Autore Roberto Cattani
Titolo Biblioteche in fiamme
EdizioneEinaudi, Torino, 2021, PBE 752 Maverick , pag. 234, ill., cop.fle., dim. 13,5x20,8x2 cm , Isbn 978-88-06-24839-0
LettoreGiangiacomo Pisa, 2022
Classe libri , storia sociale












 

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Indice


 XI Ringraziamenti


    Biblioteche in fiamme


  3 La biblioteca dei primordi (miei)

 10 I tell, o le biblioteche d'argilla

 19 Alessandria, o le reincarnazioni della biblioteca

 30 Santa Caterina, o la biblioteca nel deserto

 42 Al-Sūlī, o la biblioteca a colori

 49 Fozio, o la biblioteca nella memoria

 57 I Medici, o la biblioteca a grandezza d'uomo

 66 Browne, o la biblioteca millantata

 73 Geniza, o i rifiuti come biblioteca

 80 La Cina, o le biblioteche dei primati

 90 Kruk, o le biblioteche della Shoah

 97 Fez, o la biblioteca delle donne

103 Apollinaire, o l'inferno delle biblioteche

113 Colón, e la biblioteca dei libri perduti

130 Sarajevo, o la biblioteca come simbolo di un popolo

142 Warburg, o la biblioteca circolare

147 Timbuctú, o la biblioteca a puntate

155 Eco, o la biblioteca dei libri non letti

163 Big Sur, o le biblioteche degli scrittori

172 Dietro le spalle, o le. biblioteche politiche

177 Paiaiá, o la biblioteca degli analfabeti

185 www., o biblioteche pirata e biblioteche aperte

192 Framtidsbiblioteket, o la biblioteca del 2114

199 I bibliotecari, o Cerbero in biblioteca

206 Ephemera et marginalia


225 Fonti


 

 

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Pagina 3

La biblioteca dei primordi (miei)


                        Una biblioteca è un luogo dove si impara ciò che gli
                        insegnanti hanno paura di insegnare.
                                                          ALAN M. DERSHOWITZ

                        Ho appreso meno da una scuola che da una biblioteca:
                        quella di mio padre.
                                                           JORGE LUIS EORGES

                        Il destino di molti uomini dipese dall'esserci o non
                        esserci stata una biblioteca nella loro casa paterna.
                                                           EDMONDO DE AMICIS

                        La mia biblioteca è un archivio di desideri e
                        aspirazioni.
                         SUSAN SONTAG, As Consciousness is Hamessed to Flesh.



Il mio rapporto personale, direi addirittura passionale, di una vita intera con le biblioteche - o meglio, con qualsiasi scaffale zeppo di libri (bibliotekai, in greco) - è cominciato con la biblioteca di mio padre. Mio padre era una persona molto informata, se non colta, e un lettore vorace e aggiornato, pur avendo necessariamente (per lavoro) interessi prioritari abbastanza specialistici come politica, economia e rapporti internazionali. Tuttavia, la sua vera passione - e non ne ho mai saputo la ragione - erano i romanzi di guerra navale, come la serie di Patrick O'Brien , di oltre venti romanzi, sulle avventure del comandante Jack Aubrey alla guida di un veliero della Royal Navy ai tempi delle guerre napoleoniche, o la serie di C. S. Forester, della stessa epoca, sulle avventure di Horatio Hornblower. O ancora le peripezie picaresche (non sul mare, queste, ma sempre dello stesso periodo) di Jack Flashman, indegno ufficiale dell'esercito imperiale britannico, ritratto dal suo autore, George McDonald Fraser, come vigliacco, donnaiolo, libertino, scaltro e imbroglione. Li lessi tutti, da adolescente. Non furono letture sprecate: era la storia raccontata in modo abbastanza differente da quella che mi insegnavano a scuola. Ricordo ancora che feci delle scoperte di per sé un tantino incongruenti: ad esempio la netta superiorità delle navi inglesi durante gli anni dei grandi velieri era dovuta al fatto che furono le prime ad avere la chiglia coperta di lastre di rame, per impedire la crescita di patelle e teredini sulle carene di legno e il conseguente rallentamento della nave; oppure, per costruire l'ammiraglia a tre ponti di Lord Nelson, la Victory, furono necessarie oltre mille querce secolari.

Erano gli anni dei grandi movimenti libertari e delle sommosse studentesche. Io ero ancora troppo ragazzino per sognare di barricate, di slogan come «Siamo realisti, chiediamo l'impossibile», di Lotta Continua e di Pantere Nere, e sognavo invece di frugare in biblioteche misteriose, occulte, sconosciute, dove indagare segreti impolverati e scoprire rivelazioni inaudite, come nel cimitero dei libri dimenticati di Ruiz Zafón. Un'altra forma di rivolta insomma, tutta introversa, distante dall'attivismo dei coetanei e ancor piú dagli adulti, troppo concentrati a far soldi o a garantirsi la pensione.

Dovevo accontentarmi della biblioteca paterna, e iniziai a perlustrare titoli e autori che non mi dicevano niente: da Alberoni a Aron , da Hobsbawm a Bobbio , da Ronchey a Laqueur.

[...]

Per chiudere questa rassegna celebrativa delle biblioteche personali (e delle deliziose scoperte alle quali ci portano), mi sembra interessante citare la possibile commistione di funzioni tra biblioteche e certe librerie «accoglienti». Un fenomeno diffuso specialmente tra i giovani, che non si possono permettere di comprare tutti i libri che vorrebbero e che d'altra parte non hanno confidenza con le biblioteche (spesso intimidatorie) - o non hanno le idee sufficientemente chiare per cercarvi qualcosa di specifico. Le grandi librerie (sempre più rare) dove sedersi a leggere indisturbati, com'erano ad esempio le Fnac francesi, rappresentano una specie di popolarizzazione delle biblioteche, ne sono un gradevole succedaneo. Offrono la possibilità di scegliere direttamente i libri sugli scaffali, e magari di scoprirne altri inaspettatamente, e se davvero il libro che abbiamo pescato ci piace, dopo averlo sfogliato e girato e rigirato tra le mani, cosa questa invece impossibile nell'acquisto via internet, possiamo andare in cassa e portarcelo a casa, con l'entusiasmo del neofita.

Quella che posso definire la mia biblioteca è modesta, appena poco piú di un migliaio di libri, una sorta di distillato delle mie passioni tardive e ossessioni di una vita intera. Pur avendo cominciato presto a leggere libri, ho cominciato un po' tardi ad accumularne (piú che altro in ragione di una vita errabonda, e dedicata ben piú all'azione che alla contemplazione), cosí come ho cominciato molto tardi a scriverli - anche grazie all'esempio di Gesualdo Bufalino , autore a sua volta molto tardivo -, dopo vari decenni dedicati al giornalismo.

Ad ogni modo, qualsiasi biblioteca personale è a mio avviso una stratificazione infinita di più biblioteche, perché i libri nel corso del tempo non smettono mai di parlarci in modo diverso interagendo con le fasi della nostra vita. Potremmo addirittura tornare sempre alle stesse letture perché non ci parranno mai le stesse. Pur conoscendo l'epilogo del dramma di Giobbe, ogni invettiva, ogni monologo ci sembrerà diverso, e ogni versetto assumerà un altro significato, a seconda dei momenti della nostra vita e della nostra evoluzione interiore. E lo stesso vale per i libri più significativi in cui ci siamo imbattuti. Possiamo leggere e rileggere l' Odissea e il Don Chisciotte, il Grande Sertão e i Karamazov, Moby Dick e il Tao Te Ching (oggi Daode Jing) a ogni nuova tappa del nostro percorso, e avere ogni volta la sensazione di leggere un altro libro, di scoprire cose nuove. Al polo opposto ci sono invece i libri non letti - ma scelti con cura -, quelli che aspettano pazientemente negli scaffali che venga il loro turno. Esiste il momento giusto per ogni libro e per la sua prima volta. E che dire infine di tutti i libri un tempo amati e poi messi da parte, scavalcati da altri che si sono imposti più imperiosamente? Dopo anni di oblio, basta una scintilla perché vengano riscoperti e riletti con rinnovata sorpresa, con la passione trascinante di una volta. Sono queste continue scoperte, ogni volta impreviste e insospettate, a rendere la nostra biblioteca «infinita».

