato dalla placenta, mi oppongo all'avviso di sfratto che ci hai inviato. Noi, che in fondo siamo più numerosi di tutte le tue cellule, ci opponiamo alla tua volontà di estinguerti senza averci consultati".

Ora immaginiamo di essere un asteroide delle dimensioni del suo "collega" di Chicxulub. Con la differenza che noi siamo un asteroide sapiens. E in quanto tale potremmo decidere di deviare la rotta prima di colpire quel pianeta. Ma non lo facciamo; non vogliamo perderci una sola goccia di quei mari i cui contorni si fanno via via più netti, non una foglia di quelle foreste che iniziamo a vedere nella nostra corsa man mano che ci avviciniamo. Siamo disposti a diventare incandescenti a contatto con l'atmosfera, a schiantarci, per far nostro quel bendidìo. Perché siamo fatti per toccarlo, per goderne.

Infine, terminati gli esercizi di immaginazione, possiamo archiviare il lamento del batterio e la corsa a perdifiato dell'asteroide sullo scaffale delle metafore banali, ovvie, letteralmente elementari, che descrivono la nostra attuale condizione di specie catastrofica. Ma potremmo anche esitare, trattenerci nella banalità, nell'ovvietà, fino a "sentirci" batterio o asteroide, in una vertigine micro-macro di elementi.

Non consideriamo forse ovvio il mondo, o almeno il "nostro" mondo, ma guardandoci bene dall'archiviarlo?

È vero: potremmo trasferire l'intero microbiota umano in un confortevole caveau, come abbiamo fatto con i semi allo Svalbard Global Seed Vault, costruito "per resistere alla prova del tempo e alle sfide dei disastri naturali provocati dall'uomo". Ci vantiamo di essere anche una specie protettiva, in fondo. E alcuni di noi potrebbero lasciare l'asteroide un momento prima dello schianto, per osservare lo spettacolo cosmico da una stazione spaziale o da Marte. E poi magari tornare sulla Terra da turisti, come già è stato suggerito da uno dei tre cavalieri dell'apocalisse.

Era questo, alla fine, l'andito delle specie? Diventare spettatori spaziali di un film horror? E se la storia geologica e biologica beffasse quella della tecnoscienza sorpassandola all'ultima curva, prima del decollo? E se il batterio ci inchiodasse alla nostra fratellanza con lui, a questa "intimità strana" che ci ricorda che ciò che chiamiamo umano "è più simile a un insieme o a un assemblaggio di cose che non sono strettamente umane (prive di DNA umano per esempio)...", che non a un "proiettile spirituale"?

Ci ritroviamo inchiodati a una materia senza "ismo", pura materia, elementare. E annaspiamo. Siamo nati dal congedo dalla materia condivisa, relazionale, inventando la Natura, anch'essa ormai privata del suo "ismo", se non come residuo che si mostra nella nostra postura di guardoni "amanti della natura", almeno finché non ci "cadrà sulla testa". Inchiodati alla materia che ci avvolge nella biosfera, in solidarietà con quel non umano che ci ricorda a muso duro l'attualità di ancestrali parentele; e perturbati dallo "spaventoso" che, come ci ha insegnato Freud, alligna in ciò che sappiamo, che ci è familiare, come l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo.

Viviamo nell'epoca che ha inaugurato la consapevolezza di quanto sia stata illusoria una distinzione troppo netta tra la storia dell'umanità e quella del pianeta, come fossero due narrazioni in lingue intraducibili. Nell'epoca che ci svela l'agentività del non umano, della materia che si fa soggetto capace di azioni irriducibili al sapere-potere della nostra specie. Ma si tratta di una consapevolezza e di uno svelamento impotenti, zittiti dal desiderio. "Se non comprendiamo la modernità come oggetto di desiderio - ha osservato Dipesh Chakrabarty - non possiamo capire perché essa resti apparentemente valida nonostante i suoi numerosi ed evidenti problemi".

Noi Sapiens, o meglio la parte di noi che abita quel Nord del mondo senza latitudine, in fondo non vorremmo altro che normalità. La normalità dell'Olocene; ma anche la normalità del Moderno, che frequentiamo come ovvio a dispetto del fatto che non lo sia affatto per l'intera specie in quanto tale. Sorpresi da noi stessi, dal conflitto che abbiamo innescato tra le due normalità, non possiamo farcene una ragione. Comanda il desiderio. Chiediamo poco in fondo: il mondo.

La filosofia del Novecento ci ha insegnato (con Wittgenstein ) che "il mondo è tutto ciò che accade". Solo che il pianeta scalcia per sottrarsi alla sinonimia con "mondo", facendoci sospettare che sia la Terra "tutto ciò che accade". La filosofia ci ha insegnato anche (con Heidegger ) che ciò che "ci" costituisce ontologicamente rispetto agli altri enti, viventi e non, è l'essere-nel-mondo". Ma come la mettiamo quando c'è tutto un fuori che "parla" minacciando di smontare il teatro dell'"Esser-ci", suggerendoci una riformulazione ("essere-nella-biosfera") più coerente con la presa d'atto dell'agentività del pianeta?

Timothy Morton , proprio rifacendosi a Heidegger, osserva che il concetto di mondo "funziona se alcuni esseri lo possiedono e altri no". Ma quando, "come Jacob von Uexküll , inizi a comprendere che tutte le forme di vita sono dotate di mondo, ti vedrai automaticamente costretto a ridimensionare íl concetto, fino quasi a renderlo vuoto".

