Autore Fabrizio Pasanisi
Titolo L'isola che scompare
SottotitoloViaggio nell'Irlanda di Joyce e Yeats
EdizioneNutrimenti, Roma, 2014, Tusitala 23 , pag. 238, ill., cop.fle., dim. 14x21,3x1,6 cm , Isbn 978-88-6594-356-4
LettoreGiangiacomo Pisa, 2015
Classe paesi: Irlanda , citta': Dublino , viaggi , critica letteraria , narrativa irlandese












 

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Indice


    Premessa                                    11


    Cork, proprio sotto il Confine              17

    Θ lunga la strada per Killarney             35

    Cliffs of Moher, l'occhio sul mare          47

    Galway, dove Nora Joyce è di casa           75

    Yeats' Country, il regno della poesia       85

    Un incontro fortuito                       113

    Dublino, il romanzo in un giorno           129

    Un teatro per l'Irlanda                    155

    Sandycove, dove tutto ha inizio            207

    Una caduta di stile                        227


    Indicazioni bibliografiche                 235


 

 

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Premessa



Da dove partire, da dove iniziare questo viaggio se non dalla fine, da dove la storia si conclude? Θ la fine di un percorso, in una logica circolare che ci rimanda ad altro, alle croci celtiche, per esempio, o alle tombe di Newgrange, o ai laghi che puntellano il paese come tanti occhi nati tra le terre, tra il verde, per raccogliere le acque che arrivano dal cielo e danno via al ciclo vitale, all'eterno ritorno. Ci rimanda soprattutto a quell'opera circolare che è, a tutt'oggi, il punto culminante della letteratura, il suo limite estremo: il Finnegans Wake, quel romanzo/poema, quell'invenzione onirica che costituisce per il lettore la sfida ultima, nella sua verità inesplicabile, nella babele di lingue di cui è composto, nella sua logicissima follia. L'epopea di Finnegans Wake è tutta rinchiusa in una sola parola, riverrun, il fiume che non smette mai di scorrere, l'acqua che purifica e ridà vita, speranza, futuro, provenendo dal passato. E poiché l'Irlanda è isola, è terra tra le acque, e le acque oltre a circondarla e completarla l'avvolgono persino dal cielo – visto che conoscere, in questi luoghi, una giornata priva di pioggia è ardua scommessa –, ecco che il riverrun del poeta diventa la migliore metafora per introdurre il discorso, per partire.

L'Irlanda moderna è andata ben oltre la propria tradizione, così come James Joyce è andato oltre il romanzo. Spostandosi all'interno di questo paese ci si rende conto, piano piano, che il passato, inteso come storia, quella importante, quella che incide in modo indelebile sull'evoluzione dei tempi, non conta molto, non è così decisivo, o almeno non lo è per il viaggiatore. Quando le guide ti mandano a visitare la rovina di un castello, o di un'abbazia, resta spesso un senso di delusione, perché castelli simili, abbazie simili, ce ne sono centomila in giro per il mondo, e in genere sono meglio, molto meglio, conservati. In paesi con una storia più profonda le vestigia del mondo antico appartengono ad altre ere, e hanno un valore artistico o archeologico superiore. E, quando si trova traccia di un avvenimento, come dell'Invincibile Armata costretta nel porto di Kinsale, è un fatto che appartiene ad altri, non agli irlandesi, perché su queste terre sono altri ad aver fatto la storia. Forse quaggiù hanno preso troppo sul serio la frase pronunciata da Stephen nell' Ulisse di Joyce: "La storia è un incubo dal quale cerco di svegliarmi".

Qui, del passato, ci si può accontentare, anche perché è spesso inserito in un paesaggio che, quello sì, merita il viaggio, è degno della visita ammirata. Accade lo stesso se si percorrono gli ambienti austeri della National Gallery of Ireland: i quadri più importanti sono quelli italiani, quelli spagnoli, quelli fiamminghi. Anche quelli inglesi, a parte la luce aperta sul Novecento da Jack Yeats, una rivelazione di colori e di vita pulsante. Per la letteratura stesso discorso, anche se resta il segno del monumentale Swift , o del più appartato Goldsmith, e poco altro... Ma poi, eccoli: in un colpo si arriva ai moderni, a Oscar Wilde , irlandese fino al midollo, scanzonato fino allo scandalo; a George Bernard Shaw, caustico e acuto; al sublime Yeats, William B. Yeats, la cui voce risuona come un'eco da Nord a Sud, tra paesaggi, giochi, magie, memorie, sempre incanti, incanti...; a James Joyce , soprattutto a Joyce, e a Samuel Beckett , l'ultimo degli immensi, i cui silenzi valgono spesso più di qualsiasi parola.

Alcuni autori più recenti, tra di loro quel Joseph O'Connor ricordato per i bei romanzi e per la sorella dalla voce maestosa, la superstar Sinéad, hanno dovuto uccidere Yeats e Joyce per dare un significato alla propria arte, per emanciparsi, per ripartire. Comprensibile, molto freudiano, uccidere il padre, i padri. Sciocco, apparentemente sterile, perché uccidere significa negare, privandosi di un confronto altrettanto terapeutico, altrettanto salvifico. Buon per loro, però, se adesso si sentono più liberi; buon per il mercato editoriale, che si nutre della nuova letteratura irlandese. Ci chiediamo però, in modo sommesso, quello che essi stessi sanno: senza Yeats e Joyce, loro, cosa sarebbero? Cosa saremmo noi italiani senza Dante, senza Boccaccio? Θ che Dante è lontano, è lontano Boccaccio, anche se farebbe scandalo ancora oggi, come lo fa ancora Joyce se solo leggiamo cosa scrive alla donna della propria vita, a Nora, e se solo lo capissimo, se tutti lo capissero.

[...]

La gente irlandese è così, povera magari, questa è la sua anima, come ci ha raccontato anche Frank McCourt in Le ceneri di Angela , ma orgogliosa, onesta, dignitosa, capace di accogliere, di dividere il proprio pane, la propria birra, con l'ospite del momento. Ed ecco il suono montare, ed ecco James Joyce prendere in mano la chitarra e aprire al pubblico la propria voce soave – e se avesse fatto realmente il cantante, come lui e Nora avrebbero anche desiderato, cosa ne sarebbe di noi, lettori senza lettura? Ecco qualche suo emulo per la strada, capace di cantarci sopra, di scatenarsi per noi in una di quelle travolgenti sarabande che si seguono con lo spirito sempre più leggero, sempre più avvolgente, scoprendo che il nostro piede, sull'onda del suono, sta battendo al ritmo, e se l'ultimo freno dovesse cedere, anche il resto del corpo lo seguirebbe, appassionato.

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Pagina 19

L'Irlanda, è sempre più chiaro man mano che la si conosce, è un paese segnato dalla poesia, e la sua antica lingua si presta alle cantate, in una memoria che affonda le proprie radici a partire dal sesto secolo. Muovendoci dal Sud, da Cork, vogliamo tenere bene a mente tale tradizione, affacciandoci a questo nuovo, antichissimo mondo.

E dopo il lamento funebre, dopo il dolore, ci viene incontro in questa lingua armoniosa una poesia sulla natura, una poesia di cui la natura è tutto, è il centro, è la vita. Scritta nel dodicesimo secolo, e contenuta nel Lebor Gabàla, il Libro delle Invasioni, cioè l'articolato racconto di un'Irlanda mitica, è conosciuta come il Canto di Amergin. Questi, narra la leggenda, è il figlio di Mil, cioè del capostipite dei Gaeli, gli eroi che invasero il paese sconfiggendo il popolo divino dei Tuatha dé Dannan e occupandone il posto.

