Autore Tim Parks
Titolo Di che cosa parliamo quando parliamo di libri
EdizioneUTET, Novara, 2015 , pag. 300, cop.fle., dim. 13,4x21x3 cm , Isbn 978-88-511-3401-3
OriginaleWhere I'm Reading From. The Changing World of Books [2014]
TraduttoreEleonora Gallitelli
LettoreMargherita Cena, 2015
Classe libri , critica letteraria , universita'









 

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Indice


Introduzione                                              7

PARTE PRIMA. IL MONDO INTORNO AI LIBRI                   13

Abbiamo davvero bisogno di storie?                       15
Fino all'ultima pagina                                   22
L'e-book è roba da adulti                                29
Conta davvero il diritto d'autore?                       34
Che tedio il nuovo romanzo globale                       43
Leggere male                                             48
Perché i lettori non concordano                          53
Leggere: la grande lotta                                 60
Identikit di un lettore                                  68

PARTE SECONDA. I LIBRI NEL MONDO                         75

Cosa c'è che non va nel Nobel?                           77
Un gioco senza regole                                    83
Nazioni favorite                                         91
Scritture alla deriva                                    99
L'arte che se ne sta a casa                             106
Letteratura e burocrazia                                115
Scrittori o santi?                                      123
Perché leggere libri nuovi?                             131
I libri di cui parliamo (e quelli che trascuriamo)      138

PARTE TERZA. IL MONDO DEGLI SCRITTORI                   147

Lo scrittore di professione                             149
L'ombra dello scrittore                                 158
Scrivere per vincere                                    166
Scriviamo meglio per soldi?                             173
Paura e coraggio                                        180
Dire e non dire                                         189
Domande stupide                                         196
La mente loquace                                        201
Intrappolati nel romanzo                                210
Cambiare la propria storia                              218
Scrivere fino alla morte                                225

PARTE QUARTA. GLI SCRITTORI NEL MONDO                   235

«È lei il Tim Parks che...?»                            237
Brutti americani all'estero                             244
Si vede l'inglese                                       252
Elogio dei guardiani della lingua                       259
Tradurre al buio                                        267
Tra le asperità di Leopardi                             275
Echi dalle tenebre                                      284
Il mio romanzo, la loro cultura                         291


 

 

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Pagina 7

Introduzione



È giunto il momento di ripensare tutto. Tutto. Che cosa significa scrivere e che cosa significa scrivere per un pubblico. E per quale pubblico. Che cosa chiedo alla mia scrittura? Denaro? Carriera? Reputazione? Un posto nella comunità? Un cambio di governo? La pace nel mondo? È un artificio o una terapia? È una terapia perché è un artificio o malgrado ciò? Ha a che fare con la costruzione dell'identità, di una posizione sociale? O è semplicemente un modo per intrattenere me stesso o gli altri? Continuerò a scrivere anche se non mi pagano?

E che cosa significa leggere? Voglio leggere quello che leggono gli altri, per poter parlarne con loro? Quali altri? Perché voglio parlare con loro? Per poter essere al passo con i tempi? O per poter conoscere altri tempi e altri luoghi? Leggo per consolidare la mia visione del mondo o per sfidarla? Oppure leggere per sfidare la mia visione è una rassicurante conferma che sono davvero quella persona coraggiosa che pensavo di essere? Più il libro che leggo mi pone una sfida, più mi compiaccio di me stesso.

L'idea di un mondo con una cultura condivisa a livello globale implica che siamo spinti a leggere tutti gli stessi libri? E, in questo caso, quanti scrittori potranno continuare a esistere? O faremo tutti gli scrittori, ma non pagati? «Nessuno può rinunciare a un simulacro di perennità», osservava Emil Cioran. «Da quando la morte è apparsa a ognuno come termine assoluto, tutti scrivono.»

Perché molto spesso siamo in disaccordo sui libri che leggiamo? E perché qualcuno legge bene e qualcun altro male? Da una parte il professore, dall'altra gli studenti? Perché ci sono libri buoni e libri cattivi, oppure perché inevitabilmente un diverso retroterra porterà ad apprezzare libri diversi? E, se è così, possiamo azzardare qualche previsione sui libri che più piaceranno a certe persone?

Molto spesso per parlare di libri si usano formule logore, ed è così ormai da decenni. La recensione standard offre un rapido giudizio di valore condensato in un certo numero di stelline, da una a cinque, poste in cima al pezzo. Perché procedere con la lettura? Ci sarà qualche riga sul tema (nobile), un giudizio sull'abilità narrativa dello scrittore, qualche accenno al protagonista e all'ambientazione (chi di noi non ha seguito un corso di scrittura creativa?), qualche elogio, qualche riserva. Soprattutto, è chiaro che tra i libri c'è una concorrenza spietata per raccogliere le poche briciole di celebrità che avanzano dai film e dalla tivvù. Bisogna autopromuoversi energicamente anche prima della pubblicazione. Forse verso la fine la recensione conterrà un prezioso elogio che l'editore potrà sfruttare per la copertina dell'edízione tascabile. Nel 99,9 percento dei casi il recensore è convinto di sapere perfettamente qual è la finalità dei libri, perché si scrivono e perché si leggono, che cosa è letterario e che cosa non lo è. Quasi stesse compilando un modulo. Non è difficile capire perché i giornali hanno ridotto la sezione dedicata ai libri a un francobollo.

Per il feedback c'è il web. A volte sembrano esserci più commenti che lettori. Ciò che più sorprende dei siti dove chiunque può offrire la propria recensione è quanto i contributi risultano simili alle recensioni dei giornali. La gente non si oppone alle stelline di Amazon. Sa benissimo come dispensare elogi e castighi. Ha i propri criteri di giudizio incontestabili. Il mezzo detta il tono. «A dire il vero il libro non l'ho letto, però...»

Nei settimanali in cui ancora si parla di libri l'intervista all'autore consta delle stesse dieci domande uguali per tutti. «Quand'è l'ultima volta che ha pianto?» «Qual è il suo principale difetto?» È un invito a cercare la distinzione nell'eccentricità. Di solito via e-mail. «Tra i romanzi che ha scritto qual è il suo preferito?» «Che cosa sta leggendo durante la giornata e prima di andare a letto?» Gli intervistatori sembrano dare per scontato che tutti gli scrittori scelgano qualcosa di diverso come lettura serale. Non è concesso non avere un romanzo preferito o un difetto eclatante. La piccola fotografia che affianca il pezzo è stata presa dalla pagina Facebook dell'autore senza costi aggiuntivi per il giornale.

La moltiplicazione dei premi letterari è in linea con questo scenario. Il loro progressivo sganciarsi dalle letterature nazionali dimostra che ciò che conta è la reputazione del premio, non aiutare gli scrittori di una comunità locale. Ci sono soldi di mezzo. Alla rosa ristretta dei candidati si aggiunge la rosa più estesa per spremere al massimo la pubblicità. La sera della premiazione uno scrittore è accolto nel pantheon mentre tutti gli altri sono gettati nelle tenebre. Poco importa che per nessuno dei giurati il vincitore fosse la prima scelta e che due di loro lamentavano di non essere riusciti a finire quel maledetto libro. Ora è un vincitore. Scelto democraticamente. E le vendite del vincitore superano di gran lunga quelle del perdente, di tutti i perdenti.

Nel frattempo nelle università il gergo della teoria letteraria è impenetrabile: forse meno astruso e monumentale che nell'esclusivo apogeo dello strutturalismo e del post strutturalismo, ma probabilmente perché oggi non occorre faticare tanto per non farsi leggere. Bastano i logori tecnicismi, la tendenza a confondere lo studio della letteratura con un'operazíone di storia culturale. È stupefacente quante centinaia di migliaia di articoli accademici si producano solo per arrivare a questo o a quel contratto di docenza, quanto sforzo e quanto poco spirito d'avventura.

Sotto tutte le chiacchiere e la liturgia si annida uno struggente rimpianto per i miti letterari del passato, per le gigantesche figure di Dickens e Joyce, Hemingway e Faulkner. Oggi uno scrittore non può neanche sperare di raggiungere una simile aura. Ma è quel desiderio di grandezza immaginata a guidare tutta l'impresa letteraria. Oltre alla disperazione dell'editore alla ricerca di un bestseller per sbarcare il lunario. Ormai l'idea di grandezza è uno strumento di marketing. Pensiamo a Franzen.