Tutto questo significa che dovremmo gettare al macero, insieme al "mondo", anche il pensiero del e sul mondo per il solo fatto che era un pensiero monco o smemorato? Che dovremmo sbarazzarci dell'ontologia logica di Wittgenstein, di quella esistenziale del primo Heidegger (per non parlare di quella fenomenologica del "Mondo della vita") e in definitiva di tutto il pensato di quella cosa che chiamiamo cultura (occidentale)? O in altre parole, che dovremmo mandare al macero tutto ciò che puzza di soggetto (umano)?

L'antropologia recente si de-antropizza, percorrendo sentieri ancora poco frequentati dalla filosofia marchiata a fuoco dall'"io specista". E prova a insegnarci, per esempio, "come pensano le foreste" (o i batteri...), per farci risintonizzare con l' Altro vivente (e non) attraverso un lavoro archeologico che riporta alla luce interconnessioni tali da farci sospettare che si trattasse dello Stesso.

Ma per tenere i piedi per terra non possiamo decretare tout court la fine dell'antropocentrismo, o almeno non potremmo/dovremmo scambiare la critica radicale delle sue premesse e dei suoi effetti con la liquidazione di un'idea di soggetto propriamente umano. Potrebbe trattarsi di un gesto equivoco, deresponsabilizzante. La stessa "ecologia profonda", mentre vuole fondare un'ontologia ambientale che non riserva alcuna collocazione speciale alla nostra specie, postula il passaggio dal "sé" a un "sé ecologico" nei termini di una maturazione, autorealizzazione. Danowski e Viveiros de Castro lo spiegano in modo lapidario:

[...] un antropocentrismo alla rovescia resta pur sempre un antropocentrismo, anzi l'unico antropocentrismo realmente radicale, così come gli europei che bruciavano gli idoli erano [...] gli unici feticisti a credere davvero all'irrealtà dei feticci...

Non siamo un batterio e nemmeno un asteroide. Possiamo solo immaginarli, immedesimarci, fare esercizi. Tocca a noi Sapiens pensare la fine per evitarla, con i nostri strumenti. Magari insieme a tutto ciò che là fuori da sempre parla. Ora più forte.

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Pagina 19

Introduzione


Dovremmo prendere sul serio la possibilità della Fine? Ma soprattutto: siamo in grado di farcene carico? Tra una risposta affermativa alla prima domanda e una negativa alla seconda - con le relative "prescrizioni" - si apre la possibilità della catastrofe, figlia del doppio vincolo che cí paralizza, ci inchioda a una modernità che ci mostra insieme la sua tossicità e la sua ineluttabilità. Una tarda-modernità "fuori controllo" che rende più evidente quello che Günther Anders chiamava (in altro contesto, ma con un'espressione attualissima) "dislivello prometeico", per descrivere "l'asincronizzazione ogni giorno crescente tra l'uomo e il mondo dei suoi prodotti", o in altre parole l'incapacità di homo faber di prevedere gli esiti del suo illimitato fare.

La Fine maiuscola di cui parliamo naturalmente non riguarda la numerosa famiglia di concetti di cui abbiamo già celebrato il funerale apponendo il prefisso "post" sulla loro lapide (modernità, politica, democrazia, verità...), o almeno non riguarda il "modo" in cui le abbiamo seppellite. Riguarda, più semplicemente, la fine del mondo (umano). Una Fine con cui intratteniamo contemporaneamente un rapporto di confidenza e distanza, grazie a una sovrapproduzione letteraria e cinematografica, nella doppia versione della distopia ecologica e tecnologica (si vedano, per esempio, le saghe di Mad Max e Matrix ): un'autentica industria della sublimazione che squadernando scenari di un "uomo senza mondo" vela quello di un "mondo senza uomo", vale a dire quello della nostra fine come specie.

Le ragioni per cui dovremmo prendere sul serio la parola Fine sono da qualche decennio fin troppo note e numerose per doverle qui ricordare. Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro osservano - tra gli altri - che il riscaldamento globale e la catastrofe ambientale in corso sono "uno dei fenomeni meglio referenziati della storia della scienza".

Il monitoraggio dei processi biofisici del sistema-Terra segnala da tempo la prossimità o l'oltrepassamento di "tipping points", di limiti oltre i quali le condizioni ambientali e la sopravvivenza di molte specie (tra cui la nostra) sarebbero incompatibili. Sono soprattutto le scienze che la modernità aveva relegato tra le "minori" a segnalarci la grande discontinuità, ad avvertirci che l'assenza di futuro potrebbe essere già iniziata, per dirla ancora con Anders. Sono le retroazioni del sistema-Terra al progresso che sottraggono la parola Fine all'ambito escatologico per consegnarla alla cronaca. Danowski e Viveiros de Castro traducono le evidenze scientifiche sintetizzando in modo efficace la discontinuità sul piano dell'antropologia filosofica:

[...] c'è il sentimento crescente [...] che i due attanti della nostra mito-antropologia, l'"umanità" e il "mondo" (la specie e il pianeta, le società e i loro ambienti, il soggetto e l'oggetto, il pensiero e l'essere) siano entrati in una congiunzione cosmologica nefasta, associata ai nomi controversi di "Antropocene" e "Gaia".