Amergin si mette a capo di tutto, del vento e delle onde, degli animali, anche del raggio di sole; per lui, che domina pure sugli eventi della natura, persino il mare, la casa di Tetra – Tetra è il signore del paese dei morti –, spalanca le proprie porte, mettendogli a disposizione i tesori, che non sono gioielli e pietre preziose, ma sono i pesci, la vera ricchezza.

    Io, vento del mare
    Io, onda dell'oceano
    Io, fragore dei marosi
    Io, cervo dalle sette corna
    Io, falco sulla roccia
    Io, raggio di sole
    Io, l'albero più bello
    Io, cinghiale valoroso
    Io, salmone dell'acqua
    Io, lago della piana
    Io, collina della saggezza
    Io, parola dei poeti
    Io, sgominante lancia della vittoria
    Io, divinità che modella il fuoco delle menti
    Chi altro interpreta le grandi pietre sulla montagna?
    Chi conosce le fasi della luna?
    Chi sa dove tramonta il sole?
    Chi trae i tesori dalla dimora di Tetra?
    Per chi sorridono i tesori di Tetra?



***



Partiamo allora dal Sud, oltre il Pale, abituati ormai a ben altri confini. Eppure siamo consapevoli di essere su un'isola il cui popolo, come dice Heinrich Bφll nel suo Diario d'Irlanda , "non ha mai intrapreso guerre di conquista". Ha piuttosto contributo alla superstizione collettiva, a dare un nuovo contorno alla paura, poiché da queste parti sono nati Dracula di Bram Stoker e Carmilla di Sheridan Le Fanu. Siamo giunti in un paese in cui fantasmi, mostri e visioni sono di casa, in cui qualcuno organizza persino tour folkloristici per mostrare, a pagamento, i luoghi della paura, mentre altri consigliano di non stuzzicare santi e credenze, che da queste parti abbondano. Ma per fortuna, mentre si attraversano in una qualsiasi serata estiva le strade di Cork, il cui motto è "Un porto sicuro per le navi", è difficile avere paura.

I giovani sembrano i padroni della città, anche se può stupire il loro abbigliamento dimesso, come se uscissero da un film inglese degli anni Ottanta ambientato nelle periferie di Londra. Se si prova a confrontarsi con la tradizione, ci si può scontrare con i più ovvi tempi correnti, con i vestiti striminziti delle ragazze, con i più banali dettami della moda, quelli che fanno il mondo più stretto, e meno bello.

Siamo venuti a cercare qualcosa che si avvicinasse alla poesia, ci troviamo invece calati in una moderna Gomorra in miniatura, una città come tante, con le solite giostre sostenute da denaro in contanti, con i soliti cliché del divertimento a tutti i costi, del "largo ai giovani". E se questi giovani li si accosta, qui a Cork come si potrebbe fare in tanti altri posti simili, a quell'idea di Dante ripresa da Yeats nella struggente Sailing to Byzantium, dove la bellezza viene paragonata a un corpo umano "sottilmente armoniato", ebbene ci si rende subito conto che l'inizio non è incoraggiante. Per quanto ci si sforzi, di armonia se ne trova ben poca, non certo nei corpi, tanto meno in quei vestiti, o nel traffico, nel senso di decadenza che regna un po' dovunque. Non fosse per la voglia di sorprendersi che sottende ogni viaggio, si potrebbe pensare di aver mal riposto l'ambizione di conoscere, di scoprire. Di stupirsi.

Nel complesso, Cork si mostra, al primo sguardo, vecchia, usurata, sebbene appaia ben saldamente nelle mani dei teenager, cioè proprio di chi dovrebbe rappresentarne il futuro. Quasi quasi si può scovare proprio qui il solitario e abulico Murphy, un personaggio di Samuel Beckett: proveniva proprio da Cork, ma da questa cittadina se ne era venuto via dopo gli studi, alla ricerca di una vita migliore, o almeno diversa. Non sembrerebbe un buon presagio, anche se non siamo certo disposti ad abbatterci così in fretta. Contiamo sul giorno nuovo perché con esso possa farsi luce, come ci dice Joyce, sui vivi e sui morti, sul vero e sul possibile.


***



Cork, come inizio del viaggio, ha il sapore di una risalita, simile a quella dei salmoni. Siamo al Sud, uno dei tanti Sud del mondo, siamo a un passo, o due, dal continente, dalla Francia. Se il nostro viaggio inizia qui, non è certo un caso. Il viaggio è rivolto alla scoperta dell'Irlanda, e questo è ovvio; ma l'idea è anche quella di ricalcare in qualche modo le orme dei due autori più celebrati della cultura locale: James Joyce e William Butler Yeats. E, mentre lo spirito di quest'ultimo aleggia in ogni luogo del paese, là "dove l'acqua vagabonda zampilla", un filo, fatto di fortune e rimpianti, di possibilità e di infausti destini, lega l'autore di Ulisse a Cork, alla città dei suoi nonni paterni.

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Pagina 32

Noi che non sappiamo raccontare le doti degli insetti, e ormai stanchi per la troppa pioggia, per il freddo, per lo svilirsi di una giornata così grigia, ci rimettiamo agli esiti di una ricerca pre-gastronomica, fatta di guide e risto segnalati. Così, dopo un paio di tentativi infruttuosi, troviamo un pub dove ci assicurano venga servita un'ottima cucina locale. Calda. Dovrebbe esserci anche musica dal vivo, ma mentre mangiamo, soltanto noi e una famigliola a un altro tavolo, gli strumenti giacciono abbandonati sul fondo della sala, in attesa, chissà, di ulteriori avventori, di orari più adatti, di allegria, che, in effetti, scarseggia. Iniziamo con una zuppa di pesce, il chowder, caldo, che ritroveremo anche altrove sebbene con ingredienti e sapori leggermente diversi. Poi insalata di granchio, cozze, e ci tocca soprattutto il battesimo con la birra irlandese, temperatura ambiente. Stout, ovviamente, scura, forte, un sapore che non sarà forse l'ideale con i crostacei, ma va benissimo con la giornata che ci ha accompagnato.

Ci resta nelle ossa l'umidità, ci resta il freddo, e la consapevolezza che il nostro sarà un viaggio nell'acqua. Questo elemento, che circonda e sommerge il paese, coincide in qualche modo con tutto, con la terra, con l'aria. Ce lo conferma l'irlandesissimo Joyce, il quale distribuì nella propria opera mirabile, l'enciclopedico Finnegans Wake, in particolare nel capitolo dedicato al Liffey di Dublino, circa ottocento (800!) nomi di altri fiumi, locali e non solo. Ce li indica in piccola parte Umberto Eco in uno scritto esegetico: "Chebb, Futt, Bann, Duck, Sabrainn, Till, Waag, Bomu, Boyana, Chu, Batha, Skollis, Shari e via dicendo...".

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Pagina 49

"Uomo libero amerai sempre il mare". Θ un verso universale, uno dei più facili da capire, da apprezzare, pronto all'uso per chiunque s'illuda di poter vivere d'avventura. Il mare, come specchio dell'animo, fa da pendant agli altri pensieri profondamente volatili, come l'albatro, la bellezza, il mistero, così cari a Baudelaire. Poi si giunge quaggiù, si arriva fino alle celeberrime Cliffs of Moher, un luogo dove il cuore ti deve entrare in tumulto, dove se credi in Dio è il momento giusto per trovarlo, dove bisogna inchinarsi alla maestosità della natura, dare a Schopenhauer, a Leopardi, a Hφlderlin, quello che spetta a ognuno di loro, perché in fatto di natura ci hanno insegnato...