Forse alla fine l'alta opinione che abbiamo dei libri, della letteratura, è semplicemente ridicola. Forse è solo una forma di incanto, il fascino collettivo per l'amor proprio e l'autocompiacimento, quello della giuria dei premi letterari, per esempio, quando invita il suo nuovo eroe a salire sul podio. Ma i libri hanno mai cambiato qualcosa? Con tutto il loro proverbiale progressismo, hanno forse reso il mondo più progressista? O piuttosto ci hanno offerto la foglia di fico che ci permette di continuare a essere come siamo sempre stati, liberali nelle letture e conservatori nella vita. Forse, più che la soluzione, l'arte stessa fa parte del problema; è vero che sta andando tutto in malora, ma guardate un po' come raccontiamo bene la nostra disfatta, guardate che dipinti, che romanzi, che tragedie!

Dopotutto, non c'è da preoccuparsi per la sopravvivenza della letteratura. Non se n'è mai scritta tanta. Ma forse è giunta l'ora di mettere in guardia dalla sua pericolosità.

Milano, maggio 2014

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Pagina 60

Leggere: la grande lotta



Le condizioni di lettura oggi non sono le stesse di cinquanta o anche trent'anni fa e quello che ci chiediamo è come riuscirà la narrativa contemporanea a adattarsi a questi cambiamenti; perché alla fine senz'altro si adatterà. Nessuna forma d'arte è indipendente dalle condizioni in cui viene fruita.

Mi riferisco allo stato di costante distrazione in cui viviamo e a come questo stato vada a incidere sulla straordinaria energia richiesta per affrontare un testo narrativo sostanzioso — per immergersi nel libro e poi tornarvi e ritornarvi in varie occasioni, forse per giorni, settimane o anche mesi, dovendo ogni volta riallacciarsi alla storia o alle storie, al sistema di riferimenti interni, alla posizione dell'opera rispetto agli altri romanzi e, in generale, al mondo.

Ogni lettore si sarà fatto una sua idea di come sono cambiate le condizioni di lettura, ma vi racconto la mia esperienza. Arrivando, ventiseienne, nel piccolo paese di Quinzano, appena fuori Verona, trentatré anni fa, lasciando alle spalle gli amici e la famiglia nel Regno Unito, non pubblicato e disoccupato, sempre ansioso di sapere come avrebbe reagito l'editore londinese di turno al testo su cui stavo lavorando, ero impaziente di ricevere notizie. Le chiamate internazionali costavano cifre spropositate. Il fax non esisteva neanche, c'era solo la posta ordinaria, o snail mail (posta lumaca), come la chiamavamo allora. Ogni mattina il postino imbucava, o poteva imbucare, qualcosa nella cassetta in fondo al giardino. Sentivo il rumore del motorino che, venendo dal paese, si inerpicava sulla curva. Ogni tanto, quando la cassetta era vuota, speravo di aver sentito male; forse non si era trattato della moto del postino, così uscivo di nuovo a ricontrollare dopo un'oretta, giusto per essere sicuro. E andavo avanti così. Per un'ora o due mi era difficile concentrarmi e lavorare bene. Sei ossessionato, mi dicevo dirigendomi verso la cassetta della posta, vuota per la quarta volta.

Ora immaginate una mente del genere esposta alle seduzioni dell'e-mail, dei messaggi, di Skype e dei siti web che si aggiornano costantemente proprio sullo schermo su cui state lavorando. Prima, una volta appurato che il postino era passato senza fermarsi, la giornata appariva un oceano indisturbato di potenzialità, che si trattasse di scrivere (a mano), leggere (su carta) pagare le bollette e tradurre (su una macchina da scrivere manuale). In quel periodo era persino possibile considerare la lettura una risorsa per riempire il tempo che non passava mai quando, per la pioggia o il caldo asfissiante, eri costretto a restare in casa.

Oggi, al contrario, per ogni momento di lettura seria bisogna lottare, pianificare. Già alla fine degli anni novanta, traducendo su un computer da cui mi collegavo spesso (allora attraverso un modem con connessione remota) per controllare la posta elettronica, mi resi conto che le mie letture si svolgevano perlopiù sul treno che prendevo due o tre volte alla settimana per Milano, due ore all'andata, due al ritorno. Più tardi, con batterie del portatile migliori e l'internet mobile, anche quello spazio diventò a rischio. La mente, o almeno la mia, è irresistibilmente incline alla comunicazione o, in termini meno altisonanti, allo scambio che deriva dal contatto con gli altri.

[...]

Mi sbilancio azzardando una previsione: il romanzo che si distingue per una prosa elegante e molto peculiare, finezza concettuale e complessità sintattica, tenderà a suddividersi in sezioni sempre più brevi, offrendo pause più frequenti in cui potersi assentare. Il grande romanzo popolare o il romanzo dall'ampia architettura narrativa saranno ancor più carichi di formule ripetitive e di una retorica coercitiva e declamatoria per rendere sempre più facile, dopo le pause, riprendere non le sue fila, ma i suoi cavi robusti. Senz'altro ci saranno preziose eccezioni. Le scoveremo.

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Pagina 77

Cosa c'è che non va nel Nobel?



Nel 2011, il poeta svedese Tomas Tranströmer ha vinto il premio Nobel per la letteratura. Non ho letto Tranströmer, salvo un paio di poesie disponibili su internet, eppure sono sicuro che sia stata una decisione salutare sotto ogni punto di vista. Innanzitutto per i giurati. Mi spiego meglio.

[...]

Ecco allora il periodo dei Nobel ai dissidenti del blocco sovietico, agli scrittori sudamericani contro la dittatura, agli scrittori sudafricani contro l'apartheid, o ancora, scelta quanto mai sorprendente, al commediografo antiberlusconiano Dario Fo. Certo, era un sistema rispettabile, ma, ahimè, non tutte le aree di crisi (Tibet, Cecenia) vantano un grande scrittore dissidente, quindi potremmo aggiungere che, poiché è inteso che il premio vada al paese almeno quanto allo scrittore, è impossibile conferirlo ad autori provenienti dalla stessa area di crisi per due anni consecutivi. Com'è complicato!

Talvolta, però, la giuria ha messo un piede in fallo. Avendo ricevuto molti premi letterari importanti in Germania e Austria, la scrittrice femminista di sinistra Elfriede Jelinek sembrava una scelta sicura. Ma la sua opera è feroce, spesso indigesta (non vincerebbe mai un premio letterario in Italia o in Inghilterra, per esempio) e il romanzo Voracità in particolare, pubblicato poco prima dell'assegnazione del premio nel 2004, era assolutamente illeggibile. Lo so perché ci ho provato e riprovato. I membri della giuria l'avevano letto sul serio? Viene da chiederselo. Non sorprende, allora, che dopo le controversie causate dalla vittoria della Jelinek per un paio d'anni la giuria abbia ripiegato su scelte ovvie: Harold Pinter , politicamente adatto e quasi dimenticato; poi Vargas Llosa, che chissà perché immaginavo avesse già vinto il premio tanti anni fa.

Che sollievo dev'essere allora, di tanto in tanto, mandare tutto al diavolo e premiare uno svedese, in questo caso l'ottantenne considerato il più grande poeta vivente della sua nazione, un uomo la cui opera completa, come ha osservato Peter Englund, si potrebbe racchiudere in un sottile volumetto in brossura. Un vincitore che l'intera giuria può leggere nell'originale e purissimo svedese in poche ore. Forse avevano bisogno di un anno sabbatico. Per non parlare poi del piccolo dettaglio, non irrilevante in questo periodo di crisi, che il premio da un milione e mezzo di dollari resterà in Svezia.

Ma c'è un aspetto ancor più salutare in questa decisione, che difficilmente avrebbe preso una giuria americana o nigeriana, per esempio, e forse meno che mai una norvegese: serve a ricordarci la sostanziale futilità del Nobel e la nostra ingenuità nel prenderlo sul serio. Diciotto (o sedici) cittadini svedesi avranno una certa credibilità quando si tratta di valutare opere letterarie svedesi – quindi possiamo essere sicuri che Tranströmer sia un eccellente poeta – ma può davvero esistere un gruppo in grado di comprendere l'infinita varietà di opere appartenenti a così tante tradizioni diverse? E, soprattutto, perché dovremmo chiedergli una cosa simile?