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Pagina 48

Nel suo Pensare/classificare , una raccolta postuma di saggi sul tema della memoria, Georges Perec elencava una dozzina di criteri di classificazione della propria biblioteca che vale la pena citare, «anche se nessuno sia soddisfacente in sé e per sé». In queste classificazioni, Perec vedeva una forma di controllo dell' ipermnesia (come la chiamava lui), l'esaltazione eccessiva della memoria, che costituisce una caratteristica fondamentale della sua opera. Ecco l'elenco dei suoi criteri:

- alfabetico

- per continente, o per paese

- per data d'acquisto

- per data di pubblicazione

- per formato

- per genere

- per periodo letterario

- per lingua e idioma

- per priorità di lettura

- per tipo di rilegatura o di copertina

- per associazione, o per affinità.

L'ultimo criterio è quello adottato nella Biblioteca Warburg, di cui ci occuperemo piú avanti.


Un'ultima associazione biblioteca-colori. Nella Bishan Public Library di Singapore, i lettori hanno la possibilità di scegliere in quale colore immergersi durante la lettura: la biblioteca, costruita nel 2005 con un design d'avanguardia, ha delle «cabine» vetrate di colori diversi che sporgono nel vuoto e nelle quali i lettori possono isolarsi. Chissà che il colore non determini l'esperienza della lettura.

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Fozio, o la biblioteca nella memoria


                        Scrivere un libro, cosí come erigere una biblioteca, è
                        un atto di pura sfida. È dichiarare apertamente che si
                        crede nella persistenza della memoria.
                                                SUSAN ORLEAN, The Library Book.

                        La biblioteca piú bella è quella che abbiamo tutta
                        ordinata in testa.
                              STANISLAW LESZCZYNSKI (1677-1766), re di Polonia.

                        Lui aveva, per cosí dire, in testa una seconda
                        biblioteca, altrettanto vasta e attendibile di quella
                        reale, della quale, a quanto sentiva dire, tutti
                        facevano grandi elogi. Seduto al suo scrittorio,
                        redigeva interi saggi addentrandosi nei piú minuti
                        particolari, senza mai consultare altra biblioteca se
                        non, appunto, quella che aveva in testa.
                                                     ELIAS CANETTI, Auto da fé.



Fozio (810-893) fu patriarca ecumenico di Costantinopoli dall'858 all'867 e dall'877 all'886. La Chiesa greco-ortodossa lo ha santificato col nome di san Fozio il Grande, e lo considera «equivalente agli Apostoli». Fu l'autorità piú influente della Chiesa di Costantinopoli dopo san Giovanni Crisostomo, il teologo piú prolifico del suo tempo, incaricato di compilare la Legge canonica della Chiesa greco-ortodossa, il tutore e precettore dei figli dell'imperatore Basilio I. Fu anche l'intellettuale piú importante dell'epoca, con un'immensa conoscenza dei classici greci e romani, a tal punto che gli si attribuisce l'introduzione dell'umanesimo nell'ortodossia bizantina.

Non stupisce quindi che la sua biblioteca fosse considerata la piú ricca e fornita di Costantinopoli in tutti i campi fondamentali del sapere: teologia, storia, grammatica, filosofia, giurisprudenza, scienze naturali e medicina. Il che rende ancora piú straordinario il fatto che Fozio sia riuscito a ricostruirla a memoria per comporre la sua opera piú famosa, chiamata appunto Biblioteca (Myrióbiblos).

In una lettera con dedica al fratello Tarasio all'inizio dell'opera, Fozio gli comunica di essere uno dei membri prescelti di una missione diplomatica bizantina a Baghdad allo scopo di firmare un importante trattato con il califfato islamico. Visto che il viaggio e la missione avrebbero potuto protrarsi per mesi e mesi, e presentavano non pochi rischi e pericoli, Tarasio, nel timore di perdere il dotto fratello, lo supplicò di lasciargli un compendio scritto di tutti i libri e manoscritti che ritenesse imprescindibili o importanti, una guida dettagliata della sua biblioteca, troppo vasta per chiunque non ne fosse il creatore e proprietario.

Alle prese con i preparativi per la partenza e le ordinarie mansioni (le messe solenni nella basilica di Santa Sofia, il magistero ai discepoli e le lezioni ai figli dell'imperatore), Fozio si dedicò di notte alla compilazione per il fratello, senza consultare la biblioteca, scrivendo in fretta, «a memoria», come lui stesso ripete due volte nella Lettera a Tarasio, per giustificare eventuali incongruenze. Non riuscí a terminare prima della partenza, e il Myrióbiblos è quindi un'opera incompiuta che Fozio tratta come un mero promemoria per il fratello, da consultare quando ve ne fosse stato bisogno e non da leggere o da studiare: nonostante ciò, è un manoscritto di piú di mille pagine, con voci (che Fozio chiama «codici») dedicate a 279 libri, manoscritti o autori.

La maggior parte degli studiosi e dei commentatori posteriori si è rifiutata di credere che un sommario di piú di mille pagine possa essere stato redatto a memoria, per quanto prodigiosa questa potesse essere. Tuttavia, negli studi filologici piú recenti, molti elementi hanno finito per confermare le parole di Fozio. In lettere a parenti e amici, il patriarca cita a memoria interi brani dell'enciclopedia medica di Ezio di Armida (in dodici volumi, peraltro in buona parte trascritti o addirittura copiati pari pari da Galeno) e dell'erbario in cinque volumi di Pedanio Dioscoride, il catalogo di piante medicinali e farmaci botanici piú usato nell'Antichità.

[...]

Un esempio significativo: dopo aver citato lo storico Olimpiodoro, Fozio afferma di conoscere vari autori che cercarono di ricostruire il percorso geografico reale di Ulisse nelle sue peripezie, e specialmente di stabilire il luogo fisico dove l'eroe di Itaca si sarebbe addentrato negli Inferi, come Orfeo. Nessuna di queste opere è sopravvissuta alle odissee della storia, e i loro autori, insieme alle loro deduzioni, ci rimarranno sconosciuti.

Altra menzione singolare: la cosiddetta Topografia cristiana attribuita a Cosma Indicopleuste, di cui Fozio è l'unico a fornire il minimo indizio. Cosma sarebbe stato un mercante dell'epoca dell'imperatore Giustino (518-27), che affermava di aver raggiunto l'India e lo Sri Lanka attraverso il Mar Rosso, con descrizioni sorprendenti (e piuttosto fantasiose) e in anticipo di molti secoli sulle narrazioni di Ibn Battūta e di Marco Polo. Cosma usava le conoscenze acquisite nelle sue peregrinazioni commerciali, afferma Fozio nel Myrióbiblos, per confutare tanto la teoria tolemaica del geocentrismo quanto quella eliocentrica di Aristarco di Samo , sostenendo che la Bibbia è l'unica fonte di vero sapere. Fozio commenta ironico: «È un autore piú interessato agli elementi favolosi che alla verità dei fatti: per lui, il Cielo non è sferico, ma assomiglia a una sala con una cupola; e la Terra neppure è sferica, ma rettangolare. [...] Gli angeli non stanno in cielo, ma sotto il firmamento, in mezzo a noi».

[...]