Antefatto, i lievi versi, rubati a un'antica poesia, scritta in gaelico nella prima metà del nono secolo, al tempo dei vichinghi:

    Aspro è il vento questa notte,
    scompiglia i bianchi capelli dell'oceano;
    non temo che corrano per il chiaro mare
    i feroci guerrieri di Lothild.

La scena è quella descritta, eccezion fatta per la presenza dei guerrieri di Lothild, che era il nome dato dagli irlandesi alla Norvegia. Θ lì, davanti a noi, ci sono otto lunghi chilometri di scogliere, così a picco da causare vertigini. In cima, l'erbetta di un prato all'inglese, appena tagliata da una misteriosa falciatrice, poi il baratro, da lancio col paracadute, dritto per dritto tra spunzoni e asperità, rifugio al più di gabbiani, sule e varie divinità marine. Giù in fondo, circa duecento metri sotto, le onde del padre Oceano, e di lì gli abissi, che appaiono così vicini, così insidiosi, così magnetici. Poi, stagliate verso un prossimo orizzonte, le isole Aran, sulle quali si dovrà tornare. Tutto fantastico, e tutto a disposizione dell'uomo libero che è sempre pronto in noi e si libra alto, con i gabbiani, con Dedalo – Dedalus, non dimentichiamoci di Joyce –, e si esalta, piange, prega, e...

Poi ci si guarda intorno, e il senso di solitudine che il mare e l'infinito trasmettono – non è solitario il viaggiatore di Caspar David Friedrich in cima alla montagna, non è solitario il filosofo di Hφlderlin davanti al vulcano? – in un colpo evapora, come la pioggia appena scaricata dal cielo. Perché? Ma perché soli non siamo, perché la società di massa, come il sonno della ragione, produce i suoi mostri, e se la maestosità del luogo rimane, si trasforma con l'ennesimo scatto di una fotografia, diventa il miliardesimo panorama per il giapponese che è in noi e ormai prolifera tra selfie e social network, diventa il motivo di un bene comune, collettivo, che a volte vorremmo tornasse a essere privato, esclusivo, almeno per un momento.

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Pagina 56

"I am in Aranmor, sitting over the turf fare, listening to a murmur of Gaelic that is rising from a little public-house under my room".

Ecco Synge, davanti al fuoco; mentre la torba brucia e lo riscalda, ci parla, ci racconta. Θ giunto da non molto ad Aranmor, oggi più nota come Inishmore, l'isola principale, e finalmente può prestare attenzione alle voci che salgono fino alla sua camera da una piccola osteria, voci nelle quali è facile, per lui, riconoscere la lingua gaelica.

Sarebbe bello essere alle Aran con Synge, e non doversi accontentare di osservarle da lontano, quali un tenue filo di terra all'orizzonte capace di nascondere sogni e misteri.

"La pioggia è cessata e io ho fatto la mia prima conoscenza dell'isola e della sua gente".

Synge ci cala nell'atmosfera, nella staticità del tempo. Quanti incontri fa il drammaturgo, il lato selvaggio della natura è ancora lì, la semplicità è di casa, come il calesse che trasporta ancora i turisti fino alla prossima scogliera. E non ci si può certo meravigliare se Synge scrive che "il vento è terrificante", non sembra certo questa un'esperienza remota. Θ il mondo di oggi a essere un altro, ma forse la gente lì è la stessa di una volta, il ritmo dell'esistenza non può dipendere sempre dall'appuntamento con un programma televisivo. Ci sono le automobili, è ovvio, o i pescherecci analoghi a quelli di ogni altra marina, ma esistono ancora i cùraghi, i currach, le imbarcazioni locali adatte all'onda lunga dell'oceano, ai mari tempestosi, quei natanti in legno su cui lo scrittore veniva portato a pescare un tipo di pesce chiamato pollock, proprio come il pittore dell' action painting e che in italiano viene indicato come merlano giallo. Quindi un po' merluzzo un po' Merlino, qualcosa che ha a che fare con la magia, con la trasformazione, proprio come l' action painting...

Anche Joyce ammirava le opere di Synge, ne tradusse persino una in italiano, La cavalcata del mare, ambientata proprio alle Aran. L'azione si svolge in una scena spoglia, una cucina, con le reti per la pesca appoggiate alle pareti. Vi si narra il dolore, la miseria, l'idea della morte che incombe, sempre aleggiante, presente. La morte e il mare, lì fuori.

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Pagina 70

Galway e Nora, Galway e alcuni personaggi di Gente di Dublino, in particolare nel racconto più commovente, I morti. Galway era già piena di vita e animazione quando Nora vi nacque, alla fine del 1800: aveva circa quindicimila abitanti e un porto di rilievo, il più vicino tra l'Europa e le Americhe. Era la città della speranza, in Irlanda, ma era al tempo stesso piena di mendicanti, tanto da apparire selvaggia e incolta agli occhi di un dublinese.

C'è un episodio interessante che lega in modo paradossale Galway alla storia dell'uomo, o almeno a quella del linguaggio. Più o meno ai tempi di Cristoforo Colombo, il sindaco di questa città, tale James Lynch-Fitzstephen, uomo tutto d'un pezzo, di grande rigore morale, fece giustiziare il proprio figlio accusato di omicidio. Lo fece impiccare a una finestra, ma non fu tanto questo fatto a passare alla storia, quanto il nome di padre e figlio, Lynch, da cui deriva il termine linciare – in inglese, appunto, to lynch, in francese lyncher. Lynch divenne anche, guarda un po', il nome di uno dei personaggi del Dedalus di Joyce, poi ripreso nell' Ulisse, incarnando peraltro l'amico Vincent Cosgrave.

A Galway Nora è ricordata al punto da aver avuto diritto non al semplice nome su una strada cittadina, ma addirittura a un museo, tutto suo, tutto per lei. Il Nora Barnacle Museum, come quello dedicato a Dublino a suo marito Joyce, o, a Weimar, a Johann Wolfgang Goethe. La casa di famiglia, dove visse – neanche troppo a lungo –, trasformata in luogo di memorie, di omaggio o perché no di culto per l'intrepida irlandese destinata a diventare, al di là della propria volontà, una celebrità universale.

In verità, Nora non nacque in quella casa, emise il primo vagito non lontano da lì, nella Workhouse, l'ospizio di mendicità. Il padre fornaio, la madre sarta, altri cinque o sei fratelli da sfamare, uno dei quali non sopravvisse all'infanzia: l'inizio della sua esistenza, come tante altre storie che in Irlanda ricorrono, non fu certo facile. Nora, Norah all'anagrafe, portava con sé, oltre alla speranza di una vita serena, di certo migliore di quella che le avrebbe potuto offrire un luogo lontano da tutto, come Galway, un curioso cognome. Barnacle, infatti, è il nome di un mollusco molto tenace, difficile da staccare quando si afferra a qualcosa, e, in senso traslato, indica una persona inopportuna, un attaccabottoni. Nomen omen, avrebbe pensato John Joyce, il padre di James, quando venne a sapere che il figlio era partito per il continente non da solo, come aveva fatto credere all'inizio, ma con quella ragazza: "Barnacle?", esclamò allarmato. "Non lo mollerà mai!".