Sono nomi con cui abbiamo ormai una certa dimestichezza, senza tuttavia prenderli davvero sul serio, considerando che il primo designa un tempo del tutto nuovo, in cui "l'ambiente cambia più velocemente della società e il futuro prossimo diviene non solo sempre più imprevedibile, ma forse sempre più impossibile"; e che il secondo, Gaia, ci toglie letteralmente la Terra da sotto i piedi, costringendoci a vedere il suo nuovo volto: non più il Pianeta blu che accoglie la vita, la Natura come oggetto di fronte a un soggetto, res extensa; ma piuttosto come "fondo" heideggeriano che improvvisamente reagisce alle provocazioni della tecnica svelandosi come potenza minacciosa capace di erodere le fondamenta stesse della modernità.

[...]

L'eredità religiosa del pensiero escatologico resta tuttavia in gioco in influenti correnti di pensiero: dall'accelerazionismo alla teoria della singolarità. E al traguardo del secolo di vita anche James Lovelock , al quale dobbiamo il concetto di Gaia, ha abbracciato un'escatologia hi-tech considerando l'Antropocene il nostro destino ormai compiuto, mentre siamo già entrati nel "Novacene", l'era in cui, grazie alla tecnologia, la fine del mondo umano è in realtà il suo compiersi, l'esaurirsi di un compito e l'inizio di un "al di là" sintetico. L'era in cui "i cyborg viventi usciranno dall'utero dell'Antropocene". L'era di una nuova Gaia "che indosserà un nuovo manto inorganico". Chi, meglio di Lovelock, potrebbe prendere sul serio la parola Fine? Ma l'escatologia tecnologica del padre di Gaia non prevede una "cura" della Fine, nel senso di cura delle retroazioni di Gaia all'agire umano per garantire una persistenza-permanenza dell'umano. È già tutto scritto, il destino sta per compiersi, senza pianti né rimpianti:

Probabilmente alla fine la Gaia organica morirà, ma proprio come non piangiamo per la scomparsa delle specie nostre antenate, allo stesso modo i cyborg non saranno distrutti dal dolore per la scomparsa degli esseri umani.

I tecno-evangelismi del nuovo mondo, che hanno i loro think-tank come il Breakthrough Institute, si ostinano invece a preservare l'umano, rispondendo affermativamente a entrambe le domande: sì, prendiamo sul serio la possibilità della Fine e stiamo mettendo in campo tutta la potenza del Capitale per farcene carico, scongiurandola. Ci penserà ancora una volta il dio mercato, cogliendo tutto il potenziale dell'economia green e dell'ingegneria climatica!

Alex Williams e Nick Srnicek, nel loro Manifesto accelerazionista , offrono una variante "di sinistra" al potere salvifico del Capitale come creatore del mondo nuovo o dell'uomo senza (vecchio) mondo, propugnando una "politica prometeica" di massimo controllo sulla società e sul suo ambiente. Ma questa accelerazione intenzionale della macchina capitalista (per superarla), posta come soluzione alla nostra attuale miseria antropologica, "si trova in contraddizione oggettiva con un'altra accelerazione per niente intenzionale: l'implacabile processo di retroazione positiva delle trasformazioni ambientali deleterie per l' Umwelt della specie". In altre parole: non faremo in tempo.

[...]

Ecco allora che farsi carico della parola Fine, una volta presa sul serio, significa prendere atto che nulla più è dato. Che le conquiste "liberali" potrebbero avere una scadenza ecologica. La libertà, la democrazia, í diritti individuali potrebbero dover subire una mutazione, perché nell'Antropocene gli esseri umani sono "irrimediabilmente prigionieri della loro instabile relazione con il funzionamento complessivo del Sistema Terra".

Questa nuova condizione di "prigionia" cui saranno costrette le prossime generazioni - e che solo la nostra "grande cecità" ( Amitav Ghosh ) ci impedisce di vedere - farà piazza pulita di gran parte degli ingredienti che riempiono l'agenda politica della contemporaneità, e forse della stessa teoria politica, che è "parecchio indietro rispetto alla chimica atmosferica e all'oceanografia fisica".

[...]

Lo "smottamento" provocato dalla presa sul serio della parola Fine dovrà infine coinvolgere le ultime due parole, decisive, per sottrarre le politiche globali al doppio vincolo, tra doveri green e l'irrinunciabilità al benessere materiale. Si tratta, naturalmente, delle parole "crescita" e "demografia", che insieme costituiscono il grande tabù, l'autentico cortocircuito psicologico e culturale di cui sono vittime i Progressisti del Nord del mondo, quelli che vorrebbero salvare la loro anima verde e combattere le minacce sovraniste alla democrazia restando aggrappati a quelle due parole, che nell'Antropocene sono la quintessenza del sovranismo, visto che ciò che "fa bene" al mio Paese (maggiore ricchezza da distribuire e inversione del crollo della natalità) è precisamente ciò che la mia coscienza ambientalista dovrebbe considerare nocivo - se non fatale - una volta applicato su scala planetaria.

Sull'impossibilità della crescita esiste una vasta letteratura. Più complicato affrontare il tabù demografico. Almeno nei termini che un pensiero della Fine richiede. Ha provato a farlo Donna Haraway immaginando un mondo in cui la natalità è una scelta collettiva che viene presa insieme proprio perché si conoscono le conseguenze alle quali potrà condurre. Un mondo che dovremmo sperare abitato da non più di due o tre miliardi di persone. L'adozione di un pensiero della Fine (per evitarla) che consenta di rispondere affermativamente alla doppia domanda iniziale, non può che essere un gesto radicale, radicalmente politico. Una rivoluzione dei Terrestri contro i Moderni, nei termini di Bruno Latour. Anzi una guerra - secondo il filosofo francese - combattuta in nome di una ritrovata razionalità finalmente sottratta all'"appropriazione indebita", al monopolio nefasto dell'economia.