Il manoscritto della Biblioteca di Fozio giunse nell'Italia del Rinascimento nel 1435, e fini nella biblioteca personale del cardinale Bessarione, uno dei personaggi più influenti della cultura dell'epoca. Dopo la morte del cardinale, il libro del patriarca bizantino, cosí come molti altri volumi preziosi, passò in eredità alla Repubblica di Venezia, senza comunque suscitare l'interesse dei dotti. Il testo di Fozio fu pubblicato nel 1601, sette secoli dopo essere stato scritto. Il fatto che un'opera di tale importanza non abbia suscitato nessuna attenzione prima, specialmente tra gli studiosi del Rinascimento per i quali gli autori classici e antichi erano imprescindibili, «rappresenta uno degli enigmi della storia letteraria», scrive Nigel Wilson nella sua biografia del patriarca Fozio. Biblioteca.

[...]

Per concludere questo capitolo su biblioteche e memoria, ricordiamo che Socrate disprezzava i libri, perché era convinto che rappresentassero una minaccia alla memoria. Per la cultura greca antica, così come per la cultura araba e per molte altre culture del passato, la trasmissione orale era l'unica valida e legittima. La biblioteca era nella memoria.

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Apollinaire, o l'inferno delle biblioteche


                        La biblioteca di un uomo è una specie di harem.
                                                        RALPH WALDO EMERSON

                        «Una biblioteca, - dice Ralph Waldo Emerson, - è un
                        harem». E se fosse una polveriera?
                                                          GESUALDO BUFALINO



Nel 1913, il grande poeta (e pornografo) Guillaume Apollinaire si propose alla Bibliothèque nationale de France per elaborare e organizzare un catalogo dell' Enfer. E, già che c'era, sistematizzare l'immensa quantità di materiale erotico, pornografico e genericamente proibito ammucchiato alla rinfusa, senza nessun criterio, al secondo piano di quella che era allora la seconda biblioteca al mondo. Nella definizione ufficiale dell'epoca, «l'Inferno era uno spazio di accesso ristretto, dov'erano rinchiusi i libri considerati pericolosi, e le opere ritenute contrarie alla decenza, quelle pubblicate clandestinamente, senza l'autorizzazione del governo, perseguitate, condannate o incluse nel codice proibitorio». Pascal Pia , che aggiornò il Catalogo di Apollinaire nel 1978, scrive: «Con l'Inferno, ci addentriamo nella letteratura come non si insegna a scuola, e come non è esposta nelle librerie: dall' Aretino fino ai romanzi libertini del XVIII secolo, ci avventuriamo in un mondo immaginario nel quale i personaggi obbediscono a tutte le fantasie del desiderio; con Sade , abbiamo accesso alla voluttà che si fonde e confonde con il delitto, e all'eccesso della parola panflettistica che si eleva a discorso politico, proprio quando diventa pornografico. L' Inferno della Bibliothèque ci fa penetrare nel mondo dell'anonimato, dello pseudonimo, degli indirizzi falsi, delle date illusorie. Percorrere l' Inferno è immergersi nell'atmosfera degli illeciti, dei conventi, dei boudoirs, dei bordelli, degli harem, delle prigioni, ma anche delle biblioteche». Lo stesso Pia pubblicò poemi erotici sotto pseudonimo (il suo vero nome era Pierre Durand), e altri che attribuiva a Baudelaire (Cortège Priapique) e Apollinaire (Le Verger des Amours).

Il termine Enfer venne adottato solo dalla metà del XVIII secolo, con la pubblicazione del libro Thérèse philosophe (Thérèse philosophe, ou mémoires pour servir à l'histoire du Père Dirrag et de Mademoiselle Éradice, 1748), primo best-seller pornografico della letteratura moderna. In precedenza, in quella che fino ad allora si chiamava Bibliothèque du Roy (Biblioteca Reale), i libri licenziosi erano rinchiusi in cabinets, ovvero armadi a vetro o salette private riservate ai lettori d'eccezione. L'accesso alla Biblioteca Reale era comunque tutt'altro che pubblico, ma riservato ai dotti o alla nobiltà. Con il successo di Thérèse philosophe, la domanda di libri libertini (in particolare quelli raccomandati dalla giovane «filosofa») divenne travolgente e richiese la creazione di una sezione speciale ben distinta e separata dal patrimonio librario ufficiale, che venne chiamata ironicamente Portail de l'enfer, o semplicemente Enfer. La domanda si fece ancor piú pressante quando a far parte della «sezione speciale» entrarono le «Obscénités», e cioè le stampe - e poi le fotografie - a tema osceno. Piú tardi, le stampe erotiche e pornografiche giapponesi di autori come Kitagawa Utamaro e Katsukawa Shunshō conquistarono una popolarità enorme, contemporanea alla mania delle japonaiseries dell'arte occidentale.

[...]

L'astro dell'Inferno del XVIII secolo è il franco-napoletano Andréa de Nerciat, autore molto popolare e prolifico di romanzi libertini tra i quali Félicia ou Mes Fredaines (Felicia o le mie scappatelle, 1775); Le Doctorat impromptu (Il dottore estemporaneo, 1788); Mon Noviciat, ou Les Joies de Lolotte (Il mio noviziato, o le gioie di Lolotte, 1792); Les Aphrodites (1793); e il più famoso, Il diavolo in corpo (1803), pubblicato postumo. Nerciat era lui stesso un seduttore compulsivo e un vivace avventuriero degno dei personaggi di Alexandre Dumas: aristocratico schierato a favore della Rivoluzione francese; spia per vari governi impegnata nel doppio o triplo gioco; autore di commedie di costume e di romanzi storici, ma sotto falsi nomi o, per meglio dire, come li definiva lui, criptonimi. Mentre gli altri autori libertini usavano pseudonimi o eteronomi per firmare le opere proibite, Nerciat li usava per le sue opere letterarie. Apollinaire, nell'appassionata biografia che gli dedicò, Œuvre du chevalier Andréa de Nerciat, sottolinea l'impressionante parallelismo con Giacomo Casanova , che di Nerciat fu contemporaneo.

Nel 1748 (curiosamente, lo stesso anno della pubblicazione di Thérèse philosophe) esce in Inghilterra Fanny Hill, di John Cleland, le memorie di una woman of pleasure, considerata «la prima opera originale di pornografia in lingua inglese, e la prima pornografia in forma di romanzo». Fanny Hill divenne uno dei libri piú perseguitati e banditi della cultura occidentale. Il titolo stesso, e il nome della protagonista, sono un licenzioso gioco di parole: Fanny Hill è la traduzione in inglese volgare di Mons Veneris.

Con il XIX secolo, la tendenza alla tolleranza declinò e la censura divenne rigorosa un po' ovunque. Persino nella libertaria Francia, dopo aver pubblicato I fiori del male di Charles Baudelaire , l'editore Auguste Poulet-Malassis dovette fuggire in esilio in Belgio per non essere arrestato. La sessualità allegra e vitale del secolo precedente viene sostituita dalla perversione e dalla crudeltà, come dimostrano le opere del marchese de Sade e di Sacher-Masoch, e successivamente quella di Pauline Réage (Histoire d'O), che costò vari processi all'editore Jean-Jacques Pauvert. Nel 1920, l'editore Jean Fort creò la «Collection des Orties Blanches» (Collezione delle ortiche bianche, forse richiamando l'effetto pruriginoso), tutta dedicata al sadomasochismo, con titoli quali Schiava amorosa, Case di flagellazione, Care umiliazioni e FIfi, la sartina che si impose come maggior best-seller della casa editrice fino al 1939, anno in cui cessarono le pubblicazioni a causa della Seconda guerra mondiale - che eclissò ovviamente le letture sadomaso. In compenso, oggi i diciannove anni di pubblicazione delle «Orties Blanches» sono il sogno proibito di molti bibliomani e collezionisti.

[...]

Nel XX secolo, i grandi scrittori firmano senza più remore le opere erotiche o scandalose, a cominciare appunto da Apollinaire. È il caso della semipornografia femminile di Anais Nin , con Il delta di Venere, Fuoco. Diario inedito senza censura, La casa dell'incesto; di Georges Bataille , con Storia dell'occhio; Louis Aragon, con Il sesso d'Irene ; Henry Miller, con Opus Pistorum , Nexus e La crocifissione in rosa; e Jean Genet, con Querelle de Brest. Divenne sempre piú difficile per i curatori stabilire cosa dovesse essere ammesso al patrimonio di libero accesso al pubblico, e cosa invece dovesse essere spedito all'Inferno.