Questo per quanto riguarda John, il padre. James invece era più legato a un altro significato della parola, perché esiste un certo tipo d'oca, l'oca dalla faccia bianca, definita appunto barnacle-goose. Θ considerata un uccello marino e, come tale, viene richiamata spesso nell'opera dello scrittore. Meglio avere per moglie un'oca che un mollusco, avrà pensato l'autore dell' Ulisse, capace, a buon ragione, di accontentarsi.

Nora era legata a Galway. O meglio, lo fu fino a quando ricevette una cocente delusione. I motivi di attrazione erano evidenti: vi era nata, vi risiedeva la propria famiglia, e poi c'erano le radici, la familiarità con il luogo era tale che non riuscì mai a trovarne l'equivalente durante i pellegrinaggi all'inseguimento della fama di Jim.

Dopo l'uscita dell' Ulisse, quando finalmente le finanze di casa Joyce – casa, già, ma quale, quante ne avranno avute in una vita sola? – furono rimpinguate, Nora decise di tornare a Galway per qualche tempo, portandosi dietro i poveri figli, sebbene essi non amassero viaggiare e farsi trattare come un pacco postale. Lasciarono a Parigi James da solo, ma lui, quando si ritrovava lontano dalla famiglia, diveniva un marito e padre disperato. Era il '22, l'Irlanda era ancora immersa nella guerra civile, sebbene fosse da poco diventata uno stato libero. Galway restava al centro degli scontri, tra gli eserciti regolari e gli irregolari, tra chi sosteneva il trattato stipulato con sua maestà britannica, con la divisione dell'isola in due blocchi, e chi lottava ancora per un paese unito, tutto affrancato dal vecchio invasore.

Nora trovò un posto decente, per sé e per i ragazzi, in una pensioncina, dalla signora O'Casey, una casetta nel centro di Galway. Pensava di potervi risiedere in piena tranquillità, perché Galway era sempre stata tranquilla, persino troppo. E invece, proprio in quei giorni, la casa fu invasa dai militari dell'Ira, i regolari, che piazzarono sulle finestre dell'abitazione alcune mitragliatrici per controllare le strade limitrofe.

Nora, allo stesso modo di James, aveva sentito soltanto l'eco della Prima guerra mondiale, dal loro rifugio in Svizzera. Di certo James non avrebbe resistito, fifone com'era, in mezzo a bombe e spari di arma da fuoco. Ma anche Nora e i ragazzi non erano preparati a vedere un conflitto a fuoco così da vicino. Ritrovarsi nel mezzo di una sparatoria, beh, questo era troppo anche per l'intrepida ragazza di Galway. Partirono di corsa per Parigi, e senza alcun rimpianto: Nora non avrebbe più rivisto la città dell'infanzia, quella che l'esacerbato marito, sempre più scosso dalla propria nevrosi solitaria, aveva definito "il letamaio natale" della moglie.

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Pagina 95

Ritorno alle parole già citate: "Ricordo poco della mia infanzia, se non il dolore".

Così William B. Yeats; così può partire un'ulteriore riflessione su di lui. Una frase che potrebbe rimandarci a Leopardi, ma sarebbe un errore. Con il poeta di Recanati Yeats ha poco in comune, a parte la voglia di apprendere e un carattere introverso, e a parte ovviamente il genio. Un bel giovane prima, un uomo affascinante poi, vissuto in luoghi diversi, di Londra e di Dublino si è detto, ma abitò anche a Parigi, viaggiò, in Italia, e restò sempre ancorato alla terra del Nord Ovest, che si stende tra la contea di Galway e Sligo. Per Yeats, al di fuori del riparo della Torre, l'infinito non era celato da una siepe; per lui l'orizzonte era ampio, così come lo vedeva salendo la costa impervia del Ben Bulben, affacciandosi al mare, dandosi a esso. Mari, laghi, fiumi, boschi, nuvole, vento, verde, blu, marrone, piante, rocce, fiori: Irlanda! Terra di solitudini profonde, e da lì il dolore di Yeats, ragazzino solitario; ma mai terra di chiusura, di povertà sì, anche di speranza continua, semmai di fantasie traboccanti. Leopardi sognava di evadere dagli spazi oppressivi della propria vita di provincia, come Madame Bovary, per allontanarsi dalla meschinità locale e affacciarsi al mondo; Yeats sognava soltanto, quando i fatti lo portavano lontano, di tornare lassù.

L'amore che egli nutre per questi luoghi trova traccia in tutte le sue opere. Nella poesia, certo, nelle autobiografie, nei drammi e nel Crepuscolo celtico, nelle fiabe, nei racconti. Trova traccia, anzi trova radice solida, nell'Abbey Theatre, quella casa che egli, con Lady Gregory e Synge, volle dedicare all'Irlanda, al passato e al futuro di una nazione.

Nella farsa L'elmetto verde, dopo una grande bevuta di birra, quando le menti hanno ormai perso la propria lucidità, un uomo, un forestiero, sfida i presenti in un gioco divertente, almeno a sentir lui: si tratta di recidere, con un colpo netto di spada, la testa di un commensale, il quale avrà diritto, a propria volta e a tempo debito, di rivalersi nello stesso modo. Ma, dicono tutti, una volta decapitati, come potremo prenderci la nostra rivincita? L'uomo però non molla, ride e provoca a tal punto che il più ardito del gruppo, Conall, alza stizzito la spada e in un sol colpo mozza il capo, che rotola per terra, a quel fanfarone. Ma l'uomo non cade. Si muove anzi con le proprie gambe, si china per raccogliere la testa e, sistematala alla meglio sotto il braccio, si allontana lasciando i presenti ammutoliti e stupefatti, scomparendo verso il mare.

Fantasie e credenze si uniscono in queste storie senza tempo, storie di guerrieri e d'imprese eroiche, ma anche di burle, avventure farsesche. La farsa, nella novellistica italiana, finisce con una risata collettiva; quella irlandese finisce peggio, molto peggio. Giusto un anno dopo, l'individuo dal capo mozzato – l'uomo rosso, lo chiama Yeats – torna, seminando il terrore. Adesso vorrà la propria rivincita, si dicono tutti. Ma, ridendo, egli si rivela: aveva giocato soltanto un brutto scherzo alla comitiva, erano tutti troppo ubriachi per accorgersi che c'era un trucco. Per farsi perdonare lascia loro un regalo, un elmo verde destinato al migliore della compagnia, al più coraggioso, a quello che saprà conquistarlo. Nemmeno la saggezza di Cuchulain riesce a evitare a quel punto la lotta per la conquista dell'elmo, nessuno si accontenta di essere il secondo. E, in seguito al litigio, il gruppo si spacca. Solo allora l'uomo rosso ritorna, pretendendo il proprio pegno: vuole la testa di uno dei presenti, altrimenti tutto quanto andrà in rovina. La scelta è tra la vita di un corpo e quella della terra. Si offre il migliore di tutti, Cuchulain.

Metafora di un popolo? Storia di una nazione che ha continuato per secoli a dividersi, a sbranarsi senza mai risolvere del tutto la questione? La birra, il mare, l'odore di aringa, le imprese eroiche, il bisogno di primeggiare, di conquistare la fama, c'è tutto un mondo in questo dramma. C'è anche la passione.

"Sei tu, non la tua fama, che io amo!", dice Emer, la moglie di Cuchulain, al marito, pronto a sacrificarsi.

Forse ha ragione Enrique Vila-Matas quando ci dice che i temi della letteratura irlandese d'oggi sono sempre gli stessi, l'amore, la malattia, la vecchiaia, il clima grigio, la noia, la pioggia. Non è più il tempo dei miti e degli eroi. Evidentemente, non è più il tempo dei drammi di Yeats. Eppure, se si cercano percorsi alternativi alle autostrade, alle comodità del mondo moderno, agli acquisti nei centri commerciali, questi luoghi continuano a insegnarci qualcosa, continuano a vivere nella propria eccezione, in un regno poco noto, quello in cui le cose sono ancora possibili, quello in cui la fantasia è di casa.