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Pagina 91

Nazioni favorite



Poco prima della sua morte, avvenuta nel 1980, il grande antropologo Gregory Bateson suggerì che gli interventi di ingegneria sociale erano paragonabili a un tir con cinque-sei rimorchi che fa retromarcia in un labirinto: forse sarebbe anche possibile, ma con quanti e quali danni non è dato sapere. Pertanto, non sorprende che la decisione di molti paesi europei di insistere sull'inglese come seconda lingua – per facilitare gli scambi commerciali e la ricerca scientifica – abbia avuto qualche conseguenza imprevista, non da ultimo in campo letterario.

[...]

Nella narrativa si avverte sempre una tensione, o forse un equilibrio necessario, tra evasione e realismo, tra la voglia di leggere qualcosa di serio su temi seri — sentire che non si sta perdendo tempo, ma anzi si sta cercando di capire il mondo in maniera intelligente — e al contempo il desiderio di sottrarsi ai confini della propria comunità per spostarsi nel territorio dell'immaginazione e magari fantasticare di luoghi lontani.

Per gli europei di oggi leggere romanzi tradotti dall'inglese diventa un modo per soddisfare entrambe queste esigenze: si parla di una cultura lontana, che tuttavia ai lettori appare importante in virtù dell'egemonia culturale anglosassone, e in special modo americana, ma anche perché hanno acquisito l'inglese come seconda lingua; nella maggior parte delle traduzioni, poi, rimane sempre qualche traccia della lingua originale, che, per chi ha sviluppato una certa familiarità con l'inglese, rafforzerà la sensazione di conoscere quel mondo. Talvolta bastano i nomi di persone o di luoghi, riferimenti ad abitudini o a contesti culturali, oppure, inevitabilmente, qualche tratto sintattico o lessicale che emerge con maggior frequenza nelle traduzioni dall'inglese rispetto al normale uso linguistico locale (un classico indicatore è la frequenza della forma progressiva del verbo).

A sentire loro, i miei intervistati olandesi si rendevano conto che il romanzo che stavano leggendo era una traduzione e non un testo scritto direttamente in olandese solo quando proveniva da una lingua a loro nota. In quel caso di tanto in tanto gli capitava di sentire l'inglese, il francese o il tedesco sotto l'olandese. Ma anziché rinunciare alla versione olandese e affrontare il testo in lingua originale, sembravano quasi contenti di criticare il traduttore per questa o quella manchevolezza: vari intervistati affermavano addirittura che avrebbero potuto fare meglio loro stessi, un pensiero certamente incoraggiante. Così, ancora una volta, l'esperienza di lettura contribuiva a rafforzare la loro autostima.

Ovviamente, quanto più si leggono libri scritti da autori inglesi e americani, quanto più si guardano film e telefilm di produzione americana — per non parlare degli interminabili reportage sulle primarie e sulla campagna presidenziale negli Stati Uniti, a cui oggi gli europei hanno quasi l'impressione di partecipare – tanto più ricca e complessa diventerà questa seconda vita, e tanto più gratificante sarà rafforzarla con l'acquisto di un nuovo romanzo inglese o americano.

[...]

Così, per tornare alle conseguenze impreviste di Bateson, anche grazie all'enorme incremento dell'insegnamento dell'inglese, peraltro in linea con la spinta alla globalizzazione, siamo giunti a una situazione in cui la narrativa letteraria si piega a scopi diversi e viene vissuta in modo diverso dalle varie comunità nazionali: il romanzo sociale e politicamente impegnato che ha reso celebri tanti scrittori europei intorno agli anni settanta (Moravia, Calvino, Sartre, Camus, Böll) è ancora vivo nel mondo anglosassone e viene letto in tutto il mondo, ma sta scomparendo in molti paesi europei per il semplice motivo che oggi si legge meno (e forse si scrive anche meno) della propria società, quindi è meno probabile che i romanzi affrontino temi nazionali. Sembra che la globalizzazione non si stia affermando in maniera omogenea: potrebbe spingere la letteratura in una certa direzione su una sponda dell'Atlantico – o piuttosto su un versante della faglia linguistica – oppure in una direzione del tutto diversa sulla sponda opposta.

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Pagina 123

Scrittori o santi?



Il più grande, il migliore, il più acuto, il più innovativo, il più raffinato...

In quest'ultima decina di anni ho letto biografie letterarie di Dickens, Dostoevskij, Cechov, Hardy, Leopardi, Verga, Lawrence, Joyce, Woolf, Moravia, Morante, Malaparte, Pavese, Levi, Borges, Beckett, Bernhard, Christina Stead, Henry Green e altri ancora che in questo momento mi sfuggono. Salvo rarissime eccezioni, e anche in quel caso sì e no di un paio di pagine, ogni autore viene presentato senza mezzi termini come lo scrittore più talentuoso e benintenzionato che esista, mentre il suo comportamento, per quanto problematico e forse anche scandaloso – pensiamo al trattamento che Dickens riservava a moglie e figli o alle scazzottate di Lawrence con Frieda – è visto sempre in una luce lusinghiera. Certo, non stiamo parlando di agiografie, ma è ravvisabile ovunque un trattamento di favore, come se i biografi covino il timore che una vita meno che nobile o non rivolta squisitamente a un'alta causa possa sminuire l'opera.

Prendiamo Hermione Lee a proposito del suicidio della Woolf: la biografa considera un indice della resilienza e del coraggio della Woolf il fatto che non si fosse suicidata anni prima, malgrado la sua grave depressione – un coraggio speso a favore dell'emancipazione femminile e in generale del progresso della nostra cultura. Questa riflessione è del tutto priva di fondamento, oltre che superflua. Solo che per Lee ogni occasione è buona per costruire un'immagine positiva della Woolf.

Gordon Bowker prende in parola Joyce quando dichiara di aver lasciato l'Irlanda perché in quell'atmosfera provinciale, diviso tra le rivendicazioni di nazionalismo e cattolicesimo, gli era impossibile diventare un grande autore. Eppure i fatti dimostrano che in Irlanda il lavoro gli fruttava bene; riusciva a pubblicare e si stava facendo un nome. Il problema più stringente, semmai, era Nora, la ragazza giovanissima e poco istruita che si vergognava di presentare in famiglia o agli amici intellettuali, ma con cui era ansioso di condividere le gioie del talamo. Ciò era possibile soltanto trasferendosi all'estero, una mossa che rallentò decisamente la sua carriera e che avrebbe condizionato tutta la sua opera da lì in avanti. Bowker ripropone con grande entusiasmo il mito dell'artista indipendente che, da solo, cerca la «liberazione spirituale del proprio paese», per poi informarci, quasi in nota a piè di pagina, che Joyce scriveva a sua zia per chiederle consigli su come gestire la depressione della sua giovane moglie (Nora soffriva disperatamente di solitudine, non conoscendo la lingua dei paesi in cui si trovava) e nel frattempo frequentava prostitute.

Tutte le biografie di Beckett trattano con ammirata soggezione della sua integrità artistica, la sua riluttanza a concedere interviste o a concorrere ai premi letterari. Ma altrove si capisce che Beckett aveva problemi verso qualsiasi forma di impegno sociale, in particolare se comportava degli obblighi o limitava in qualsiasi modo la sua libertà. Raggiunta l'età adulta, non volle trovare lavoro e pretese dai genitori che lo mantenessero, rifiutandosi però di concedere loro diritto di parola su come avrebbe impiegato il tempo. Più tardi, trovò nella compagna Suzanne Déschevaux-Dumesnil non solo un sostegno finanziario, ma anche una promotrice del suo lavoro che scrisse agli editori in sua vece, e gli risparmiò incontri di ogni tipo. Nel suo primo romanzo, Murphy, l'eroe eponimo si rifiuta di lavorare e si fa mantenere da una prostituta, anche se la persona che più ammira è un uomo autistico, totalmente impermeabile alle influenze esterne. Nel suo racconto Primo amore un vagabondo viene raccattato da una prostituta, che se lo porta a casa con mire sessuali. Lui fugge in una stanza sul retro, si barrica dentro e chiede che gli sia portato del cibo e gli sia vuotato il vaso da notte senza concedere nulla in cambio. In nessuna delle due opere questo distacco viene imputato a motivazioni artistiche o a un'esigenza di integrità.