[...]

Tra le collezioni note, la maggior quantità di materiale raccolto senza alcun criterio, se non quello di avere a che fare con sesso e sessualità, si trova nel Kinsey Institute for Sex Research di Bloomington, una piccola città universitaria nell'Indiana incastonata in uno splendido parco di betulle. Oltre a una ricchissima collezione di opere d'arte sul tema, l'istituto vanta la piú grande raccolta al mondo di testi orientali antichi, sia opere letterario-erotiche sia manuali sulla sessualità. In particolare, tra le preziose rarità, il Han wu-ti nei chuan (Biografia segreta dell'imperatore Wu della dinastia Han), attribuito al grande sapiente Pan Ku (32-92), ma in realtà opera apocrifa del V o VI secolo. Si tratta della narrazione poetica, ma non per questo meno esplicita, della visita di una dea taoista all'imperatore Wu. La «Regina Fata del Paradiso dell'Ovest» sarebbe apparsa all'imperatore esattamente nell'anno 110 a.C., per insegnargli i segreti della longevità (la conquista piú ambita dai cinesi di tutte le epoche) per mezzo dell'«arte dell'alcova». Tra i tanti segreti rivelati dalla fata-dea, vale la pena di menzionare I cinque desideri della donna, I nove spiriti della donna, I quattro stati del Palo di Giada (il membro maschile), e le Trenta variazioni sulle posizioni fondamentali, come ad esempio Le anatre volano a testa in giú, I bambú attorno all'altare, La danza delle due fenici gemelle e Il gatto e il topo nello stesso buco.

Altro tesoro bibliografico del Kinsey è il manoscritto del primo romanzo di Ihara Saikaku , La vita di un uomo amoroso, del 1682. Saikaku, grande poeta di haikai, iniziò a scrivere romanzi erotici a quarant'anni, dopo la morte dell'amata sposa, e fondò lo stile Ukiyozōshi (scritti del mondo fluttuante), un genere di enorme successo della letteratura giapponese, inserito nell'ambiente delle cortigiane, delle case di piacere e dei quartieri malfamati (il «mondo fluttuante», appunto).

Il primo romanzo sull'omosessualità, nella cultura occidentale, L'Alcibiade fanciullo a scola, pubblicato a Venezia nel 1652, si trova nell'Inferno di Cambridge, chiamato «The Arc». Attribuito ad Antonio Rocco , padre cattolico libertino, venne definito «una celebrazione appassionata della sodomia e una fantasia pedofila delirante». Curioso il fatto che il primo romanzo omosessuale nella cultura cinese sia esattamente della stessa epoca, Il sogno della camera rossa - una riscoperta tardiva, considerando che nell'Antichità versi e poemi di contenuto omosessuale erano la normalità in Grecia e in Cina.

Secondo voci non verificabili, la piú grande raccolta di materiale libertino del mondo si troverebbe nella Biblioteca Vaticana, in un'ala chiamata anch'essa - come potrebbe essere altrimenti - «Inferno». Ma si tratta probabilmente di un ulteriore mito in absentia.

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Colón, e la biblioteca dei libri perduti int 3
                        [Oltre ad Alessandria], io rimpiango sinceramente altre
                        biblioteche piú preziose, che furono coinvolte nella
                        rovina dell'impero romano; ma quando mi metto seriamente
                        a calcolare il decorso dei secoli, i guasti
                        dell'ignoranza e le calamità della guerra, ho piú
                        meraviglia dei tesori rimasti, che delle perdite subite.

              EDWARD GIBBON, Storia della decadenza e caduta dell'impero romano.



Per trent'anni Hernán Colón (o Fernando Colombo), secondo figlio di Cristoforo Colombo, viaggiò in lungo e in largo attraverso il mondo «conosciuto» per tentare un'impresa meno avventurosa ma altrettanto strabiliante di quella di suo padre: creare una biblioteca universale, che contenesse «tutti i libri, in tutte le lingue e su tutti i temi e argomenti, che si trovassero dentro alla cristianità e fuori d'essa» - in altre parole, la piú grande biblioteca mai vista al mondo. Il bibliografo, cosmografo e cortigiano spagnolo poteva disporre per il suo sogno delle enormi risorse provenienti dai dominii personali di Colombo a Hispaniola (oggi Haiti), nel nuovo continente.

Tra il 1509 e il 1539, il figlio del navigatore genovese affrontò come suo padre numerosi viaggi alla strenua ricerca di libri da comprare. Come racconta lui stesso, in un solo anno, il 1530, incontrò mercanti e antiquari, bibliotecari e collezionisti a Roma, Bologna, Modena, Parma, Torino, Milano, Venezia (all'epoca del grande splendore di Aldo Manuzio e della sua tipografia Aldina, alla quale Colón commissionò piú di cento libri), Padova, Innsbruck, Augusta, Costanza, Basilea, Friburgo, Colonia, Maastricht, Anversa, Parigi, Poitiers e Burgos. A Norimberga, nel 1522, comprò in un unico viaggio piú di mille volumi. Finí per mettere insieme tra i 15 e i 20 000 libri. «La sua biblioteca privata era la piú grande di quel tempo, in un'epoca in cui le grandi collezioni arrivavano sí e no a 2000 libri, e la Biblioteca Vaticana possedeva 3500 manoscritti e 6000 libri stampati, - scrive lo storico di Cambridge Edward Wilson-Lee, autore di un catalogo dei libri naufragati. - In un'epoca nella quale bibliofili e bibliotecari davano valore solo ai manoscritti antichi, Colón comprava incunaboli e libri stampati, perché era il contenuto e la varietà che l'interessavano, senza escludere nulla nell'ordine della conoscenza». A titolo d'esempio, tra gli acquisti di Colón Wilson-Lee cita l' Itinerario in Terra Santa di Gabriele Capodilista (1475), una vera e propria guida turistica ante litteram per i pellegrini, e un opuscolo illustrato francese per i preti cattolici, per «aiutarli a riconoscere streghe e fattucchiere».

Si trattava di una concezione estremamente moderna della biblioteca, molto in anticipo sui tempi. Colón aveva ereditato dal padre la convinzione che la Spagna, a capo di un impero globale, avrebbe finito per dominare il mondo, e intendeva trasformare la sua Biblioteca Hernandina nella «mente» dell'impero castigliano, dove preservare «tutta la conoscenza e tutte le informazioni intorno al mondo intero». Era un'idea tipicamente rinascimentale, antesignana dell'Enciclopedia illuminista, e altrettanto megalomane quanto le immense enciclopedie cinesi, alcune delle quali esattamente della stessa epoca.

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Pensando alla marea di libri che andò perduta nel corso della storia, tra distruzioni, autodafé, noncuranza e oblio, si potrebbe fantasticare di una biblioteca pressoché infinita, in stile borgesiano, composta da libri che sappiamo essere esistiti ma che non sono giunti sino a noi. E non mi riferisco a opere minori o autori poco noti. Parlo di Omero, Confucio, Euripide, Cesare, Leonardo da Vinci, Shakespeare, Gogol', Melville, Hemingway e molti altri ancora.

Limitandoci alla Grecia antica, potremmo stilare una statistica semplice quanto obiettiva: in ambito teatrale, sono giunte fino a noi solo 7 delle 90 e piú opere che sappiamo per certo essere state scritte da Eschilo; di Aristofane, ne conosciamo solo 7 delle 40 che compose; di Euripide, ce ne rimangono appena 18 delle oltre 80 rappresentate ad Atene; peggio ancora, di Sofocle delle 123 menzionate dai suoi contemporanei ne conosciamo appena 7, e di Menandro, autore di 108 commedie, ce ne è nota solo una. Insomma, quello che conosciamo oggi del grande teatro greco classico è meno di un decimo di quello che fu, in tutto il suo splendore.