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Pagina 113

Un incontro fortuito



ITINERARIO: DUBLINO (O'CONNELL STREET)

"Caro Joyce, mi scusi l'impertinenza, ma sa, visto che mi ha concesso questa intervista, qui accanto a O'Connell Street, ne approfitto. Volevo chiederle: lei ha mai tradito sua moglie, Nora?".

"Nora, Nora... (risatina) Lasci perdere, o forse, anziché parlare, preferisce che le canti qualcosa? A quest'ora, come può vedere, non c'è più nessuno in giro, nemmeno quegli invadenti signori che hanno preso la mia statua per un salotto. Si siedono qui sotto, sul piedistallo, mi danno le spalle, non mi degnano di alcuna attenzione. Capisco che non sono stato sempre tenero con i miei connazionali; capisco quello che diceva Montaigne — ricorda?: più in alto una scimmia sale, più mostra il sedere.

Però, ecco, se mi hanno fatto diventare una statua, anche in omaggio alle sbronze che mi pigliavo nei bar della zona, poi dovrebbero mostrare un po' più di riguardo. Comunque, le dicevo, la musica. Sa, la mia è stata una famiglia di cantanti. Nora era molto brava, aveva un'intonazione naturale, un registro da mezzo soprano. Peccato non abbia mai coltivato la voce — in verità non ha coltivato molto, a parte il proprio abbigliamento, cosa che peraltro ho sempre favorito —, ma quando intonava una canzone bisognava fermarsi ad ascoltarla, lasciava tutti stupiti. Poi c'era mio figlio, Giorgio, probabilmente il migliore di noi, ma troppo irresoluto, troppo pigro. Pensi, aveva il terrore di esibirsi in pubblico, e, beh, un cantante che non si vuole esibire... Come si fa, quando decise di smettere fu una vera delusione. Poi mi hanno rimproverato di avere concesso troppa attenzione a quel fenomeno di John Sullivan, un franco-irlandese che era diventato tenore fisso all'Opéra di Parigi. Povero Giorgio, deve esserci rimasto male. Anche Lucia era brava, ma così delicata... Preferiva la danza e, dopotutto, anche di quell'arte suo padre è stato un eccellente interprete. Nora ha sempre sostenuto che sia stato un peccato che io non abbia intrapreso una carriera di cantante. A lei sarebbe piaciuto, anche perché, le dico un segreto che è sulla bocca di tutti, lei non ha mai apprezzato le cose che ho scritto. Forse i primi racconti, i primi vagiti di una penna promettente, le prime eruzioni cutanee. Le piaceva quando scrivevo della sua gente, le cose che conosceva meglio e poteva identificare. In una storia ho infilato anche i parenti di mia moglie, i suoi concittadini, quelle persone così atone, così perbene. Poi diceva di non capirci più niente. Non dovrei biasimarla, qualcuno potrebbe sostenere che non è stata la sola, c'è chi ancora si affanna, cento anni dopo, per capire il mio ultimo romanzo. Ma, insomma, non c'era modo di far intendere ragione a Nora: pensi che non ha mai voluto accettare il fatto che l' Ulisse sia un'opera comica. Ma come, le dicevo, è il coacervo delle invenzioni, del paradosso, i riferimenti di cui ho infarcito l'opera piombano in un attimo dall'alto al basso, vanno dagli dei di Omero ai putridumi della carne, alle funzioni delle reni e della bile. Ma lei era così, se si metteva un'idea in testa...".

"Perciò, diceva, un cantante...".

"Sì, avrebbe voluto che facessi il cantante, quando siamo partiti verso il continente. S'immagini, due giovani di bella presenza, con un buon vestito, senza un penny in tasca. Era un viaggio di conquista, un'avventura, prima di tutto tra di noi. Avevamo avuto qualche schermaglia amorosa, qualche rotolamento sull'erba umida, mi aveva anzi colpito parecchio l'abilità della ragazza. Io avevo la penna pronta, e lei si soffermava sui vocalizzi. Ammetto pure di aver avuto una bella voce – anzi, se vuole le faccio ascoltare una ballata, così, su due piedi. Però, si dovrebbe riconoscere che la mia scelta non è stata sbagliata, credo di aver lasciato qualcosa di valido, dopotutto, in letteratura. Mi dica lei se il mondo sarebbe più lieto se avesse avuto un altro eccellente interprete del bel canto, oppure la possibilità di tenersi sveglio con la Veglia di Finnegans...".

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"Ma no, caro maestro, non dica questo. Lei siede accanto al suo Omero, a Dante, a Sofocle: chi meglio di voi ci ha parlato di Ulisse? E persino i suoi concittadini, che, ammettiamolo, non sempre sono stati trattati da lei con i guanti bianchi, la venerano come il migliore di loro, più in alto di Swift, persino di Yeats".

"Ancora? Lo sa che una volta mi proposero di prendere il posto di Yeats alla direzione dell'Abbey Theatre? Lui l'aveva creato e loro volevano detronizzarlo, volevano innalzare me come massimo artista irlandese".

"I suoi concittadini la amano, sapesse quante edizioni dei suoi libri ho trovato".

"Sì, forse ha ragione. Lo sa cosa ho sempre apprezzato negli irlandesi? Il sorriso che hanno sul mondo. Magari si fanno la guerra in casa, ma poi finiscono per berci sopra una birra e mettersi a ballare, tutti insieme. Swift, Wilde, Shaw, il mio amico Beckett: abbiamo la stessa misura della morte, disincantata, e anche la voglia di riderci sopra. Anzi, sa cosa le dico? Conosco un bar qui vicino, dove hanno un'ottima birra e fanno una musica irresistibile. Le va se ci andiamo insieme?".

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Dublino, il romanzo in un giorno



ITINERARIO: DUBLINO (JAMES JOYCE CULTURAL CENTRE, O'CONNELL BRIDGE, GRAFTON STREET, ST STEPHEN'S GREEN, NATIONAL LIBRARY, BEWLEY'S ORIENTAL CAFΙ, TEMPLE BAR, FIUME LIFFEY)

Passare da Yeats a Joyce significa prima di tutto passare dal mare e dalla campagna alla città. A Dublino è ben viva anche la presenza del poeta, ma è normale che se si pensa alla capitale la mente vada a lui, al creatore di Ulisse/Bloom. Yeats, Joyce, l'Irlanda. Quanto distanti i due artisti come vita, come poetica, come visione delle cose. Yeats lottò per la propria terra, per la creazione di uno Stato. Joyce trattò l'Irlanda al più con ironia, in genere con disprezzo, la rinnegò e l'abbandonò, pur portandosene dentro l'eco profonda, il richiamo ancestrale, e non smise mai di essere e di sentirsi, ineluttabilmente, irlandese, un esule irlandese. Yeats apparteneva all'élite, a un'aristocrazia di fatto, e si ostinava a vivere in un mondo esclusivo, nel quale chi non era invitato non era ben accetto. Joyce era l'opposto, un curioso cittadino del mondo, pronto a sporcarsi le mani con la vita, pronto a chiamare le cose con il loro nome, anche le più abiette, capace di conoscere la strada e di frequentarla molto più dell'idilliaca natura, che tanto piaceva a Yeats. Yeats il senatore; Joyce il cantante, il clown, l'ubriacone. Yeats l'amico di Lady Gregory, Joyce di qualche barista. Si stimarono, riconobbero il genio reciproco, il primo aiutò il secondo, che aveva sempre bisogno di aiuto.