Lasciamo ancora una volta la parola a Bruno Latour, uno dei pensatori che per primi, e più a fondo, hanno scandagliato la "condizione umana" nella nuova era, prendendosi cura della parola Fine.

La fusione dell'escatologia e dell'ecologia non è una caduta nell'irrazionalità, una perdita di controllo o una sorta di adesione mistica a un mito religioso ormai superato; è, bensì, necessaria se vogliamo fronteggiare la minaccia e smettere di giocare a compiacere i fautori della pacificazione che continuano a differire, ancora una volta, l'imperativo di tenersi pronti alla guerra. L'apocalisse è un appello a essere finalmente razionali, a tenere i piedi per terra.


In questo libro si proverà a suggerire l'adesione a quell'appello, indagando la plausibilità di un diverso "pensiero della fine", minuscolo. Per imparare a "tenere í piedi per terra", in fondo, non basterebbe cominciare dal rovesciamento del celebre adagio secondo cui "è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo"?

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Pagina 32

La "boccata d'ossigeno" del 2020 dovuta ai lockdown imposti dalla pandemia è durata lo spazio di un mattino. Un rapporto del Global Carbon Project del 3 novembre 2021 stimava in 36,4 miliardi di tonnellate le emissioni globali dell'anno. In frenata? Niente affatto: secondo lo stesso rapporto nuovi valori record sarebbero stati raggiunti entro il 2022, al massimo 2023, stando anche ai trend stimati dal World Energy Outlook edizione 2021 pubblicato nell'ottobre dello stesso anno dall'Agenzia internazionale per l'energia (Iea).

Numeri. Possiamo confrontarli con quelli del giorno prima, dell'anno prima, o compiere una breve incursione nel tempo profondo per scoprire che le concentrazioni di anidride carbonica non sono mai state così alte negli ultimi due milioni di anni, mentre quelle degli altri gas climalteranti (come metano e ossido di azoto) si limitano a ottocentomila anni e le temperature artiche sono ai massimi da 44mila anni... Altri numeri, altre curve in direzione contraria, descrivono il collasso della biodiversità, la "sesta estinzione".

Che cosa significa? Tutto. I numeri e i grafici delle scienze che tastano il polso della biosfera rivendicano, anche se spesso in termini euristici, pretese totalitarie (sul totalitarismo della crisi climatica torneremo nel secondo capitolo) raccontando una storia di un futuro che potrebbe essere definitivamente interrotta dalla convalida senza testimoni delle loro proiezioni e andamenti. Di un futuro-discarica.

È curioso che una civiltà numerica, così propensa ad accettare la " dittatura del calcolo ", sia altrettanto ostile nei confronti dei numeri che raccontano la crisi climatica e la sesta grande estinzione. O forse non lo è affatto, se consideriamo che la calcolabilità economica e algoritmica, che informa già le nostre vite con pretese altrettanto totalitarie, si presenta come promessa di benessere, godimento, e non come possibilità di sofferenza, rinuncia, sacrificio.

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Pagina 43

1.3. Bla bla bla


Il discorso pubblico sulla crisi climatica vive nell'irrealtà di un mondo scaduto. Si accende di fronte allo "spettacolo" della prima pioggia in Groenlandia, ma in breve si ritira, come i ghiacciai. Si aggroviglia tra gli emicicli dei summit internazionali e le piazze dei ragazzi, che sono irrimediabilmente, semanticamente separate dai destinatari del loro urlo.

[...]

Tutto ciò che conosciamo, le azioni che compiamo, le parole di cui disponiamo, sono "al di qua» di quell'orizzonte, in questo mondo scaduto con il quale Sapiens deve chiudere i conti prima di poterne immaginare un altro. Lo potrà fare solo attraverso un pensiero della fine.

In questo frattempo che ci separa dalla presa d'atto che non saranno sufficienti gli attrezzi della modernità e del progresso tecnologico-estrattivo a riparare i danni che essi stessi hanno provocato, dovremmo fare esercizi. Ma gli esercizi preparatori per il passaggio dalla modernità a una post-modernità autentica, non estetica, non saranno più (o non solo) immaginifici. Dovranno essere esercizi di verità.

È così che mi piace interpretare l'attacco preventivo sferrato dalla più nota dei giovani attivisti climatici, Greta Thunberg , ai decisori che stavano prendendo posto attorno ai tavoli dell'ennesima Conferenza tra le parti dell'autunno 2021: mettete la verità al centro di quei tavoli.

Il 28 settembre 2021, intervenendo al Youth4Climate di Milano, Greta Thunberg scandì: "Non si può più andare avanti con il bla bla bla, green economy bla bla bla, decarbonizzazione bla bla bla». In assenza (o nell'attesa) di un pensiero della fine, quel bla bla bla - oltre che mediaticamente spendibile nella Commedia delle parti, come puntualmente avvenne - metteva sul tavolo un contenuto veritativo minimo, e tuttavia ancora troppo ingombrante per le "parti": la storia dei vertici sul clima dal 1992 al 2021 è la storia di un fallimento, nonostante le misure adottate e gli impegni presi di volta in volta e rivendicati come "successi» allo stesso modo in cui alla fine degli anni Ottanta un pugile amatoriale avrebbe potuto considerare un successo resistere per un minuto in un match con Mike Tyson.