Passando alla poesia, è scomparso il Margite, grande poema comico che Aristotele attribuisce a Omero (anche se oggi sappiamo trattarsi di un'attribuzione molto dubbia se non fantasiosa), il Catalogo delle donne di Esiodo, la versione in versi di Socrate delle Favole di Esopo.

Per quanto riguarda la scienza e la filosofia, la proporzione di opere antiche preservate è maggiore perché i testi furono spesso trascritti prima che gli originali si perdessero per sempre. Di Anassagora di Clazomene, filosofo presocratico, sono rimasti pochi frammenti, ma sappiamo dell'importanza decisiva delle sue teorie attraverso Simplicio di Cilicia (VI secolo). Di Archimede, non ci sono giunti i trattati Sulle sfere e Sui poliedri. Il libro che Aristarco di Samo scrisse ad Alessandria nel III secolo a.C. per provare l'eliocentrismo, in cui descriveva il sistema solare con la posizione esatta dei pianeti, è andato perduto, ma sappiamo della sua esistenza perché Archimede lo cita, dandogli molto rilievo, nell' Arenario. Perduto o fatto sparire? L'unica cosa certa è che ci volle un millennio prima che le sue teorie fossero riscoperte e confermate. Gran parte dell'opera di Aristotele si è salvata grazie alla venerazione che gli riservò la civiltà islamica, che lo tradusse in gran parte in arabo; nonostante ciò, sono scomparsi comunque il secondo tomo della Poetica che trattava in particolare della commedia e del riso (la ricerca di tale libro nella biblioteca di quella che storicamente potrebbe essere la Sacra di San Michele in Piemonte è il tema del celeberrimo romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa ), una monografia polemica su I Pitagorici, e il Protreptico, un trattato didattico per avviare i giovani allo studio della filosofia. Eratostene di Cirene, considerato l'inventore della geografia (compresa la terminologia in uso ancora oggi), fu direttore della Biblioteca di Alessandria e impiegò per la prima volta, riferendolo a se stesso, il termine «filologo». Delle sue opere conosciamo Geografia e Sulle misure della Terra solo grazie ai commentari di autori come Strabone - del quale ancora una volta nessuno degli studi storici è giunto fino a noi -, mentre dei Catasterismi è sopravvissuta solo una versione abbreviata, probabilmente scritta nella tarda Antichità.

Per quanto riguarda la civiltà romana, [...]

[...]

Piú o meno nella stessa epoca, nel 1421, l'ammiraglio Zheng He, comandante della piú grande flotta della storia, salpò agli ordini dell'imperatore Yongle, e avrebbe costeggiato il litorale americano del Pacifico tra il 1422 e il 1423, per poi navigare nella parte atlantica delle Americhe fino al 1428, passando per l'Australia, la Nuova Zelanda e l'Antartide. Le mappe straordinariamente dettagliate tracciate dai cartografi cinesi, e il racconto del cronista della spedizione, Fei Xin, Visioni delle meraviglie della giunca stellata, furono pubblicati in Cina nel 1436. Ma il successore di Yongle, l'imperatore Hongxi, succube dei saggi e dei cortigiani confuciani, fanatici conservatori, impose al Regno di Mezzo un ciclo rigoroso di autarchia e di chiusura a tutte le influenze dall'esterno. Fece bruciare il libro di Fei Xin e le mappe che documentavano la circumnavigazione del globo da parte della flotta di Zheng He, assieme a centinaia di altri manoscritti e carte geografiche del resto del mondo. Ma nel 2001 è stata rinvenuta a Shanghai una mappa del 1736 in carta di bambú, firmata da un copista chiamato Mo Yi Tong (lo stesso Tong la dichiara una copia fedele e indica chiaramente le aggiunte e gli adattamenti di suo pugno): una prova plausibile dell'esistenza dei mappamondi risultati dal viaggio favoloso di Zheng He.

Sempre l'imperatore Yongle (forse il piú brillante della storia della Cina) fece realizzare nel 1405 un'enciclopedia ( Yongle Dadian, «Grande canone dell'era Yongle») di tutta la conoscenza della civiltà cinese. Si misero all'opera 2169 sapienti e specialisti di tutti i rami del sapere e in tre anni redassero 11095 volumi, la seconda enciclopedia di tutti i tempi. Ne rimangono oggi poco piú di 400 volumi, il 4 per cento dell'originale.

Tornando in Occidente, dello stesso periodo è andato perduto un poema satirico di François Villon (forse la sua prima composizione), Romanza della scorreggia-del-Diavolo. Lo scrittore simbolista Marcel Schwob cercò di ricostruire in un saggio la storia e il contenuto del poema.

Leonardo da Vinci scrisse piú di 25000 pagine - su quasi tutte le categorie dello scibile umano -, delle quali ne sopravvivono oggi meno di 5000, per di piú sparse tra vari codici (il codice Trivulziano nella Biblioteca Trivulziana di Milano, l' Arundel nel British Museum, l' Ashburnham all'Institut de France a Parigi, il Leicester a Seattle nella collezione privata di Bill Gates, che lo acquistò nel 1994 per 30,8 milioni di dollari). Nessuno dei codici è completo né è rimasto cosí come lo aveva scritto Leonardo. Uno scultore italiano alla corte di Spagna, Pompeo Leoni, grande ammiratore di Leonardo, riuscí a mettere insieme, alla fine del XVI secolo, piú di 50 volumi di opere del genio del Rinascimento. Per ragioni tuttora sconosciute e misteriose, Leoni decise di rimaneggiare in modo molto personale e indecifrabile i manoscritti leonardeschi, rimescolando e scompigliando l'ordine dei trattati e degli scritti, per poi reimpaginarli in modo arbitrario. Il codice Atlantico, per esempio, conservato nella Venerabile Biblioteca Ambrosiana di Milano, è una compilazione eterogenea di Leoni, che riuní 1750 pagine e frammenti di quaderni differenti di Leonardo e li incollò su pagine in-quarto per poi rilegarle come un unico codice originale. Il danno provocato da Leoni è in realtà di gran lunga peggiore di quello dell'aver smembrato l'opera originale di Leonardo: a causa della sequenza senza nesso apparente del contenuto dei codici, divenne molto piú facile per i malintenzionati strappare pagine - o persino intere sezioni - senza che risultasse immediatamente evidente se non a seguito di uno studio minuzioso. In questo modo centinaia di pagine vennero sottratte e rivendute a collezionisti e antiquari senza scrupoli. Nel 1840, il matematico e ladro Guglielmo Libri , grazie al suo incarico di segretario generale della Commissione per i manoscritti delle Biblioteche pubbliche francesi, riuscí a sottrarre in modo illecito dal codice Ashburnham l'intero «Trattato sul volo degli uccelli», che rivendette a Giacomo Manzoni e del quale al giorno d'oggi non si hanno piú notizie.

E arriviamo a William Shakespeare. [...]

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Herman Melville informava con una lettera l'amico Nathaniel Hawthorne che stava scrivendo una storia che si sarebbe chiamata Isle of the Cross (L'isola della croce). Lo scrittore, che aveva appena pubblicato - senza nessun successo - Moby Dick , vi dichiarava l'intenzione di celebrare «la grande pazienza, & capacità di sopportazione, & la rassegnazione delle donne dell'isola, che si sottomettono senza lamentarsi alle lunghe, lunghe assenze dei loro mariti marinai». L'isola era quella di Nantucket, da dove salpavano le navi baleniere, come il Pequod del comandante Achab, e le «lunghe, lunghe» assenze potevano durare due o tre anni di fila. L' Isle of the Cross sarebbe stata l'unica opera dello scrittore newyorkese con una protagonista femminile, di nome Agatha. Il libro non fu pubblicato, forse a causa dello scarso successo dei precedenti, e il manoscritto non è mai stato ritrovato.