Ma Joyce non ammirò l'ambiente di Yeats. Accusò d'ipocrisia personaggi del calibro di Lady Gregory, di Synge, le cui opere pure aveva apprezzato. Non riconobbe il Rinascimento celtico, non s'identificò per niente in quel movimento, mettendone in ridicolo l'eccesso di misticismo, e quell'idea di crepuscolo attraverso la quale gli altri avrebbero voluto risplendere:

    Sogni di sogno sognino pure:
    porto via le loro fetide acque impure

Nella lunga poesia Il santo uffizio, The Holy Office, scritta subito prima di lasciare l'Irlanda, Joyce prese di mira lo stesso Yeats, chiedendosi, a dispetto del proclama di quest'ultimo secondo il quale la prima qualità del poeta doveva essere l'"intensità":

    Forse non giunge a un vivere intenso
    Chi guida la sua vita col buon senso?"

Una parentesi, forse un pizzico d'invidia. Joyce arrivò anche a firmarsi, in una lettera alla moglie e con il proprio estro dissacrante, W.B. Yeats: ma senza quest'ultimo, che gli presentò Ezra Pound, la fama letteraria di Joyce sarebbe arrivata più tardi — e sarebbe poi arrivata? Yeats, la lirica, la natura, la tradizione, l'esoterismo, la vita. Joyce, la città, gli odori, il corpo, la civiltà, la vita. Irlanda felix.

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Ricapitoliamo, e lo facciamo lasciandoci guidare da una penna d'eccezione, Hermann Broch, l'autore di I sonnambuli e La morte di Virgilio. Broch, nel 1936, quando Joyce compiva cinquant'anni e l'Europa era sul punto di esplodere, dedicò all'autore dell' Ulisse un saggio breve e intenso. Dublino, 16 giugno 1904: alle nove del mattino l'agente pubblicitario Leopold Bloom si sveglia, prepara la colazione alla moglie, completa le proprie necessità corporali ed esce di casa. Cammina per la città, incontra gente, va a un funerale ecc. ecc., fa la conoscenza con un giovane interessante, tale Stephen Dedalus, chiacchiera con lui, entra in un bordello... E via così dalle nove di mattina alle tre di notte: "Queste sedici ore di vita", scrive Broch, "vengono descritte in 1200 pagine; vale a dire 75 per ogni ora, circa una riga per ogni secondo".

Sedici ore di vita, nelle quali sono comprese e opportunamente segnalate, nota sempre Broch, numerose e inevitabili soste al gabinetto. Sedici ore in cui tutto è vero, o meglio tutto è plausibile, dove i risvolti psicologici si uniscono alla semplice osservazione, alla città reale, all'accadimento quotidiano. Sedici ore di vita in cui tutto è vivo.

E tutto quanto è illuminato, lungo i diversi capitoli, da una mirabolante serie d'invenzioni stilistiche che servono a trasformare il punto di vista sul reale, per renderlo ancora più brillante, persino più veritiero. Un guardare dentro di sé con altri occhi, come ci spingono a fare alcune scuole di psicologia. "Ineluttabile modalità del visibile", scrive Joyce, che trascende tale ineluttabilità. Fantastico.

Se uno pensa ai capolavori della letteratura, pensa a Dante, a Omero, a Shakespeare; pensa alla Bibbia, e, nell'avvicinarsi a noi, incontra Tolstoj, e Dostoevskij, e Flaubert. Il Novecento ci sembra ancora troppo vicino, troppo moderno per essere 'classico'. Poi leggi Proust, che per cinquanta pagine fitte fitte ti racconta un ballo, oppure ti viviseziona vizi e tic di un omosessuale, guardandosi allo specchio; poi leggi Joyce, e pensi che sia rimasta una piccola chance anche per noi, che l'uomo non abbia ancora completato il proprio compito.

Ed eccoci al punto: Joyce a Dublino. Quante città coincidono con un loro autore, si rispecchiano l'una nell'altro al punto che cercare l'una e trovare l'altro è un gioco da ripetersi all'infinito? Forse la Lisbona di Pessoa, di certo la Praga di Kafka. Praga è Kafka, come Kafka è Praga, si pensi al Castello. Joyce è Dublino! Lo è nello spirito della gente, lo è nel pub dove prendi una birra, lo è nel ponte che attraversi, nel fiume cui affidi il tuo pensiero e dentro il quale vorresti lavare i panni sporchi. Lo è nelle nuvole che s'inseguono, nella pioggia che non ti lascia in pace, nei capelli rossi di una bambina – un rosso tizianesco, avrebbe detto Joyce –, nel colore verde di una nazione. Lo è nella cultura, che non sarà antica e sedimentata come da altre parti, ma ha fatto in tempo, nel corso di un secolo, a recuperare il possibile, affermarsi e maturare, fermentare come il luppolo per la birra, l'acino d'uva per il vino, e si espone fiera di sé, nelle librerie, nei pub con quella musica che ti travolge, t'impone di ballare, nelle strade dove, ovunque, trovi omaggi, trovi la presenza di Yeats, di Shaw, di Wilde, di Joyce. Di Joyce, soprattutto di Joyce. Guardi il fiume Liffey e vedi loro, rosse di capelli, due lavandaie che parlano di Anna Livia Plurabelle, lavano i panni nel fiume e parlano del fiume in cui lavano i panni, e riempiono il mondo di parole, riempiono il fiume di pettegolezzi, e ridono, si meravigliano, lavano, lavano tutto, la città, il mondo, le parole stesse, sul fiume, nel fiume, nell'acqua.

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Pagina 148

Giovani di tutto il mondo, unitevi! La voglia di essere giovani, in effetti, entra nella pelle appena ci si affaccia, la sera, nel Temple. In un attimo ci si scorda di essere al Nord, perché l'atmosfera di svago, la festa fatta di suoni coinvolgenti e di allegria, si manifesta per strada e in ogni dove. Ogni dieci metri c'è qualcuno che suona, da solo o in gruppo, e intorno si formano capannelli di persone, pronte a lasciarsi andare al ritmo, alla vita, alla passione. E non importa se gli artisti di strada facciano concorrenza a quelli che si esibiscono nei locali, sottraendo potenziali clienti, perché è tutto l'insieme a dare un significato a questa esplosione di gioia, mentre la birra può scorrere dentro e fuori, dentro e fuori dai pub, dentro e fuori dai corpi.

Era un luogo malfamato, è diventato una Disneyland tematica, colta e smaliziata. La ricerca del piacere si è trasformata, e l'offerta si adegua, dalla zona dei postriboli a quella dei ristoranti e delle birrerie. Entrando in uno dei pub più gettonati ci si sente schiacciati tra la gente, tra le parole, naturalmente tra le note. Lo spettacolo è a ciclo continuo, il violino, una chitarra, le voci calde, le melodie dall'eco antica, le ballate, rivedute e adattate ai giorni nostri. Chissà se qualcuna di quelle che ascoltiamo la cantava anche Joyce. Nessuno ti chiede il biglietto, nessuno si preoccupa se vuoi bere, tanto è scontato che, una volta varcata la soglia, si passi a fare il pieno. Nessuno tra i presenti, infatti, tra i fortunati con il posto a sedere, o tra i più ostinati che si accontentano di rimanere in piedi, ha le mani libere. Alla ricerca di nuovi ritmi, poi, la serata procede come per le tapas spagnole, di locale in locale, da musica a musica, da birra a birra. Per chi regge di più, per chi ha lo stomaco, e lo spirito, adeguato.