Preciso che ammiro profondamente l'opera di tutti questi scrittori e non desidero affatto denigrarli, anzi. Trovo però strano che i biografi sembrino avere la necessità di dipingere l'oggetto dei propri studi come un essere particolarmente ammirevole, cosa che in ultimo rende la vita dell'autore in questione meno, non più interessante e, invece di facilitare, ostacola ogni tentativo di rapportarla alla sua scrittura. Sarebbe più facile capire perché quei libri sono stati scritti e perché sono stati scritti proprio in quel modo se la vita dello scrittore fosse ripercorsa senza darne un'interpretazione costantemente positiva.

È forse nelle biografie di Dickens che tale tendenza raggiunge la sua massima espressione. Anche senza tener conto di come abbia ripudiato e persino scacciato la moglie che gli aveva dato dieci figli, spicca l'enorme resistenza ad ammettere che l'autore era un tiranno che cercava di gestire la vita di chi gli era prossimo in ogni possibile modo, mostrando profonda delusione e atteggiamenti punitivi ogniqualvolta qualcuno non rispondeva alle sue aspettative, cioè quasi sempre, e, al contempo, temendo ogni segnale di una possibile concorrenza. Robert Gottlieb, in Great Expectations: The Sons and Daughters of Charles Dickens, è magistrale in tal senso: per cavare d'impaccio il romanziere cita una precedente biografa, tra l'altro discendente dell'autore, Lucinda Hawksley, la quale asserì che Dickens dissuase dallo scrivere suo figlio Walter Landor, perché era «probabilmente consapevole "che [Walter] non aveva l'attitudine né l'ambizione necessaria per conseguire un utile finanziario con la penna"». A quel punto il ragazzo, a cui dopotutto era stato dato il nome di un poeta (Walter Landor, appunto), non era neanche adolescente. In realtà Dickens, che definiva se stesso "l'Inimitabile", non voleva che i figli entrassero in concorrenza con lui.

[...]

Quanto a Beckett, è davvero difficile intravedere nel suo lavoro un intento politico. Il suo modo di relazionarsi agli altri nella vita personale e nei testi consiste nel dire qualcosa e immediatamente ritrattare, affermare e poi negare. Nei romanzi non fa altro che costruire una scena verosimilmente realistica per poi subito tirarsene fuori: «Però, quante belle immagini!», osserva Malone, sarcastico, dopo averci offerto una descrizione commovente del suo eroe Saposcat. Le sue parole «risultavano morte non appena pronunciate», dice di Murphy la sua ragazza. Nelle sue lettere, stranamente contorte, allo storico d'arte Georges Duthuis, dopo aver perorato la causa di una forma di espressione priva di ogni rapporto con il mondo, Beckett avverte: «Rammenta: io che non parlo quasi mai di me stesso, parlo di poco altro». Alla fine, per sciogliere l'enigma, adotta un'immagine escrementizia: la sua scrittura, dice, è qualcosa che lui evacua o vomita. La produce, deve produrla, è cosa sua, ma non riguarda niente in particolare né si prefigge alcun intento, e lui vorrebbe allontanarla da sé il prima possibile – insomma, è una specie di figura del proprio autodisprezzo. Questa è senz'altro una riflessione affascinante sul processo creativo (anche Byron ha detto qualcosa di simile), ma di certo non esplicita nessun nobile intento.

Per tornare allora all'eccessiva generosità dei biografi e alle costanti insinuazioni del mondo accademico, secondo cui gli scrittori sarebbero talentuosi lavoratori al servizio di una buona causa, possiamo solo ipotizzare che costoro appaghino un generale desiderio di rafforzare una concezione positiva dell'arte narrativa, irrobustendo così l'autostima dei lettori e ancor più dei critici e dei biografi stessi, che, nello scrivere di letteratura, danno anche loro un contributo alla buona causa. Gli autori stessi, pur contraddicendo spesso questa immagine positiva in privato (Dickens riconobbe che molti suoi personaggi negativi erano basati su lui stesso), imparano presto a recitare la parte. Senz'altro Beckett si sarà reso conto che quelle famose fotografie che lo mostravano scarno e sofferente alimentavano l'immagine di austera e virtuosa segregazione già percepita dal pubblico. Scrivesse Emil Cioran, amico di Beckett: «Quanto è facile immaginarlo... in una nuda cella, senza nessun ornamento che possa turbarlo, neanche un crocifisso». In realtà Beckett condivideva un ampio appartamento al centro di Parigi con la compagna di una vita, Suzanne, e con lei trascorreva i fine settimana e le estati nel loro cottage di campagna, alzando il gomito con gli amici (mai con Suzanne) quasi tutte le sere e in genere trovando il tempo per le amanti, quando possibile.

Per concludere, vorrei citare il discorso di accettazione del premio Nobel pronunciato da William Faulkner, un esempio magistrale di come dare un colpo al cerchio e uno alla botte: «Ritengo che questo premio non venga conferito a me come uomo», inizia con apparente umiltà, negando le proprie abilità personali e, come sempre in Faulkner, aggirando il rapporto sin troppo evidente tra opera e biografia, «ma al mio lavoro, al lavoro di una vita prodotto nell'agonia e nel sudore dello spirito umano». Bisogna soffermarsi sull'opera, intendendola però come manifestazione di una pia impresa sacrificale. Di chi? Ma di Faulkner, naturalmente.

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Perché leggere libri nuovi?



Davvero è già stato detto tutto? E meglio di quanto non si riuscirebbe a fare oggi? Se è così, perché leggere romanzi contemporanei, specialmente quando ci sono tanti classici disponibili a prezzi stracciati e, nella maggior parte dei casi, totalmente gratis in e-book? Ho appena scaricato il testo originale delle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo a costo zero. È scritto benissimo. Sto imparando molto dell'Italia del Sette-Ottocento. È lungo 860 pagine. Qualche altra scoperta del genere e avrò riempito tutto il mio tempo da dedicare alla lettura. Perché allora andarsi a cercare un autore contemporaneo difficile?

Spesso spietata nelle recensioni, Virginia Woolf pensava che uno dei piaceri dati dalla lettura dei romanzi contemporanei stesse nel sentirsi costretti a esercitare un giudizio. Per quei testi non c'era un'opinione diffusa bella e pronta. Dovevi decidere tu se si trattava di un buon libro. Questa riflessione fa sorgere un interessante enigma semantico; se, leggendo un libro, lo apprezzi, allora si presume che sia un buon libro, almeno per quanto ti riguarda. Non è qualcosa che va "deciso". Dover decidere se un libro è buono significa forse che non sai se ti è piaciuto o no, fatto alquanto strano, oppure che non sai se è giusto che ti sia piaciuto o meno?

Sembra piuttosto complicato, eppure sappiamo perfettamente che cosa intende la Woolf. Un nuovo tipo di libro può offrirci un piacere che non avevamo ancora imparato ad apprezzare e negarcene un altro che invece ci aspettavamo. Invece di integrarsi con ciò che conosciamo da molto tempo, ci chiede di cambiare. E quante persone sono veramente disposte a cambiare gusto? Perché dovrebbero poi? Incuriosisce a proposito dell' Ulisse di Joyce quanti recensori e intellettuali abbiano cambiato posizione sul libro nei dieci anni successivi alla sua pubblicazione. Molti sono passati dall'odio all'ammirazione; mi vengono in mente Jung e l'autorevole recensore parigino Louis Gillet, che passò dal descriverlo come «indigeribile» e «insensato» al congratularsi con Joyce per aver composto il grande capolavoro del suo tempo. Ma molti altri hanno virato dall'adulazione al sospetto. Samuel Beckett è passato dalla convinzione che Joyce avesse riportato in vita la lingua inglese al dubbio che in realtà fosse semplicemente caduto nel vecchio errore, come arrivò a considerarlo Beckett, di immaginare che la lingua potesse evocare il vissuto. Dinanzi a un oggetto nuovo può volerci del tempo per arrivare a un'opinione stabile.

E questa nostra incertezza nell'affrontare, per esempio, il nostro primo Eggers, il primo Pamuk , la prima Jelinek e la prima Ferrante , o nel passare da un vecchio a un nuovo Philip Roth , fa parte del piacere della novità. E questo piacere di adattarsi al nuovo – aspettare di vedere se ne usciremo sedotti o annoiati, comprendere la natura delle nostre aspettative di lettori proprio quando vengono messe in discussione – può creare dipendenza, o semplicemente risultare più interessante del piacere più innocuo di trovare un libro simile ad altri che già ci erano piaciuti. Indipendentemente dal fatto che alla fine un romanzo contemporaneo ci convinca del tutto o meno, può essere comunque stimolante pensare a che cosa ci chiede quel libro. Questa è stata senz'altro la mia esperienza nel leggere Murakami , Jelinek e Saramago. Non posso dire di aver amato nessuno di questi scrittori. Ma ho preso gusto nel cimentarmi con loro. Per cui «si potrebbe persino sostenere», come dice Virginia Woolf, «che i vivi, pur essendo forse molto inferiori, ci danno di più rispetto ai morti».