È la storia delle reazioni del sistema-Terra a dirlo. Ma anche volendo restare alla cronaca di quei giorni precedenti e successivi alla Cop26 di Glasgow basterebbero alcuni esempi.

Mentre i delegati dei diversi Paesi erano impegnati in tira-e-molla diplomatici e nella definizione di obiettivi e impegni nemmeno lontanamente parenti di quelli sollecitati dalla comunità scientifica, la ONG tedesca Urgewald presentava uno studio che analizzava l'operato di 887 società petrolifere e del gas. Il rapporto illustra come le grandi società del settore avessero investito 168 miliardi di dollari nei tre anni precedenti alla Cop26 per esplorare nuovi giacimenti e che alla data 4 novembre 2021 c'erano 211.849 chilometri di oleodotti e gasdotti in via di sviluppo.

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Pagina 53

[...]

Che il credo green e la riconversione dello sviluppo sui binari del "sostenibile" siano in ritardo di diversi decenni (e ormai scaduti) è un sapere che fatica a riversarsi dai consessi scientifici a quelli politico-economici. La "buona volontà" dei decisori, dei sostenitori dei Green new deal che continuano a ritardare svolte radicali con il placebo verde, non si rivelerà alla fine nociva quasi quanto il veleno negazionista? La volontà "buona" che cosa deve sostenere se non la way of life?

Il linguaggio della sostenibilità è un prodotto del linguaggio che le grandi corporations utilizzano quando si interrogano sulle strategie da adottare per salvare i loro profitti, in un'epoca di grandi rivolgimenti nella selezione delle fonti energetiche

ha sintetizzato Timothy Morton.

Dietro il gioco di prestigio dello "sviluppo sostenibile" si staglia naturalmente il credo quia absurdum della crescita, parola buona solo nella commedia geopolitica ed economica che pretende infinite repliche nel "mondo-per-noi" ignorando il "mondo-in-sé", per usare l'efficace dicotomia di Eugene Thacker. Quel "mondo-in-sé" che quasi inascoltato continua a sussurrare le sue semplici verità, come quella sull'incompatibilità della circolarità economica con la crescita perpetua.

La sostenibilità che dovrebbe sottrarci alla morsa del doppio vincolo si rivelerà alla fine un moltiplicatore di doppi vincoli, di paradossi su cui è fondata la "svolta verde": guerra dei metalli rari con relative devastazioni ambientali, forme di neo-schiavitù, frantumazione letterale della Terra in nome della way of life.

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Pagina 55

Capitolo secondo

L'altro pensiero




2.1. Totalitarismo


L'avvento del telecomando, degli ipermercati e del web 2.0 sono stati alcuni tra i passaggi fondamentali dalla modernità come consumo alla sua evoluzione come consumo libero, consapevole e disintermediato, quasi illimitatamente e istantaneamente disponibile al suo godimento; strumenti di una fruibilità non differita. Il catalogo di un "mondo a portata di mano", in cui la possibilità di scegliere in pronta consegna una merce (alimentare, ludica, politica, culturale...) con il suo godimento, incorporato o immateriale, è diventata essa stessa godimento. O meglio: premessa e promessa di godimento di un bene al di là del contenuto intrinseco di soddisfazione del bene stesso.

Il Nuovo regime climatico si annuncia non solo come limitazione di godimenti materiali legati agli stili di vita praticati in un pezzo di mondo e agognati e programmati nel rimanente. Ma pretende anche di egemonizzare, monotematizzare, il mercato dell'immateriale, dell'immaginario, con una richiesta di attenzione totale, esclusiva, che limita significativamente le possibilità, la gamma delle scelte. Come di fronte a un canale unico senza telecomando, a un negozio mono-merce o alla comunicazione frontale e verticale.

[...]

Il totalitarismo digitale non solo nega con la sua stessa pervasiva presenza ed effettività l'affermarsi di quello climatico-ambientale: lo fa sparire con la bacchetta magica del sovraccarico che la mente di Sapiens già sopporta. Ma soprattutto: prova a svuotarlo di necessità e indifferibílità con la seduzione del soluzionismo. C'è un nuovo dio hi-tech che vede e provvede nella favola californiana (e ora anche cinese). E che nella sua onnipotenza non può farsi spaventare dalle retroazioni del sistema-Terra. Saranno tenute a bada, imbrigliate e addomesticate; il loro morso sarà reso inoffensivo per il progresso. Una favola, appunto.

Nella mitologia (o religione) hi-tech c'è posto per un infinito intrattenimento, ma non per l'ironia e il paradosso. Men che meno se si tratta di quel paradosso che occhieggia alla possibilità del "morire di vita" per effetto dell'unione in molecola di due dei quattro elementi che l'hanno inaugurata. I combustibili fossili (residuo della storia profonda, deposito di quella vita, e ora minaccia suprema per la stessa) sembravano essersi combinati alla perfezione per promuovere la vita a "vita degna di essere vissuta", affrancata dalla fatica, dalla miseria, finalmente fiorita nel benessere, nel movimento e nella fitness. Ma ora vengono dichiarati incompatibili con la vita stessa, salvo attingervi comunque a piene mani, nell'attesa che la favola hi-tech sveli il suo finale. Vengono sacrificati sull'altare dello "sviluppo sostenibile", di un'economia green alimentata da altri depositi e altre devastazioni. Tutto molto serio, naturalmente. Non c'è spazio per l'ironia nel totalitarismo tecno-soluzionista. E non c'è spazio (nella letteratura e nei media vecchi e nuovi) per raccontare "la storia più importante di sempre" (Amitav Ghosh) come essa pretenderebbe.