La musica ovunque, come momento sociale, centrale, riporta alla mente non solo le grandi band super impegnate, a partire dagli inarrivabili U2, ma anche libri significativi, best seller come The Commitments , poi diventato film. Roddy Doyle, il creatore di Paddy Clark e di Paula Spencer, di romanzi che hanno descritto con ironia la realtà irlandese contemporanea, scegliendo una volta il punto di vista di un adolescente, un'altra quello di una donna, la donna "che sbatte nelle porte", vi narra le peripezie di alcuni ragazzi appassionati, guarda un po', di musica, di soul, di rhythm and blues. I protagonisti della storia fondano un complesso e inseguono la ribalta, cercano di realizzare il proprio sogno, comune, passando dalla cantina, dalla strada, al mondo dorato del successo.

C'è la musica a fare da collante, s'è detto, e c'è la birra.

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Pagina 160

Entriamo nel teatro, alla ricerca di tracce, di odori, di sensazioni. La zona dove sorge l'Abbey non è bella, sebbene sia a pochi metri dal Liffey, e da O'Connell Street. Sembra l' Off Off Broadway, non si capisce perché lo spettacolo debba mischiarsi con un mondo trasandato, un po' squallido, ammuffito. Il teatro ha una hall importante, molto ben curata, porta con sé, in alcune immagini affisse alle pareti, la propria storia straordinaria, che nasconde però una – piccola? – pecca. Voluto da Yeats e Lady Gregory, dette lustro all'Irlanda, anche quella che non voleva intendere. Del repertorio s'è detto, di Synge, di O'Casey, dello stesso Yeats. Peccato che quest'ultimo rifiutò Esuli , il dramma, l'unica composizione teatrale, di Joyce. Yeats aveva sostenuto Joyce, l'aveva aiutato, lo teneva nella massima considerazione: ma quel dramma non l'aveva apprezzato per niente. E sbagliava, perché come ogni altra opera di quell'esule che parla di esuli, è di valore assoluto.

D'altra parte, lo stesso Joyce si prese una piccola rivincita. Quando aprì a Zurigo il proprio teatro in lingua inglese, in un'esperienza che per la verità non durò a lungo, l'opera scelta per l'esordio fu quella di un irlandese, ma non del proprio protettore. Fu una commedia – si può immaginare che il nostro puntasse a incassi sicuri – di un autore di ben diverso impegno: era L'importanza di essere Onesto, di Oscar Wilde.

Joyce aveva affermato in varie occasioni, stringendo un occhio ai propri compatrioti e inserendo sé stesso nel gruppo, che il miglior teatro inglese – in lingua inglese – era opera di irlandesi. E nel suo piccolo Abbey svizzero, cosa c'era di meglio se non rendere omaggio al genio e all'eclettismo di una perla preziosa come Wilde, finito esule, come lui, lontano da ogni cosa? Nemo propheta in patria, si dice: frase perfetta per Joyce, per Wilde, fratelli per sempre.

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Pagina 179

Nella scena finale di una recente opera di quel divoratore di libri, di quell'altro funambolo della letteratura che è Enrique Vila-Matas, un'opera dal titolo imperdibile per gli appassionati di Irlanda, Dublinesque , il protagonista prende parte a un funerale: "In qualche luogo, al margine di uno dei suoi pensieri, scopre un'oscurità che gli penetra nelle ossa. Quando si sta preparando ad andarsene, vede tutto a un tratto il giovane Beckett proprio dietro alle due afflitte sorelle. Incrociano gli sguardi e la sorpresa sembra cogliere entrambi. Il giovane ha lo stesso mackintosh dell'altra sera, sebbene più logoro. Il giovane ha l'aspetto da pensatore affaticato e l'aria inconfondibile di chi sta vivendo nell'ostruito, nel precario, nell'inerte, nell'incerto, nell'intirizzito, nel terribile, nell'inospitale, nell'inconsolabile".

...di chi sta vivendo nell'ostruito... Beckett è così, sempre stropicciato, sempre fuori posto, sempre al-di-là, metafisico, come il miglior Nietzsche. Perché parla dell'uomo, lo trova per terra, tra i rifiuti, carne ed escrementi, ma va subito oltre, più in là, oltre il vero. Come il proprio corpo. Come l'enigma che l'intelletto, che il genio, propone, ma sorretto da cosa, da quale chiave per farsi accettare, per farsi capire, per far sì che anche il coltello infilato nella piaga diventi plausibile?

Il secolo letterario si apre con Kafka e si chiude con Beckett, solcato nel mezzo dal riverrun di Joyce – sulla scia tracciata da questi tre si potrebbe aggiungere Nabokov. Θ la grande risata, tragicamente eclatante, che ci coglie prima impreparati, mostrandoci l'assurdo per renderci più digeribile l'ovvio, e poi ci contagia e ci penetra nelle ossa, ci fa toccare l'esistenza come è – Come è, Comment c'est, è la descrizione, da parte di Beckett, della "verità dello sfacelo" a cui l'uomo contemporaneo assiste e prende parte –, creando quest'asse ipotetico Praga-Dublino-Mondo, che è quasi un lungo filo teso sulle nostre teste, con sopra tanti panni sporchi in bella vista. Si tratta di un funerale, è vero, come quello descritto da Vila-Matas, come quello che attende il povero Gregor Samsa, tragicomico insetto kafkiano, un funerale cui prendiamo parte, nostro malgrado: ma già che ci siamo, vi prego, lasciateci ridere!

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Pagina 186

Ma poiché sempre d'Irlanda si tratta, e poiché Wilde ha qui le proprie radici, sebbene sia ormai diventato cittadino del mondo, va ricordata un'altra figura a lui particolarmente cara. La chiamavano Lady Speranza e così si firmava; fu battezzata Jane. Jane Francesca Elgee, poi Lady Jane, come una famosa canzone. Fu la sposa di Sir William Robert Wilde. E la mamma di Oscar, tradita dal marito a più riprese, vittima di scandali privati ma assurta al ruolo di protofemminista, e non solo. Lady Speranza fu autrice di un libro delicato, simile a quello di Yeats, e a quello di James Stephens, Fiabe e leggende d'Irlanda. Una raccolta sul folclore locale uscita nel 1887 con il titolo completo Ancient Legends, Mystic Charms and Superstition of Ireland, quando quel figlio intelligente e intraprendente aveva già cominciato a farsi strada nella vita, e quando la battaglia per l'indipendenza dall'Inghilterra, in cui lei giocò la propria parte con gli articoli scritti su The Nation, era soltanto all'inizio. Da lei, da quell'opera, prendiamo in prestito una frase: "Il mondo, in effetti, è come un libro, o piuttosto un romanzo a puntate, che va avanti da seimila anni; ma del quale i contadini irlandesi non hanno nemmeno girato la prima pagina".

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Pagina 202

Joyce era già un Dante in esilio quando scriveva Gente di Dublino, un quadro quanto mai fedele e disincantato della capitale e dei suoi abitanti. Lo era a maggior ragione quando mise insieme il primo capolavoro, Ritratto dell'artista da giovane, in cui rinnegava i luoghi d'origine e annunciava la fuga. E, dall'esilio, avrebbe scritto l' Ulisse, la parola conclusiva su tre millenni di scrittura e la pietra miliare per i prossimi tre, con l'odissea di Leopold Bloom, il viaggio a ritroso a Dublino e tante, tantissime altre cose. La vita di Joyce corse su una tale tensione drammatica che non si capisce da dove egli tirasse fuori la propria straordinaria ironia, se non appunto dal radicato spirito irlandese. Ma cosa dire di Stephens?