[...]

Ad accendere l'eccitazione quando affronto un nuovo romanzo che si arrischia a raccontare la scena contemporanea sono sempre alcune domande: come mai una persona che vive nel mio stesso mondo ha scritto un libro che a me sembra così strano e difficile? Cosa sta cercando di dirmi del mondo e del modo in cui lo percepisco io? Questa difficoltà mi è utile? Forse anch'io potrei reagire così alla nostra epoca? Avrebbe senso se lo facessi? Questa è senza dubbio la domanda che si sono posti i lettori nell'affrontare l' Ulisse, ma anche La signora Dalloway, o La cognizione del dolore, la trilogia di Beckett, o ancora Se una notte d'inverno un viaggiatore , L'arcobaleno della gravità di Pynchon, o Underworld di DeLillo. E questi sono libri che alla fine sono riusciti a convincere un numero di lettori tale da trovare una collocazione nell'immaginario collettivo. Molti altri, forse al tempo considerati letture non meno affascinanti, sono scomparsi. Pensiamo a Luigi Malerba. Eppure con Malerba si aveva lo stesso piacere che con Beckett, per esempio, nel riflettere sul rapporto tra l'opera e il mondo contemporaneo. Molti ne erano convinti, per un certo periodo.

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I libri di cui parliamo
(e quelli che trascuriamo)



Qual è la funzione sociale del romanzo? Non mi riferisco al tornaconto dell'autore che cerca di sviluppare il suo talento per guadagnarsi da vivere e costruirsi un'immagine pubblica di prestigio. Né ai riconoscimenti destinati all'editore, che potrebbe, in qualche raro caso, guadagnare cifre significative. Né tantomeno al piacere del singolo lettore che si gode quelle ore di intrattenimento, magari traendo dall'esperienza un'illuminazione o qualche utile provocazione. Mi chiedo, invece: che vantaggio ne ricava la società nel suo insieme, o almeno quella porzione della società che legge romanzi?

Conversazione. Argomenti di discussione comuni. Qualcosa di complesso da poter condividere. Questo accade in particolare quando parliamo con persone che non conosciamo bene, persone con cui, per così dire, socializziamo. Naturalmente esistono tanti altri potenziali argomenti di conversazione. Il tempo. Lo sport. La politica. Ma ci sono limiti agli spunti meteorologici, non tutti subiscono il fascino del calcio, e la politica, come sappiamo, può essere un campo minato. I romanzi — o i film e le serie televisive, se è per questo — offrono ricco materiale di discussione e creano punti di contatto: i personaggi sono credibili? La gente pensa o si comporta davvero così? Era proprio il caso di dare quel finale alla storia? Il testo è scritto bene? Le diverse reazioni a Pastorale americana di Philip Roth, Vergogna di J.M. Coetzee o Resistere non serve a niente di Walter Siti lasciano trapelare molto della personalità di chi li commenta, senza rischiare di cadere nel personale. I romanzi sono argomenti ideali per tastare il terreno tra gli interlocutori.

[...]

Si potrebbero elencare vari romanzi — Tempi difficili, La capanna dello zio Tom e, in Italia, I promessi sposi o Gli indifferenti — che hanno acceso il dibattito pubblico, di solito grazie a una combinazione di trama seducente e temi ritenuti di grande interesse in un preciso contesto sociale. Il romanzo diventa il luogo privilegiato per mettere a fuoco tali questioni, innescando conversazioni, magari fino a quel momento soltanto latenti, che garantiscono un ulteriore successo all'opera e la celebrità al suo autore. Tuttavia, al di là di un certo livello di leggibilità, la qualità della scrittura, cioè la componente "artistica" del testo, è perlopiù irrilevante, almeno per quanto riguarda questa sua funzione sociale. Un libro scritto male, che si tratti di Che fare? dell'intellettuale russo dell'Ottocento Nikolaj Cernygevskij o di Cinquanta sfumature di grigio di E.L. James, può stimolare la conversazione generale con maggior intensità che non un'opera straordinaria ma ardua — pensiamo alla Trilogia di Beckett o a Jakob von Gunten di Robert Walser — o anche un romanzo di genere, che, per quanto popolare, non solleva questioni di pubblico interesse: i Maigret di Simenon, i James Bond di Fleming, i romanzi di spionaggio di Le Carré.

Così, oltre a catalogare i romanzi come scritti bene o scritti male, popolari o impopolari, si potrebbe anche, e in maniera forse più utile, distinguere tra i libri che entrano o meno nella pubblica conversazione. Le correzioni di Jonathan Franzen è entrato nella conversazione nazionale americana, mentre i racconti di Lydia Davis, pur così brillanti, no. In Europa Sottomissione di Michel Houellebecq è entrato nella conversazione, che piaccia o meno (e dire che non piace non fa che rendere più intensa la conversazione), mentre Peter Stamm, un autore che io seguo con grande interesse, no. I temi sociali e l'ambizione letteraria potranno forse essere importanti in tal senso, ma di certo non essenziali. Potemmo dire che la saga di Harry Potter si è imposta enormemente nella conversazione non certo per i suoi temi sociali, ma forse più che altro perché ha indotto a chiedersi se sia opportuno che gli adulti leggano con tanta avidità storie scritte per i bambini. Per contro, molti scrittori che cercano di proposito di catalizzare la conversazione romanzando problemi di attualità già al centro del dibattito pubblico spesso falliscono miseramente. Terrorista di John Updike è stato, probabilmente, il meno discusso di tutti i suoi romanzi.

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Brutti americani all'estero



Sono inglese e vivo in Italia. Nel marzo 2011 nel giro di un paio di giorni ricevo dal "New York Review of Books" quattro romanzi dell'autore svizzero Peter Stamm; dal "Sole 24 Ore" Libertà di Jonathan Franzen, in inglese e in traduzione italiana; da un editore newyorkese il romanzo Funeral for a Dog, opera prima del giovane autore tedesco Thomas Pletzinger. Quest'ultimo è accompagnato da un lancio stampa che comincia così: «Pletzinger è tedesco, ma non si direbbe affatto leggendo il suo romanzo d'esordio, che è tanto saggio quanto mondano».

Questa retorica superficiale ci offre uno splendido appiglio per mettere a fuoco la mentalità americana contemporanea. Vogliamo qualcosa di mondano, ma se sembra troppo tedesco, o forse semplicemente troppo straniero, diventiamo diffidenti. Come indica la mia posta, la comunità letteraria è un fenomeno internazionale, ma, sembrerebbe, non alle stesse condizioni. Per sfondare in America, Pletzinger deve spogliarsi della sua germanità quasi fosse un immigrato dall'accento imbarazzante.

A Peter Stamm, che alla fine ho recensito, questo gioco riesce bene. Scrive in una prosa assolutamente scarna, sia lessicalmente che sintatticamente. Racconta di personaggi fobici, amanti della routine, bisognosi di protezione, ma anche turbati all'idea che l'intensità della vita gli stia sfuggendo sotto gli occhi. Hanno voglia e paura di vivere, anzi più hanno voglia, più hanno paura. Il genio di Stamm sta nell'associare questa prosa scarna alla psicologia di chi teme la ricchezza e la densità; ne deriva uno stile allo stesso tempo "letterario" e assolutamente traducibile:

Andreas amava il vuoto del mattino, quando se ne stava alla finestra con una tazza di caffè in una mano e una sigaretta nell'altra a fissare il tranquillo cortiletto interno del suo palazzo, senza pensare ad altro che a quello che vedeva davanti a sé: un'aiuola rettangolare di edera in mezzo al cortile, con dentro un albero da cui spuntava qualche ramo sottile che era stato potato per rientrare nel poco spazio disponibile.

Se non sapessi che è svizzero, nulla tradirebbe questo inconveniente, né nella traduzione italiana né in quella inglese. Quel che è certo è che non racconta mai della Svizzera o degli altri paesi in cui sono ambientati i suoi libri. Ogni volta che uno dei protagonisti si trova all'estero e gli viene chiesto di parlare del suo paese d'origine, Stamm, sardonico, gli fa alzare le spalle e rispondere che non c'è niente da dire.