[...]

La pandemia da Covid 19 ha rappresentato una sorta di prova generale, ancorché parziale, di occupazione totalitaria del discorso pubblico, di richiesta di attenzione e consumo cognitivo ed emotivo quasi esclusivo. Ma oltre a rappresentare una parte, o un segnale, del tutto che chiamiamo devastazione ambientale e crisi climatica, la pandemia non annuncia ancora la probabilità del precipitare della crisi in una catastrofe. Annuncio che invece è gridato dalle retroazioni del sistema-Terra. Ed è proprio perché "la catastrofe costituisce un destino detestabile di cui dobbiamo dire che non lo vogliamo, che occorre tenere gli occhi fissi su di essa, senza mai, perderla di vista".

Naturalmente non facciamo altro che "perderla di vista" tra una Cop e l'altra, tra un evento meteo estremo e quello successivo, tra la commovente immagine di un mammifero che vede svanire il suo habitat e la scomparsa dell'ultimo lembo di un ghiacciaio. Manca un tessuto connettivo tra questi "fatti", che se ne restano lì, pagine del catalogo.

[...]

La politicizzazione qui auspicata del dibattito sull'antropocentrismo - certamente centrale e fecondo per una filosofia dell'Antropocene, ma altrettanto "rischioso" - conduce infine, e inevitabilmente, a un abbassamento dello sguardo dal livello teorico alla "miseria" della cronaca, quella sì umana, troppo umana. Un abbassamento che fa intravedere altri possibili "equivoci" tramite alcune ingenue domande. Sono anthropos "centrali" i migranti rinchiusi nelle prigioni libiche grazie ad accordi con i Moderni della sponda nord mediterranea? E quelli che nell'autunno del 2021 erano ammassati lungo un filo spinato al confine tra Bielorussia e Polonia? E i bambini congolesi che muoiono nelle miniere dove si estraggono i minerali necessari alla nostra transizione green? E gli amerindi decimati dai criminali ambientali in Brasile? In che senso sono anthropos? E dov'è la loro centralità? Se vogliamo dare una fisionomia al soggetto dell'antropocentrismo non troveremo quella dell'umanità in quanto tale e ci troveremmo costretti a "decolonizzare» il concetto, magari con l'ausilio degli studi postcoloniali, che ci suggerirebbero una fisionomia più precisa e circoscritta: uomo, bianco, "civile", fervente seguace della chiesa tecno-capitalista. Solo in questo senso potremmo allora avvalorare la sentenza di Morton, ma con un'aggiunta: "Quello di Antropocene è il primo concetto pienamente anti-antropocentrico"... perché non chiama in causa l' anthropos in quanto tale.

[...]

Nondimeno dovremmo riconoscere che se sull'altro fronte ci sono i Trump e i Bolsonaro la partita è più aperta, le regole del gioco più chiare, la necessità del contrattacco più impellente. Se, al contrario, il fronte avverso sfuma e la partita diventa una sorta di "amichevole" con i leader di buona volontà che governano la "transizione energetica", rischiamo di perdere consapevolezza, risucchiati nelle logiche del problem solving e della governance, vale a dire di una "cultura" che non solo ha devastato quel che resta della buona politica, ma che appare tragicamente inadeguata per affrontare la crisi climatico-ambientale. Una cultura egemonizzata da idiot savant dotati di grandi abilità e competenze in uno o diversi settori specifici e tuttavia segnati da gravi ritardi cognitivi nella comprensione del tutto che si annuncia come collasso in assenza di un pensiero della fine per sua natura radicale e totalitario.

[...]

Bo Elberling, direttore del Centro per lo studio del permafrost dell'Università di Copenaghen, ci ha ricordato la semplice verità che "quando i ghiacciai si sciolgono e l'acqua defluisce non si torna più indietro". Non più. E dal 2009 uno studio pubblicato su "Nature" (e successivamente aggiornato) ci ricorda il "non più" attraverso lo studio di nove confini planetari che non possiamo superare, pena la messa a rischio della sopravvivenza della specie. Come ha ricordato Johan Rockström (capo del team di scienziati del primo studio) anche in modo divulgativo nella primavera del 2021, abbiamo già superato almeno tre di questi limiti: la concentrazione dí gas serra e i cambiamenti climatici a essa legati; la perdita disastrosa di biodiversità e l'equilibrio della biogeochimica con la compromissione del ciclo dell'azoto e l'esaurimento di materie prime come il fosforo. E siamo molto vicini alla soglia critica per altri tre: il consumo di acqua dolce, i cambiamenti nello sfruttamento del suolo e l'acidificazione degli oceani. Dallo studio pubblicato su "Nature" (2009) i parametri esaminati nei centri di ricerca e i fenomeni visibili a occhio nudo testimoniano che la corsa verso la catastrofe continua tranquillamente: "business as usual".