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Pagina 209

Insomma, Dublino, per chi ama la letteratura, è un luogo catalizzante, è la sede dell'ultima metafora, può trasformarsi in una vera mania per chi, da vicino o da lontano, decida di frequentarla, o soltanto di annusarla. Ne ha dato un'ulteriore prova Enrique Vila-Matas , creatore di storie labirintiche costruite intorno all'universo libresco, citazionista integerrimo, instancabile, inventore di personaggi veri – o magari concepiti da altri romanzieri –, perlustratore delle vite degli autori più cari, tutti un po' picchiatelli, tutti genio e sregolatezza. Con Dublinesque , Vila-Matas è finito proprio nella capitale irlandese e, guarda caso, il protagonista vi organizza una gita durante il Bloomsday, la giornata dell' Ulisse.

Dublinesque è, come ogni opera di questo coltissimo ed estroso scrittore, un viaggio nella possibilità. Θ una meta-riflessione, un gioco di specchi – di pagine specchiate, o, ancora meglio, di righe riflesse, rimbalzate da un libro all'altro. Il protagonista, Samuel Riba, è un editore spagnolo, ormai sconfitto nella propria missione di pubblicare lo scrittore sommo e sconosciuto, in modo da dare un senso ultimo al proprio raffinato catalogo in cui ha voluto includere almeno un'opera di tutti quegli autori da lui ritenuti indispensabili. Si reca quindi a Dublino per officiare il funerale del libro, la fine dell'era Gutenberg, ormai sconfitta dall'avvento del digitale. E così ci fa calare tra i fantasmi, e non quelli tanto cari a Yeats, cioè quelli che appartengono per diritto acquisito alla vita, ma piuttosto quelli che della vita fanno parte soltanto attraverso i libri, i fantasmi dell'arte, più effimeri dell'effimero.

Camminando con lui, con Vila-Matas, con Samuel Riba, guidati da loro, incontriamo Beckett, incontriamo diverse versioni di Joyce, compresa quella uscita dalla penna di Flann O'Brien – in L'archivio di Dalkey –, in cui l'autore dell' Ulisse fa il barista e rinnega di aver scritto l'opera somma, che giudica anzi, come fecero a quel tempo molti timorati di Dio, "una porcheria, una sequela di sconcezze".

[...]

Vila-Matas, attraverso Riba, ci dice cose illuminanti riguardo a Joyce, così come ha fatto Joseph O'Connor che arriva peraltro a prendersela con quel turismo locale – di massa – incentrato sulle opere di uno scrittore che pochi, pochissimi, hanno letto. Scrive Vila-Matas: "Riba sa che il mondo funziona mediante futilità. Dopotutto, la maggior scoperta di Joyce nell' Ulysses fu aver capito che la vita è fatta di cose triviali. Il trucco glorioso che Joyce mise in pratica fu di prendere le cose assolutamente quotidiane per dar loro una base eroica, di portata omerica".

Torniamo allora a un tema sul quale lo stesso Vila-Matas in altre pagine si sofferma: l' Ulysses può essere definito, nell'ottica italocalviniana – v. Lezioni americane –, un romanzo fondato sulla leggerezza? Se ci rifacciamo alla guida alla lettura che lo stesso scrittore provò a compilare per i posteri, è ovvio sostenere addirittura il contrario. Un romanzo che, al contempo, può essere una rilettura in chiave moderna dell' Odissea, una perlustrazione del corpo umano attraverso i suoi organi, una guida di Dublino, un'indagine sulle possibilità della grammatica tipo gli Esercizi di stile di Raymond Queneau – appassionato di Joyce e dell'Irlanda, guarda caso, creatore di viaggi e cosmogonie fantastiche –, insomma, se tutto questo è vero, bisogna credere di essere capitati in tanta di quella pesantezza da mettere in fuga ogni tipo di lettore. Eppure, a dispetto dei processi di addizione, di accumulazione voluti da Joyce, Leopold Bloom è così precario, così sfuggente... Dedalus è più problematico, anche se la sua problematicità è di tipo intellettuale – si pensi alla già citata teoria su Amleto –; ma anch'egli, seppur sorretto da una base filosofica, è un inespresso, sempre alla ricerca di qualcosa, di sicurezza, del padre, appunto... E cosa dire, infine, di Molly/Nora/Penelope? Esiste donna, nella letteratura, più mobile, più leggera, più volatile, qual piuma al vento?

L'idea del celeberrimo monologo finale, senza punteggiatura – peraltro un'idea ripresa da Joyce direttamente dalla moglie che gli scriveva le proprie appassionate lettere senza inserirvi un punto né una virgola –, non risponde alla stessa logica di sottrazione, cara a Beckett, che caratterizza altri romanzi più ariosi, ma non per questo mancanti di profondità, cioè più godibili, più diretti, più accessibili?

Basterebbe, per tutte quelle decine di pagine, il finale, stracolmo di piacere, di accettazione, di pacificazione: esiste forse un finale più glorioso, più incisivo, più armonioso, più bello – sì, bello! – nella storia della letteratura, forse persino superiore all'ultimo verso della Divina Commedia, o a quello del Faust?

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Pagina 215

In pochi anni, dopo essere stata definita "la tigre celtica", per i passi da gigante compiuti dalla locale economia, l'Irlanda ha subito un impressionante tracollo. Il frutto della crisi lo si poteva cogliere girando per Dublino, tra i tanti negozi chiusi e i numerosi clochard, anche in zone centrali. Oggi sembra aver saputo leccarsi le ferite e ripartire, con un ritrovato slancio. Ma il dolore per quei negozi chiusi, per quei clochard, che rimandano ad altre epoche, resta.

Quando Sylvia Beach, titolare della Shakespeare & Co. di Parigi, decise di pubblicare l' Ulisse, sfidando censura e vari tabù, chiese una sottoscrizione a tanti amici, clienti, amanti della letteratura d'avanguardia. Aderirono in molti, progressisti e conservatori. Tra di loro T.E. Lawrence, ma anche Sir Winston Churchill. Declinò invece l'invito George Bernard Shaw, rispondendo in una lettera: "In Irlanda cercano di insegnare a un gatto a essere pulito strofinandogli il muso dove ha sporcato. Il signor Joyce ha tentato lo stesso trattamento con gli umani".

In fondo era la verità, almeno in buona parte – quando l' Ulisse venne pubblicato, Yeats iniziò a leggerlo ma faticò e non riuscì a superare le prime trenta pagine, pure annotò che nel libro è contenuta "la nostra crudeltà irlandese". Il fatto singolare è che un progressista come Shaw ritenesse giusto lavare i panni sporchi in famiglia, senza lasciare all'arte l'agio di esprimersi – era già successo con Synge, come s'è detto. E in questo, come la storia ci dimostra, si sbagliava. Non sono trascorsi nemmeno cento anni, ma oggi la Dublino della quale Joyce aveva rappresentato, seguendo Shaw, la "furfanteria ebete", celebra in ogni dove il figlio prediletto, un po' sporco, un po' cialtrone, pieno di vizi e non sempre presentabile, ma terribilmente umano, terribilmente acuto, terribilmente moderno. E cosa avrebbe allora raccontato, Joyce, di quei barboni, di quei negozi chiusi, di qualche colletto bianco arricchitosi a spese della comunità? Umanità varia, bella e brutta, gente che si può incontrare qui, a Dublino, capitale del mondo.

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