Robert Louis Stevenson concepí l'idea de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde mentre seguiva il processo a carico di Eugène Chantrelle, un amico medico francese accusato di aver avvelenato la moglie e altre persone con un diabolico miscuglio di formaggio tostato e oppio, un delitto che colpí profondamente lo scrittore. Quando cominciò a scrivere la storia che lo rese famoso piú di ogni altra, Stevenson sembrava «posseduto». La moglie Fanny raccontò: «Una mattina all'alba mi svegliai per le grida d'orrore di Robert. Convinta che fosse in preda a un incubo terribile, lo scossi per svegliarlo, ma lui si arrabbiò. Ma perché mi svegli? Stavo sognando la scena della trasformazione di Jekyll in Hyde». Lo scrittore chiedeva sempre alla moglie di leggere le sue bozze, e ascoltava sempre con dedizione i suoi consigli e le sue obiezioni. Quando lesse la prima bozza, Fanny si spaventò per «il realismo, privo di alcun senso» della storia, e suggerí a Stevenson di trasformare «quel racconto d'orrore» in una allegoria morale. La stessa Fanny riportò che il marito, per «evitare la tentazione di salvare qualcosa, e costringersi a cominciare daccapo», bruciò nel caminetto quella prima versione. Molti biografi sostengono che a quell'epoca lo scrittore, per ispirarsi, adoperasse il fungo allucinogeno chiamato ergot (segale cornuta). Fatto sta che Stevenson riscrisse tutta la nuova versione in quattro giorni e tre notti. Poi, per quattro settimane, si dedicò a cesellare la storia. Non sapremo mai cosa ci fosse in quella prima bozza, ma al suggerimento di Fanny può essere attribuito l'immenso successo del libro, che divenne il paradigma della duplicità dell'essere umano.

Tutti conoscono Il mago di Oz , ma pochi il nome del suo autore. Frank Baum (1856-1919) scrisse 40 dei libri per ragazzi piú venduti negli Stati Uniti e in molti paesi del mondo, e costruí un vero impero con la serie dedicata a Oz, tra libri, produzioni cinematografiche e persino un parco divertimenti che però non fu mai realizzato. Non c'è da stupirsi, quindi, se gli unici quattro libri non pubblicati, e oggi perduti, siano... libri «per adulti» - nella terminologia pudibonda del mondo editoriale americano -, ossia erotici o pornografici. Non sappiamo se furono divertissements tra un libro per ragazzi e l'altro, o peccati dell'età dopo una vita dedicata ai bambini. Sappiamo comunque dell'esistenza di Our Married Life, Johnson (entrambi del 1912), The Mistery of Bonita e Molly Oodle (1915), che sicuramente furono inviati alla casa editrice ma non vennero pubblicati, nemmeno con uno dei nove pseudonimi che Baum usava per i libri che non riguardavano Oz. La maggior parte dei biografi sospetta che la moglie di Baum, Maud Gage, abbia sequestrato e forse meticolosamente distrutto i libri proibiti del marito per evitare un possibile scandalo.

Nel 1907 August Strindberg buttò nel cestino un testo teatrale che aveva appena terminato. In una lettera a un'amica spiegò che «quella pièce, che doveva chiamarsi La mano insanguinata, era troppo dura, persino per me».

James Joyce bruciò di propria mano il manoscritto della pièce A Brilliant Career, e fece sparire la prima parte di Stephen Hero, il romanzo autobiografico che venne pubblicato solo dopo la sua morte. Joyce cominciò a scriverne il testo a Dublino nel 1903, e lasciò la prima stesura a Trieste nel 1905. Dopo che il libro venne rifiutato per «indecenza» da ben venti case editrici, Joyce gettò il manoscritto nel fuoco. Fu la compagna, Nora Barnacle, a salvarne il poco che ne restava. Joyce ne scrisse una seconda parte e trasferí direttamente al Ritratto dell'artista da giovane alcune idee e brani (dove Hero si trasforma in Dedalus). Brani effettivamente scandalosi per l'epoca, come quello sulla divisione dell'anima e la sua identificazione con il pene, che terrorizza il protagonista prima della confessione.

T. E. Lawrence tornò dall'Arabia nel 1919 trasformato in eroe nazionale, e usò le sue annotazioni sulla guerra nel deserto per il progetto dei Sette pilastri della saggezza. Con la bozza dei dieci volumi dell'opera già pronta in una valigia, Lawrence si recò alla stazione di Reading, ma la imbarcò sul treno sbagliato e andò smarrita. Nonostante gli appelli sui giornali per ritrovare «il bagaglio dell'eroe», nessuno si fece vivo per restituirlo, o per fornire una qualsiasi informazione utile a ritrovarlo. Lawrence dovette rassegnarsi a ricominciare tutto daccapo. Concluse la nuova versione nel 1920: come ammise lui stesso, il nuovo testo era molto meno letterario, piú sobrio e secco, con meno annotazioni culturali ed etnologiche, e limitato alla cronaca delle azioni di guerra e degli eventi storici. Per non correre altri rischi, Lawrence fece fare subito otto linotipie del testo finale nella tipografia del giornale «The Oxford Times», che poi corresse a mano una per una e fece rilegare artigianalmente. Esistono oggi solo due copie di quella frettolosa edizione dei Sette pilastri: una andata all'asta nel 2001 fu acquistata per un milione di dollari.

Nel 1922, a Parigi, Hadley, la prima delle quattro mogli di Ernest Hemingway , infilò in una valigia i manoscritti di diversi racconti brevi e di un romanzo ancora da finire, poi prese un treno per incontrare il marito a Losanna. Ma la valigia non arrivò a destinazione: qualcuno la rubò con tutti i manoscritti dentro. Il romanzo sarebbe stato il drammatico resoconto delle esperienze di Hemingway nella Prima guerra mondiale. Per lo scrittore fu un colpo cosí duro che si rifiutò di riscrivere tutto. Alcuni biografi affermano che Hemingway non perdonò mai la moglie, e che chiese il divorzio poco tempo dopo.

Il 25 settembre 1940 Walter Benjamin tentò insieme a un gruppo di profughi in fuga dall'invasione nazista di attraversare la frontiera tra la Francia e la Spagna con l'intenzione di raggiungere il Portogallo, da cui avrebbe dovuto imbarcarsi alla volta degli Stati Uniti dove c'era ad attenderlo l'amico Theodor W. Adorno. La pesante valigia che aveva con sé conteneva qualcosa, per lui piú importante della sua stessa vita. Ma una volta arrivato a Portbou, sulla costa meridionale spagnola, le autorità franchiste comunicarono ai profughi che non li avrebbero fatti passare e li avrebbero espulsi il giorno dopo riconsegnandoli di fatto alla gendarmeria di Vichy. Quella notte, Benjamin si suicidò ingerendo una dose massiccia di morfina. La valigia e il suo leggendario contenuto, forse la redazione piú avanzata dei Passaggi, il grande progetto rimasto allo stadio di frammento al quale il filosofo tedesco stava lavorando negli ultimi anni della sua esistenza, andarono perduti per sempre.


E pensare a questa «biblioteca ideale», costituita esclusivamente di capolavori che non potremo mai leggere, ma anche di opere trascurabili che magari, oggi o domani, qualcuno potrà considerare di inestimabile valore, ci induce a riflettere su quanto di casuale e necessario ha fatto sí che qualcosa sia giunto fino a noi.

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Sarajevo, o la biblioteca come simbolo di un popolo


                        Dobbiamo disprezzare e ridicolizzare la cecità di quelli
                        che credono di poter cancellare, con un gesto arrogante,
                        persino la memoria della posterità. In verità,
                        un'aggressione di questo tipo non fa altro che aumentare
                        il prestigio degli spiriti nobili che sperano di mettere
                        a tacere, e coloro che si avvalgono di una tale
                        violenza, non hanno ottenuto null'altro che le vergogna
                        per se stessi, e la fama per i propri nemici.
                                                             TACITO, Annali, XI.