E questo ingresso nel "non più» come prima di alcuni processi dell'Olocene fondamentali per la vita (della nostra e di molte altre specie) ci trova "non ancora" pronti a superare gli ostacoli che intralciano il cammino, o meglio la corsa, che dovremmo intraprendere per provare a evitare la fine del mondo attraverso una fine di questo mondo: nient'altro che questo significa familiarizzare con - far proprio - un pensiero della fine minuscola.

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Ma che cosa volete, tornare all'età della pietra? Chiedono i "progressisti" agli "apocalittici" sfoderando sorrisi ironici e ignari del fatto che loro stessi sono già pietrificati nell'impossibilità di continuare a coltivare il mito, a professare la religione laica del progresso, dell'infinito, in un mondo, in una Terra, finiti. Il nostro futuro, la nostra salvezza sembravano garantiti per sempre dall'economia del carbonio, l'essenza stessa del progresso. "La fede nel progresso automatico della storia, fede che vive da generazioni, ci ha tolto la capacità di prendere in considerazione una 'fine'", come osservava Anders.

Far coincidere un pensiero della fine con quello di un nuovo inizio richiede di "scomunicarsi", ripudiare questa fede, diventando "autentici materialisti", come suggerisce Bruno Latour. Superando "l'estrema riluttanza a tenere in considerazione l'attività della Terra [...] come qualcosa di inerte o passivo".

La Terra parla di una temporalità diversa, di un progresso capovolto. L'ascolto è un cammino. Per tentare di intravederlo do infine, e ancora, la parola a Bruno Latour:

Il nostro imperativo è dunque scoprire un percorso di cure - ma senza la pretesa, peraltro, di guarire in fretta. In questo senso, non sarebbe impossibile progredire, ma si tratterebbe di un progresso alla rovescia. Si deve infatti ripensare l'idea di progresso, retrogredire, scoprire un altro modo di sentire lo scorrere del tempo. Invece di parlare di speranza, bisognerebbe esplorare un modo sufficientemente sottile di di-sperare; il che non significa "disperarsi", ma piuttosto non confidare nella sola speranza come modo d'interagire col tempo che passa.

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Tuttavia, anche dove le leggi della materia dicono "stop", quelle dell'eco-marketing imperversano tra green economy e circular economy, una parte dell'altra ed entrambe in difetto di credibilità.

Anche una volta demistificata la retorica green, tuttavia, la domanda resta in campo. In definitiva: che cos'è, precisamente, che dobbiamo "sostenere"? La possibilità per la specie Homo sapiens di garantirsi un futuro anche a spese degli altri viventi? O quella di garantire a una parte degli umani lo stesso stile di vita (o almeno qualcosa che gli assomigli) che ha provocato la crisi, anche a spese dei rimanenti umani, oltre che degli altri viventi? Come si vede l'idea di "sostenibilità" richiama in causa quella di antropocentrismo con tutti i suoi equivoci. Anche se per molti è tutto chiaro. Infatti, scrive Morton:

[...] quando parliamo di sostenibilità, stiamo parlando principalmente di perpetuare una sorta di inquadramento temporale su scala umana, e questo necessariamente a spese degli altri esseri, dei quali è assai più probabile che non terremo affatto conto.

Da qui una risposta netta alla domanda "cosa sosteniamo?". "... [cos'altro] se non il tubo temporale agricolo taglia unica che nel suo decorso di dodici millenni e mezzo ha risucchiato al proprio interno tutte 1e forme di vita a mo' di aspirapolvere?"

[...]

Ma torniamo ai minerali della "transizione": la crisi climatica è elementare. Torniamoci tramite una già citata fonte non certo sospettabile di estremismo ambientalista né di posizioni aprioristicamente critiche verso le "rinnovabili": l'Agenzia internazionale per l'energia, emanazione dell'Ocse.

Un rapporto dell'Iea del maggio 2021 dedicato ai minerali "critici" indispensabili alla transizione ecologica si apre con una stima sulla domanda, prevedendo che l'obiettivo "zero emissioni" la farà crescere di 4 volte entro il 2040. Il "nuovo petrolio" (litio, nickel, cobalto, manganese e grafite per le batterie; le terre rare per i magneti, per le turbine eoliche e per i motori elettrici; rame e alluminio per le reti elettriche) non solo richiede devastazioni per essere estratto, ma non è infinito ed è "avaro" rispetto agli idrocarburi: "Un'auto elettrica - spiegano gli autori del rapporto - necessita di una quantità di minerali 6 volte superiore a un'auto convenzionale, una centrale eolica onshore ha bisogno di 9 volte le risorse minerarie di una centrale a gas".

Il rapporto sui minerali "critici" fornisce stime più dettagliate sulla crescita della domanda per ognuno di essi. Ma ciò che conta - e che viene sottolineato dai ricercatori Iea - è che a una crescita così consistente della domanda, non è detto che corrisponda una disponibilità sufficiente di materia prima: "In uno scenario coerente con gli obiettivi climatici, è stimato che la fornitura attesa dalle miniere esistenti e da quelle in via di apertura incontri solo la metà delle necessità di litio e cobalto, e l'80% della domanda di rame, al 2030".

Il rapporto evidenzia poi un altro problema dovuto proprio ai rischi che la corsa ai metalli intende combattere: quelli climatici. "Oltre il 50% della produzione di litio e rame è oggi concentrata in aree con alti livelli di stress idrico. E alcune delle regioni che sono tra le maggiori produttrici come Australia, Cina e Africa sono soggette a ondate di calore estreme e inondazioni".