Franzen è l'opposto; non potrebbe urlare più forte la sua americanità e dal suo confronto con Stamm emerge quant'è diversa la strada verso la celebrità per un autore svizzero e uno americano. Se i personaggi di Stamm arrivano privi, o sprovvisti, di un contesto socio-politico, quelli di Franzen spesso sembrano confondersi con l'ambiente densissimo in cui si muovono, tempestato di nomi di prodotti e con una storia e una geografia dettagliatissime, tic linguistici, particolari modi di abbigliarsi, e così via, il tutto descritto con un'aspra ironia, anzi con un disprezzo, una presunzione di superiorità e una distanza che subito mi risultano sgradevoli.

In Libertà gli elenchi abbondano: per farci capire che i nonni della protagonista Patty sono tirchi, Franzen ci fa la lista dei loro «offensivi» regali di Natale:

Rimasero famosi i due strofinacci da cucina usati ricevuti un anno da Joyce. Il tipico dono per Ray era uno di quei grossi libri d'arte del tavolo delle offerte di Barnes & Noble, a volte ancora con l'etichetta adesiva di $3.99. I bambini ricevevano cazzatine di plastica made in Asia: minuscole sveglie da viaggio che non funzionavano, portamonete con sopra il nome di una compagnia d'assicurazioni del New Jersey, burattini cinesi di spaventosa rozzezza, bastoncini da cocktail assortiti. (trad. it. Silvia Pareschi)

Ogni tratto caratteriale, ogni ambiente, ogni quartiere, offrirà l'occasione per un elenco, quasi che anche Franzen volesse sopraffare il lettore con regalini di dubbio gusto:

Alla fine dell'estate, Blake aveva quasi terminato di lavorare al salone e lo stava equipaggiando con tutto l'armamentario blakeiano, che comprendeva una PlayStation, un tavolo da calcetto, uno spillatore di birra refrigerato, un grande schermo televisivo, un tavolo da hockey ad aria, un lampadario dei Vikings di vetro colorato, e poltrone reclinabili elettriche.

Spesso si ha l'impressione che i personaggi siano solo un alibi per poter elencare con minuzia giornalistica ed enciclopedica tutti i prodotti o i comportamenti tipici dell'America contemporanea.

D'un tratto, nei giorni successivi all'undici settembre, tutto cominciò a sembrargli molto stupido. Era stupido che si tenesse una "Veglia di Solidarietà" senza alcuna plausibile motivazione pratica, era stupido che la gente continuasse a rivedere il filmato del disastro, era stupido che i ragazzi della Chi Phi appendessero uno striscione di "sostegno" fuori dalla loro casa, era stupido che la partita di football contro Penn State venisse annullata, era stupido che tanti studenti lasciassero i Grounds per stare con la famiglia (ed era stupido che tutti alla University of Virginia dicessero "Grounds" anziché "campus").

La necessità della traduttrice italiana di conservare parole inglesi come football (in opposizione a soccer), Grounds, campus è spia di una più ampia difficoltà con cui dovrà confrontarsi il lettore italiano. Franzen vuole riempirci la testa non solo di oggetti e costumi americani, ma anche, e questo è cruciale, di tutti i modi di dire, le parole e le idiosincrasie sintattiche dell'americano contemporaneo.

Il lettore americano godrà nel riconoscere gli interni colti con tanta precisione dall'occhio e dall'orecchio di Franzen, mentre il lettore inglese dovrà aggrapparsi a quanto ha appreso nei film e in TV. Al contrario, la traduttrice italiana, per quanto brillante (e Silvia Pareschi lo è) non può comunicare lo snobismo dell'inglese Grounds rispetto all'americano campus; né può farci sentire le parole orrende — per esempio mechanized recliners — usate per definire certi oggetti orrendi (in Italia sconosciuti) — le poltrone reclinabili elettriche. Così gli italiani, ma lo stesso vale per i tedeschi o i francesi, si ritroveranno invischiati in elenchi di cianfrusaglie a loro del tutto estranee. Potremmo dire allora che se lo svizzero Stamm, per attrarre un pubblico internazionale, è costretto a scrivere dell'uomo qualunque per qualunque lettore di qualunque nazionalità, Franzen, grazie alle dimensioni del mercato interno americano, ma anche all'enorme presa che il Paese esercita sull'immaginario di tutto il mondo, può scrivere di americani per gli americani (cosa assolutamente legittima) e aspettarsi pure di essere letto in tutto il resto del mondo.

Oltre al fattore di riconoscimento — questa è l'America — Franzen riserva altri piaceri al lettore straniero che lo legge in traduzione? Naturalmente io sapevo ancor prima di aprirlo che Libertà era «un romanzo importante», se non altro perché il "Guardian" gli aveva dedicato un articolo sulla sua homepage (che è la pagina iniziale del mio browser). Il giornalista del "Guardian" non aveva nemmeno aspettato di ricevere e leggere una copia del libro per osservare che Franzen probabilmente è l'unico romanziere vivente in grado di rinnovare la nostra fiducia nel romanzo letterario. Trovandomi in Olanda la settimana della pubblicazione inglese di Libertà, ho constatato che la vetrina della principale libreria internazionale di Amsterdam era interamente dedicata al romanzo.

Non riuscendo a spiegarmi un tale entusiasmo (ho trovato il romanzo pesante), ho cercato di capire che cosa dicesse in merito il "New York Times Book Review", per scoprire che Sam Tanenhaus canonizzava il romanzo già nella frase di apertura del suo pezzo come «un capolavoro della narrativa americana». È interessante qui la precisazione «americana». Essere un capolavoro della narrativa americana vuol dire aver raggiunto l'apice della scrittura. «Un capolavoro della narrativa svizzera» non suona allo stesso modo, e se, per esempio, un'opera di Pamuk viene definita un capolavoro, di certo non sarà un «capolavoro della narrativa turca». Tanenhaus poi ci spiega rapidamente che il talento di Franzen sta nell'aver raccolto «ogni dato recente della nostra millenaria esperienza condivisa». E aggiunge:

Franzen sa che oggi nei college le matricole (freshmen) vengono soprannominate «primi anni» (first years) come teneri germogli in un orto troppo coltivato; che una mamma con nobili princìpi, per quanto spietata nel giudicare le cadute morali dei propri vicini, non li condannerà mai con epiteti peggiori di «strani»; che gli autisti spericolati che passano come pazzi da una corsia all'altra sono «quasi sempre giovincelli che apparentemente consideravano l'uso della freccia un affronto alla propria mascolinità».

Ci vuole davvero un così gran talento per sapere che le matricole vengono chiamate "primi anni" (come in quasi tutto il resto del mondo, se è per questo)? La trama è descritta come «ordinatamente intricata» e l'unico espediente formale di rilievo di Franzen (gran parte del libro, ma non tutto, viene narrato dalla protagonista Patty che racconta la sua storia in terza persona su suggerimento dell'analista) come «ingegnoso». Tutto falso. La trama è un pasticcio totale, senza capo né coda. Quanto alla voce narrante, viene fuori che lo stile di Patty, ragazza tutto sport e niente cervello, è indistinguibile da quello del sofisticato intellettuale Franzen e non si capisce quale vantaggio tragga la storia dal fingere che a narrarla sia lei. Al contrario, questa trovata mina la credibilità del romanzo.

Ma i difetti di Libertà sono interessanti nella misura in cui infittiscono il mistero sul successo internazionale del libro. Se gli americani decidono di canonizzare in fretta e furia uno dei loro scrittori preferiti è affar loro, ma perché in Europa ci si deve accodare? Sempre ansiosi di dover capire l'America a tutti i costi e affascinati dal suo prestigio e dal suo potere, probabilmente gli europei sono attratti dai romanzi americani che si propongono di spiegare tutto: Pastorale americana di Philip Roth, Underworld di DeLillo. Più che un romanzo di un americano, vogliono il "Great American Novel", il romanzo che ci dia l'America. Ma naturalmente gli europei nutrono anche un risentimento per l'egemonia globale americana e si sentono (ancora e senz'altro a torto) culturalmente superiori.