                        Le biblioteche che sono svanite o a cui non è mai stato
                        concesso di esistere sono molte di piú di quelle che
                        visitiamo, e formano gli anelli di una catena circolare
                        che ci accusa e ci condanna tutti.
                                            ALBERTO MANGUEL, Packing my Library.

                        Distruggere i libri di una cultura è destinarla a
                        qualcosa di peggio della morte; è condannarla a non
                        avere mai vissuto.
                                                 SUSAN ORLEAN, The Library Book.



Come mai nel corso della storia cosí tante biblioteche sono state date alle fiamme? È piú facile capire la ragione della distruzione dei libri, i falò e gli autodafé: le vittime in questo caso sono opere specifiche condannate per ragioni ideologiche, religiose, politiche, etniche, razziali. Ma perché le biblioteche, cosí generiche e diversificate, attraversate da molteplici epoche, tendenze e opinioni? Eppure il fenomeno è talmente frequente che disponiamo di un'estesa bibliografia sul tema.

Ecco alcuni titoli: Livres en feu di Lucien X. Polastron; Libricide, su recenti «libricidi» in Cambogia, Afghanistan e Africa, e Burning Books and Leveling Libraries: Extremist Violence and Cultural Terrorism, entrambi di Rebecca Knuth; Historia universal de la destrucción de libros: de las tablillas sumerias a la guerra de Irak , di Fernando Bàez. Questi libri provano che molte biblioteche sono state distrutte o incendiate con intenzione mirata, spesso facendo attenzione a non colpire ciò che si trovava attorno, proprio per rendere evidente il proposito.

Ben diverso da ciò che avvenne per esempio alla magnifica Biblioteca Nazionale dei Santi Cirillo e Metodio a Sofia, rasa al suolo dai bombardamenti a tappeto degli Alleati nel 1943 che distrussero tutta la città. O alla Biblioteca nazionale libanese a Beirut, che disgraziatamente si trovò proprio nell'epicentro dei combattimenti della guerra civile a metà degli anni Settanta. Al contrario, in moltissimi casi le biblioteche vennero attaccate individualmente, con la metodicità precisa dell'assassino, piú che con la violenza cieca del terrorista. Erano tutte biblioteche il cui contenuto era il compendio e, potremmo dire, il reliquiario, di culture minoritarie, locali, subalterne, spesso minacciate, assediate o perseguitate.

Come scrive Fernando Báez: «I libri e le biblioteche sono un'istituzione della memoria, distrutti non in quanto oggetti o edifici, ma per la loro connessione con la memoria, e cioè, come pilastri dell'identità degli individui e delle comunità. Dietro alla distruzione di libri e di biblioteche, si cela l'intenzione di indurre un'amnesia storica, per facilitare il controllo sull'individuo o sulla società». Báez partecipò di persona a varie missioni internazionali in Bosnia e in Iraq, per analizzare l'annichilimento delle biblioteche nei paesi oggetto del suo libro. Il capitolo sull'Iraq è il resoconto piú orripilante e spaventoso di un «bibliocausto» moderno. Ci informa sarcasticamente che a Baghdad le forze di occupazione americane piazzarono centinaia di soldati per proteggere il ministero del Petrolio, e neanche uno a vigilare la Biblioteca nazionale irachena o i ricchissimi musei, che vennero sistematicamente saccheggiati di tutti i loro tesori. A causa delle sue rivelazioni e delle sue denunce, Báez è diventato persona non grata negli Stati Uniti, e non gli viene concesso il visto neppure per ricerche o conferenze. Da parte sua, Polastron afferma che l'uomo è fondamentalmente un essere simbolico, e che la distruzione delle biblioteche, cosí come d'altronde la loro costruzione, è a sua volta un atto altamente simbolico. «Il libro è il doppio dell'essere umano, e bruciarlo equivale a ucciderlo»; radere al suolo una biblioteca equivale ad annichilire il passato, la cultura e la lingua di una collettività, potremmo aggiungere noi.

[...]


Il caso piú esemplare della volontà di distruggere l'identità di un popolo attraverso la distruzione della sua biblioteca è il tragico destino toccato a Sarajevo. Nel 1992, durante la guerra dei Balcani, i serbi e i serbo-bosniaci diedero inizio all'assedio della capitale della Bosnia, allora indipendente, un assedio che sarebbe durato fino al 1996, uno dei piú lunghi e sanguinosi della storia. Piú di 70000 soldati e miliziani si piazzarono sulle alture tutt'attorno alla città, difesa da 13000 soldati bosniaci e dai civili armati delle forze di autodifesa. La popolazione era sottoposta al bombardamento di armi pesanti e, peggio, ai micidiali colpi delle decine di tiratori scelti muniti di fucili di alta precisione e cannocchiali. Per quattro anni chiunque poteva divenire il bersaglio di un cecchino, ovunque e all'improvviso. La storia di Sarajevo andrebbe raccontata esclusivamente come una storia di odio.

Come in tutte le guerre, dentro al dramma collettivo, che appartiene alla Storia, vi furono migliaia e migliaia di tragedie individuali; ma una in particolare fu allo stesso tempo entrambe le cose, dramma collettivo e tragedia individuale: la storia della biblioteca di Sarajevo.

La Vijećnica sorse inizialmente come sede del Municipio della città e venne inaugurata nel 1896. Nelle intenzioni dell'architetto Alexander Wittek (che era anche uno dei «grandi maestri» di scacchi dell'epoca), lo stile eclettico del progetto doveva fondere tutte le componenti della cultura bosniaca in un edificio grandioso (il piú grande dei Balcani), che avrebbe dato dignità e lustro alla nuova Repubblica bosniaca. Fu proprio dopo essere uscito da quel maestoso edificio che l'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria venne assassinato da un nazionalista serbo - come sappiamo si ruppe cosí quel fragile equilibrio che trascinò l'Europa nella Prima guerra mondiale. Nel 1949, con l'annessione della Bosnia alla Repubblica socialista federale di Iugoslavia, la Vijećnica fu trasformata in biblioteca per riunire tutto ciò che della cultura e della storia bosniache era sopravvissuto alla Seconda guerra mondiale. Molto era andato perduto (i nazisti, ad esempio, avevano bruciato il pinkus, registro comunitario degli ebrei di Sarajevo, con documenti che risalivano al XVI secolo), ma vi era ancora un'immensa ricchezza da preservare: icone ortodosse, calligrafie islamiche, incunaboli cattolici e il tesoro piú prezioso di tutti, la cosiddetta Haggadah di Sarajevo, un manoscritto rituale sefardita del 1350, uno dei più antichi al mondo, per di più decorato con miniature medievali, alla stregua di un codice miniato (un caso piú unico che raro, vista la proibizione giudaica delle immagini), e attribuito alla comunità giudaica di Barcellona.

L'obiettivo principale della raccolta che andò a formare la Biblioteca nazionale e universitaria della Bosnia-Erzegovina, che riuniva oltre 700 manoscritti antichi e 155000 libri rari, era mostrare come e quanto le quattro culture (slava/ortodossa, turca/islamica, austro-ungarica/cattolica ed ebraica) avessero per secoli non solo convissuto armoniosamente, ma anche interagito, influenzandosi a vicenda, sul piano intellettuale, artistico e religioso. Esattamente per la stessa ragione, la prima aggressione dei serbi e serbo-bosniaci contro Sarajevo, proprio all'inizio dell'assedio, si volse contro la Biblioteca. L'ordine di bombardarla, specificamente con proiettili incendiari per bruciare tutto quel materiale, scomodo testimone del passato multietnico della Bosnia e dei Balcani in generale, venne dato da una persona che sapeva molto bene cosa stava facendo e quali sarebbero state le conseguenze.