Preso atto del precipizio sull'orlo del quale ci ha condotti la grande accelerazione, stiamo per inaugurare l'era della grande estrazione. Una delle parole chiave dell'economia green, tuttavia, è riciclo. Ma gli autori del rapporto Iea stimano che per il 2040 il riciclo di rame, litio, nickel e cobalto provenienti da batterie esauste potrà ridurre la necessità di estrazione di questi materiali di circa il 10%.

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Il che fare sarebbe "palesemente chiaro" se fossimo in grado di pensare la fine, ovvero un nuovo inizio. Di superare lo spaesamento in cui ci getta la crisi con gesti traumatici. Si dovrebbe parlare di salto, più che di transizione ecologica. E il salto è rivoluzionario. Per questo chiama in causa quel che rimane delle sinistre globali; non per rispolverare vecchie utopie partorite lungo la storia della modernità, ma immaginarne di nuove: "utopie minimaliste" per dirlo con lo psicanalista Luigi Zoja che le ha indagate in profondità. Utopie "terra terra" nutrite da un nuovo materialismo, da uno sguardo più attento e non "esotico" ai popoli non moderni piuttosto che agli eroi utopisti di quelli moderni, per rifondare l'equità rinunciando a ogni compromesso con il capitalismo liberale. Per abbandonare ogni residuo del mito produttivista che pure è parte della storia della sinistra, sciogliendo i lacci che la legano al capitale tramite la fede comune nella crescita. Perché è questa fede condivisa che impedisce alle sinistre di farsi portatrici di un immaginario nuovo e alternativo in cui trovi casa una nuova giustizia di classe che includa le "classi anagrafiche" e di specie.

La prospettiva di un eco-socialismo come possibile percorso per venirne fuori, prima che le retroazioni del sistema-Terra e i loro "effetti collaterali" (migrazioni di massa, carestie, guerre del clima...) diventino catastrofici su scala planetaria, deve fare i conti con la stessa zavorra che impedisce al capitalismo di essere all'altezza della sfida: il Pil. È il ricatto della crescita, "che fa bene a tutti", sfruttatori e sfruttati, per usare un lessico dismesso dalle sinistre. Ma sulla soglia della catastrofe avrà importanza se Pil significhi prioritariamente profitti o posti di lavoro? Eppure per le sinistre il ricatto del Pil rappresenta ancora "un vicolo cieco da cui non si esce senza avere il coraggio di problematizzare la crescita nel suo complesso", come è stato notato su "Jacobin" Italia da Lorenzo Velotti.

Il ricatto del capitalismo sul lavoro - in atto da decenni indipendentemente dalla contestualizzazione nella crisi climatica - può tuttavia funzionare solo dentro il capitalismo e al di fuori del Nuovo regime climatico. Come potrà, infatti, essere esercitato il ricatto quando la spartizione dei benefici della crescita (per quanto iniqua) si trasformerà in spartizione dei costi da sostenere per salvare la nostra e altre specie? E ancora: in base a quale promessa di benessere il Nord globale potrà continuare a praticare la grande predazione di materie prime (e rare) ai danni del Sud, quando è già chiaro che per quei popoli la strada della nostra way of life è interrotta dalla crisi climatica? Sono domande che potrebbero almeno accendere la miccia per la mobilitazione di una rete delle sinistre a livello globale sulla via dell'eco-socialismo. Se non fossero intrappolate nella Gabbia di vetro (Nicholas Carr) della rete, che facilita e promuove le rivolte a patto che durino un attimo in termini storici e senza raggiungere alcun risultato significativo, come ha dimostrato la parabola di Occupy Wall Street , per citare un solo esempio. Un altro ottimo argomento per immaginare un futuro eco-socialista potrebbe essere fornito da una banale evidenza documentata persino dal "Financial Times": la crisi climatica è anche un gigantesco specchio delle disuguaglianze. La correlazione tra le emissioni di CO2 e la distribuzione globale della ricchezza è impressionante: i ricchi hanno un'impronta di carbonio 25 volte più grave di un cittadino medio. O detto altrimenti: chi fa parte dell'1% più ricco del mondo rappresenta il 15% delle emissioni, oltre il doppio di quelle prodotte da coloro che fanno parte della metà inferiore. Ma il conto lo pagheranno tutti.

[...]

Immaginare futuri è un compito arduo e urgente. Ma è anche un esercizio indispensabile ed estremo di speranza e di volontà che attinge al pessimismo creativo, al catastrofismo illuminato, contro l'ottimismo ottuso figlio della mitologia tecno-capitalista soluzionista. È un pensare la fine per evitare il gioco d'azzardo sulla Fine. Ascoltando la Terra con i piedi per terra. Praticando i principi di precauzione e di responsabilità. Paradossalmente è un esercizio di ottimismo. Una sorta di "sogno realista" in cui compare un tavolo attorno al quale siedono esemplari della nostra specie i quali, memori dell'aggettivo che si sono attribuiti per distinguersi dalle altre, provano a meritarselo. E finalmente annunciano la ritirata, sgombrano il tavolo dalla merce scaduta dei Green new deal riconoscendo che il che fare? ha una sola risposta: diminuzione rapida della pressione antropica sul sistema-Terra attraverso un Piano per una decrescita economica e demografica globale, pianificata ed equa. Una riconciliazione con la biosfera, oltre il tecno-capitalismo parassitario che l'aveva scambiata per un fondo a disposizione, per sempre.

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