Libertà ha una caratteristica peculiare: Franzen sembra trarre tutta la sua energia e la sua identità dall'evocare e simultaneamente disprezzare l'America, spiegandola (in particolare la sua goffaggine) e rigettandola; le sue storie finiscono immancabilmente per presentare personaggi intensamente coinvolti nella realtà americana, che ne vengono corrotti e abbrutiti, per poi alla fine tornare a un "corretto" buonsenso tipicamente franzeniano e ritirarsi dalla società. Accecati dall'ambizione, finiscono male perché gli manca la conoscenza, la consapevolezza. Ecco spiegata l'importanza di tutte quelle informazioni. Contrariamente ai suoi personaggi, Franzen sa tutto, è consapevole di tutto; in primis, sa che per redimersi occorre ritirarsi dalla scena pubblica americana. Per gli europei non potrebbe esserci messaggio più gradito. Un amico mi scrive da Berlino, osservando che «qui in Germania l'unico romanziere americano di cui si parla è Franzen». Vale a dire che con Franzen si sta imponendo il ritratto di un'America disfunzionale che agli Europei piace molto. Con Franzen possono fare il grand tour dell'America e insieme lavarsene le mani.

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Pagina 275

Tra le asperità di Leopardi



Mi accingo a cominciare una traduzione, la prima dopo molti anni, e subito mi si prospetta la decisione fatale da cui dipenderà tutto il resto: che voce utilizzare?

Di norma si direbbe: nella voce dell'originale per come la si sente in italiano e la si immagina in inglese. Questa posizione sarebbe in linea con la famosa ingiunzione di Dryden ai traduttori di scrivere come avrebbe scritto l'autore se fosse stato inglese — un'idea piuttosto comica, dal momento che l'autore ci interessa in gran parte perché non è inglese e non scrive come un inglese. In ogni modo, questo testo rappresenta un caso speciale.

Sto traducendo una selezione di brani dallo Zibaldone di Leopardi, un libro che tutti gli italiani hanno studiato a scuola, anche se quasi nessuno l'ha letto per intero. La parola "zibaldone" ha la stessa radice di "zabaione" e in origine aveva il significato spregiativo di miscuglio di cibi o comunque di elementi eterogenei, per poi passare a indicare una raccolta casuale di note, una sorta di diario, ma sempre inteso come insieme di pensieri e riflessioni sconnesse più che come racconto di eventi. Nato nel 1798 e ricordato principalmente per la sua poesia lirica, Leopardi tenne il suo Zibaldone dal 1817 al 1832, raccogliendo in totale 4526 pagine manoscritte. Le edizioni a stampa si aggirano intorno alle duemila pagine, escluse le note del curatore, che di solito sono tante.

Lo Zibaldone di Leopardi è riconosciuto come una delle più grandi miniere di riflessioni sulla condizione umana moderna che siano mai state scritte. Schopenhauer riconobbe in Leopardi un "fratello spirituale" e vide molte delle proprie idee adombrate negli scritti di Leopardi, pur non avendo mai letto lo Zibaldone, al tempo ancora inedito. La raccolta che sto traducendo io, curata da un editore italiano, mette insieme tutti i brani che lo stesso Leopardi aveva segnalato come inerenti alla sfera dei sentimenti e delle emozioni. Si chiama Le passioni.

Al momento di stabilire una voce per la traduzione sorgono immediatamente due problemi. Primo: il libro è stato scritto quasi duecento anni fa; secondo, anche se Leopardi forse immaginava che sarebbe stato pubblicato, di certo non è stato scritto né predisposto per la pubblicazione ed è pieno di elisioni, abbreviazioni, note personali, rimaneggiamenti e riferimenti incrociati. Effettivamente, alla sua morte, nel 1837, quell'enorme fascio di pagine fu abbandonato in un baule dall'amico Antonio Ranieri e non venne mai pubblicato per intero fino al 1900. Quindi devo scrivere in una prosa moderna o in un'imitazione dell'inglese di primo Ottocento? Devo dare una sistemata all'aspetto molto personale del testo non rivisto oppure preservare queste qualità, se ci riesco?

La prima domanda sarebbe più tormentata se pensassi di essere capace di scrivere in un'approssimazione dell'inglese di allora. Ma non lo sono. Quindi il problema è presto risolto. Tuttavia, anche se lo fossi, l'idea dei parallelismi temporali non mi convince. Negli anni trenta dell'Ottocento, inglese e italiano erano giunti a fasi molto diverse del proprio sviluppo. L'uso dell'inglese ufficiale era stato largamente standardizzato nel secolo precedente e romanzieri come Dickens si preparavano a lanciare un assalto su vasta scala a quella standardizzazione. Per non parlare del fatto che l'inglese americano aveva già un carattere ben diverso da quello britannico. L'italiano, d'altra parte, a stento esisteva come lingua nazionale. Solo il cinque percento dei cittadini parlava e leggeva in italiano quando si arrivò all'unificazione politica, nel 1861. La lingua letteraria, sin dai tempi di Petrarca, Dante e Boccaccio, era il toscano ed è in questa lingua che scrive Leopardi, senza però essere mai stato in Toscana, almeno quando iniziò a scrivere lo Zibaldone. Per lui era una lingua cerebrale, appresa soprattutto sui libri. Ha senso passare da questa lingua a quella di Shelley e Byron, o di Emerson e Hawthorne?

Pur considerando tali circostanze, Leopardi era speciale fino all'idiosincrasia. Cresciuto alla periferia dello Stato pontificio, nel Centro Italia, allora uno dei territori più arretrati d'Europa, figlio di un aristocratico eccentrico caduto un po' in disgrazia, Leopardi era un prodigio e sembra che abbia trascorso tutta l'infanzia nella grande biblioteca di suo padre. A dieci anni già padroneggiava latino, greco, tedesco e francese, a cui presto si sarebbero aggiunti ebreo e inglese. Lo Zibaldone è costellato di citazioni da queste lingue, che spesso risuonano qua e là (in particolare il latino) anche nella sua prosa. Pensando ad alta voce mentre cerca di trasformare intuizioni e riflessioni in una storia della psiche umana e in una filosofia nichilista coerente ma molto privata (con termini ricorrenti che talvolta assumono un significato diverso rispetto all'uso standard), si attacca a qualunque sintassi gli capiti sottomano per portare avanti le sue tesi. Alcune frasi sono mostruosamente lunghe e assemblate in maniera bizzarra, passando da strutture formali a un uso flessibilissimo di apposizioni, giustapposizioni, inferenze e allusioni: Il principe di Machiavelli, l'unica altra mia traduzione di un testo "antico", al confronto era una passeggiata.

Allora tengo le frasi lunghe o le spezzo? Rendo il libro più comprensibile per i lettori inglesi di quanto non lo sia per i lettori italiani di oggi (a cui spesso viene fornita una parafrasi nelle note a piè di pagina)? E, soprattutto, lascio che penetrino nell'inglese tutti i latinismi di Leopardi, che inevitabilmente gli conferiranno un'aria austera e formale, o propendo per i monosillabi anglosassoni e i phrasal verbs moderni per traghettare nell'inglese l'intimità concitata della sua scrittura, che è quella di chi, pian piano, costruisce idee molto complesse e spesso provocatorie, senza nessun lettore o editore che gli chieda spiegazioni, o imponga un'omogeneità o un qualunque ordine?

Ecco un esempio di un brano breve e, per gli standard leopardiani, semplicissimo su speranza e suicidio:

La speranza non abbandona mai l'uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono (gli autori della "Morale universelle" t.3.) che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ecc. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare, e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro che non v'è speranza nessuna per noi. [23 luglio 1820]

Devo usare un inglese un po'ampolloso, formale?

Hope never abandons man in relation to his nature, but in relation to his reason. So people (the authors of "La morale universelle", vol. 3) are stupid when they say suicide can't be committed without a kind of madness, it being impossible to renounce all hope without it. Actually, having set aside religious sentiments, always to go on hoping is a felicitous and natural, though true and continuous, madness and totally contrary to reason which shows too clearly that there is no hope for any of us.

O posso rischiare qualcosa di molto più moderno?

Men never lose hope as a result of his nature, but in response to his reason. So people [the authors of the "Morale universelle" vol. 3] who say no one kills themselves without first sinking into madness, since in your right mind you never lose hope, have got it all wrong. Actually, leaving religious beliefs out of the equation, our going on hoping and living is a happy, natural, but also real and constant madness, anyway quite contrary to reason which all too clearly shows that there is no hope for any of us.

O magari un misto dell'una e dell'altra versione? Il fatto è che se trovo difficile immaginare di tradurre il famoso «Lasciate ogni speranza» di Dante in maniera diversa da "Abandon all hope" (introducendo, curiosamente, il pesante verbo "abandon", laddove in italiano avevamo il semplice "lasciare"), qui non trovo nessun motivo per non riorganizzare «La speranza non abbandona mai l'uomo» in un più semplice "Man never loses hope".

E se conservo un anacoluto come "having set aside religious sentiments", devo aspettarmi l'intervento di un revisore, come se avessi semplicemente fatto un errore? Se avviso il revisore che troverà qualche anacoluto perché Leopardi non li considera un problema, vorrà forse dire che posso introdurne io stesso quando non lo fa Leopardi?

Per complicare ulteriormente queste decisioni stilistiche, proprio mentre io comincio la mia traduzione di appena duecento pagine, un gruppo composto da sette traduttori e due revisori specializzati dell'Università di Birmingham, largamente patrocinati nientemeno che da Silvio Berlusconi, ha completato la prima edizione inglese integrale annotata dello Zibaldone, un'impresa enorme. La loro versione non è ancora stata pubblicata (uscirà negli Stati Uniti con Farrar, Straus and Giroux), ma ne possiedo una bozza. Le do un'occhiata? Prima ancora di cominciare? O solo dopo aver terminato, per controllare che almeno semanticamente abbiamo capito la stessa cosa?

Be', senz'altro la seconda, citandoli nei crediti, ovviamente; non ha senso pubblicare una versione con errori che potevano essere evitati confrontando la mia versione con la loro, come d'altronde è ben possibile che loro stessi si siano confrontati con la recente versione francese. Ma, d'altra parte, non ha senso neanche licenziare una traduzione che sia soltanto un'eco della loro. Sarebbe una perdita di tempo. Traduzioni del genere non sono pagate abbastanza per non esigere un altro incentivo: quel briciolo di gloria che deriva dal produrre un Leopardi memorabile.

Decido di guardare la nota del traduttore alla nuova edizione e magari qualche paragrafo del testo che non corrisponde ai brani che dovrei tradurre io, tanto per avere un'idea di come hanno gestito loro le varie questioni di stile. Mi accorgo immediatamente che questi traduttori si sono trovati davanti a un dilemma persino più grande del mio. Sette traduttori e due revisori avranno sentito la voce altamente idiosincratica di Leopardi e avranno reagito al suo singolare progetto, al suo marchio di speciale disperazione, ciascuno a modo suo; ma non si può pubblicare un testo con sette (o nove) voci diverse. Ci sarà stato un accordo sulle strategie da adottare e un unico curatore alla fine deve aver ripreso tutte le duemila e più pagine per appianare il testo. Ciò significa stabilire una voce standard verso cui tutti i traduttori avrebbero dovuto indirizzarsi e prendere certe decisioni generali, in particolare per quanto riguarda le parole chiave, il registro di fondo, i campi lessicali e così via. Comunque, dopo aver letto qualche paragrafo della traduzione, mi tranquillizzo sul fatto che il mio lavoro non sarà una mera duplicazione del loro, perché io sento il testo in una maniera completamente diversa.

Qui il lettore vorrà che spieghi meglio questa differenza, magari con un paio di citazioni. E sarei tentato di prendere come esempio qualche brano che potrei criticare, portando il lettore dalla mia parte perché sostenga il mio approccio, che, spero, sarà più attraente. Ma non lo farò. Francamente ammiro l'enormità dell'impresa tentata dal gruppo e sono consapevole che, volendo offrire una traduzione completa del testo integrale, non si poteva fare altrimenti.

Ciò che invece vorrei rimarcare è la mia intensa consapevolezza, nel leggere la loro traduzione, di come ciascun lettore/traduttore reagisce al testo in un modo assolutamente personale, inevitabile risultato, credo, del retroterra individuale con cui ci accostiamo a un libro, di tutta la lettura, la scrittura, gli ascolti e le chiacchiere del nostro passato, delle nostre particolari inclinazioni, convinzioni e ossessioni. Io sento lo scrittore di Recanati in un inglese che ha un tono e una sensibilità completamente diversi rispetto a quelli che emergono dallo sforzo collettivo dei miei colleghi. A parlarmi è un uomo ben diverso — una voce ben diversa — anche se il Leopardi che sento io non è più corretto del Leopardi, o dei Leopardi, che sentono loro.

E mi rendo conto che, al di là del dovere dell'accuratezza semantica, devo soltanto (soltanto!) sedermi, per qualche centinaio di ore ed eseguire questo Leopardi nel modo che mi sembrerà più opportuno, più autenticamente vicino al suo tono e alla sua sensibilità al momento della scrittura (perché ogni traduzione complessa sarebbe un po' diversa se svolta un mese prima, o un mese dopo, o persino a distanza di un'ora); sì, sentire il testo e farne un'esperienza totale nel modo più intenso possibile, calandomi nel suo modo di pensare le cose, e poi dirle in inglese, eseguirlo in inglese, il mio inglese, come lo eseguiva lui, seduto alla sua scrivania, scrivendo in italiano, nel suo italiano peculiarissimo e speciale. Naturalmente ci saranno interminabili revisioni, un gran lavoro di rifinitura, e un curatore dovrà dire la sua. Ma è così che funziona con la traduzione in fin dei conti; che si tratti di me con Leopardi, di un altro traduttore con l'ultimo premio Nobel cinese o di un traduttore russo con DeLillo o Franzen, il libro trae energia da una mente (nel migliore dei casi) ricettiva, che inevitabilmente imprime il suo sigillo indelebile sulla traduzione. Lascio agli studiosi il dibattito sui contenuti del testo; il mio compito adesso è leggere con onestà e pregare perché arrivi l'ispirazione.

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Echi dalle tenebre



Quindici anni di annotazioni diaristiche. Dal 1817 al 1832. Alcune di appena un paio di righe. Altre forse di un migliaio di parole. A un ritmo che va da due o tre al giorno fino a una al mese, o anche meno. All'improvviso mi viene da pensare che se Leopardi avesse scritto il suo Zibaldone oggi, molto probabilmente sarebbe stato un blog. Immediatamente questo pensiero minaccia di influenzare il mio approccio alla traduzione dell'opera. Immagino il grande diario come lo Ziblogone, lanciato su qualche piccolo sito web eccentrico dalle colline del Centro Italia. Mi chiedo se dovrei suggerire agli editori (Yale University Press) di pubblicare sul loro sito una nota al giorno; potrebbero adottare il sistema di riferimenti incrociati con cui Leopardi stesso mise in relazione le sue idee per creare una serie di link. Fantastico! Magari potrei cominciare a inserire i link già mentre traduco. Perché no?

È impossibile tradurre un testo del passato senza subire l'influenza di ciò che è accaduto nel frattempo. O almeno senza sentire quell'influenza, anche soltanto per resisterle. Ho tradotto Il Principe di Machiavelli durante la guerra in Iraq. Gli stati che invadono paesi lontani retti da governi autoritari, ammonisce Machiavelli, dovrebbero pensarci due volte prima di sciogliere l'esercito e il sistema burocratico che li ha osteggiati, perché quelle istituzioni potrebbero rappresentare la migliore opportunità per mantenere l'ordine quando la guerra sarà finita. Ricordo di aver voluto tradurre questa osservazione in maniera tale che potesse capirla persino l'ottuso Mr Bush. Se avessi potuto introdurre la parola "Iraq" – o forse, più semplicemente, "Shock and Awe" – l'avrei fatto.

Con Leopardi, non ci sono problemi di questo genere. Né la sua fama è tale da indurre un traduttore a spingere il testo nella direzione che tutti già si aspettano. Benché gli italiani lo considerino uno dei loro più grandi scrittori, Leopardi è poco conosciuto nel mondo anglosassone, se non per la sua poesia (Jonathan Galassi ha pubblicato una traduzione delle poesie complete di Leopardi nel 2011). Tuttavia, persino in Italia c'è una salda resistenza alla sua opera in prosa e al suo pensiero filosofico. E non è soltanto per la sua posizione aspramente anticlericale che tanti pensatori "per bene" lo rifuggono o cercano di squalificarlo – Mazzini e Garibaldi erano, se è possibile, ancor più ostili alla Chiesa, ma sono ancora in voga per il loro ottimismo politico. No, il "problema" con Leopardi è il suo lucidissimo e inesorabile pessimismo.

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