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Eco, o la biblioteca dei libri non letti


                        Uno dei malintesi che dominano la nozione di biblioteca
                        è che si vada in biblioteca per cercare un libro di cui
                        si conosce il titolo. In verità accade sovente di andare
                        in biblioteca perché si vuole un libro di cui si conosce
                        il titolo, ma la principale funzione della biblioteca,
                        almeno la funzione della biblioteca di casa mia e di
                        qualsiasi amico che possiamo andare a visitare, è di
                        scoprire dei libri di cui non si sospettava l'esistenza,
                        e che tuttavia si scoprono essere di estrema importanza
                        per noi.
                                                    UMBERTO ECO, De Bibliotheca.

                        La biblioteca non è solo il luogo della tua memoria,
                        dove conservi quel che hai letto, ma il luogo della
                        memoria universale, dove un giorno, nel momento fatale,
                        potrai trovare quello che altri hanno letto prima di te.
                                     UMBERTO ECO, Riflessioni sulla bibliofilia.



In una conferenza tenuta alla Biblioteca Comunale di Milano a Palazzo Sormani, nel 1981, Umberto Eco tracciò le linee generali di quella che sarebbe stata per lui una biblioteca ideale, in quanto ricercatore e amante delle biblioteche. Non a caso due dei romanzi piú celebri di Eco, Il nome della rosa e Il pendolo di Foucault , ruotano entrambi attorno alla passione per i libri e per le biblioteche.

«Invece di disegnarvi l'utopia di una biblioteca perfetta, che non so quanto e come sia realizzabile, vi racconto la storia di due biblioteche su misura, due biblioteche che io amo e che, quando posso, cerco di frequentare. Con questo non voglio dire che siano le migliori del mondo o che non ce ne siano altre: sono quelle che ho frequentato l'ultimo anno con una certa regolarità, una per un mese, l'altra per tre mesi: la Sterling Library di Yale e la nuova biblioteca dell'Università di Toronto».

Un accostamento singolare, visto che le due biblioteche citate sono estremamente differenti l'una dall'altra: [...]

[...]

Ricerche piú facili e veloci a Toronto, quindi, ma con un punto di vantaggio per Yale, dove le ricerche sono verticali e trasversali. Si tratta di un aspetto molto importante, insiste Eco: se cerchiamo un libro di Dostoevskij, ad esempio, la risposta non comprende solo il libro che cerchiamo, e gli altri dell'autore, ma anche le opere sullo scrittore russo e su quel libro in particolare. A Toronto, invece, se quel libro non è al momento disponibile, la biblioteca fornisce il nome e il recapito della persona che lo ha preso in prestito, per poterla contattare e sapere per quanto tempo ancora tratterrà il libro che ci interessa.

[...]

In altri scritti, Eco torna al concetto di biblioteca a dimensione umana. «Credo che la biblioteca si stia incamminando verso una dimensione umana: ma per essere a misura dell'essere umano, deve essere anche a misura della macchina, della tecnica, dell'informatica, perché è questo che ci aspetta». Secondo Eco, sono le scuole che dovrebbero insegnare ai giovani a usare le biblioteche. «Si dovranno istituire, cosí come per la patente di guida, corsi di educazione di rispetto al libro, e al modo di consultarlo. È una questione di civiltà. Non ci rendiamo nemmeno conto di quanto lo strumento biblioteca sia qualcosa di completamente sconosciuto per la maggioranza».

Qual è stata e qual è la funzione fondamentale della biblioteca?, si chiede Eco. «Forse, all'epoca di Assurbanipal o di Policrate, era raccogliere rotoli e manoscritti per non sprecarli. Dopo, piú tardi, credo che abbia avuto la funzione di tesaurizzare: i rotoli costavano cari. Poi, all'epoca benedettina, di trascrivere: la biblioteca quasi come fase transitoria, il libro arriva, è trascritto, l'originale o la copia proseguono. A qualsiasi epoca, fino forse a quella tra Augusto e Costantino, la funzione della biblioteca era facilitare la lettura, mettere i libri a disposizione dei lettori». In seguito, però, sottolinea il bibliofilo, sorsero biblioteche la cui funzione era non facilitare la lettura, nascondere, dissimulare i libri. Ma anche permettere, allo stesso tempo, che fossero riscoperti, da coloro che sapessero cercare e trovare: «Gli umanisti del Quattrocento italiano hanno creato un mito con la loro abilità di riscoprire manoscritti misteriosi, apparentemente perduti. Dove li riscoprivano? Nelle biblioteche stesse, che servivano per occultare, e per riscoprire, quando fossero arrivati il momento e la persona giusta».

Nel suo libro Il Cigno nero (2007), il saggista libanese naturalizzato americano, Nassim Nicholas Taleb , scrive: «Umberto Eco appartiene a un raro genere di studiosi enciclopedici, perspicaci e per niente noiosi. Possiede un'ampia biblioteca personale (di trentamila volumi) e classifica i visitatori di tale biblioteca in due categorie: coloro che reagiscono dicendo: "Caspita, professor Eco, che biblioteca! Li ha letti tutti, questi libri?", e una piccola minoranza che capisce che una biblioteca personale non è un'appendice del proprio Io, ma uno strumento di ricerca. I libri non letti sono molto più preziosi di quelli letti. Una biblioteca dovrebbe contenere tutti i libri su argomenti sconosciuti che i nostri mezzi finanziari, le rate del mutuo e le difficoltà del mercato immobiliare ci consentono di acquistare. Via via che avanziamo nell'età accumuliamo piú conoscenze e piú libri, e i libri non letti che ci guardano minacciosi dagli scaffali sono sempre piú numerosi. Anzi, piú si conosce e piú si allungano gli scaffali dei libri non letti. Chiamiamo l'insieme di tali libri "anti-biblioteca"».

Per Alberto Manguel , non abbiamo bisogno di aver letto tutto della nostra biblioteca personale: «Per qualsiasi lettore, il miglior modo di approfittare dei propri libri è un giusto equilibrio tra conoscenza e ignoranza, tra ricordo e dimenticanza».

Mentre Eco, ne La memoria vegetale, deride i «falsi dotti» di moda, come Dan Brown e Carlos Ruiz Zafón (ma salva, significativamente, J. K. Rowling , autrice della serie di Harry Potter), Taleb definisce Eco come un modello di anti-dotto, un dotto piú incentrato sui libri che non ha ancora letto e su tutto ciò che possono rivelargli, e che si sforza di non trattare la propria conoscenza come un tesoro o una proprietà privata, o una fonte di spocchia o eccessiva autostima. Taleb non menziona l'abituale risposta di Eco alla sciocca domanda che tanto lo irritava: quanti ne ha letti? Di fronte ai corridoi e corridoi di scaffali strapieni fino al soffitto, il semiologo faceva una smorfia divertita e rispondeva: «Questi sono solo quelli che ho letto quest'ultimo mese, gli altri sono in ufficio». Effettivamente, Eco aveva un'altra biblioteca minima (20000 volumi) nella sua casa in campagna, vicino a Urbino.


Nelle varie lingue del mondo ci sono termini che sembrano coniati apposta per esprimere concetti assolutamente particolari: il che sembra richiamare l'osservazione di Eco sull'importanza dei libri che rimangono nella biblioteca in attesa di essere letti. In giapponese, il termine tsundoku indica precisamente «il libro che compriamo ma lasciamo da parte senza leggerlo, ad aspettare il suo turno». È un termine che mi piace molto, di quelli che colleziono da altre lingue come necessari e intraducibili: altri prediletti sono, sempre in giapponese, uttori (una bellezza che ti fa perdere la nozione del presente), il wa, il concetto di serenità o equilibrio interno che dobbiamo preservare negli altri, il francese veule (molto usato da Sartre nei suoi romanzi con protagonisti immersi nel mal de vivre esistenzialista, in particolare per Ivich, la giovanissima studentessa russa di Simone de Beauvoir e amante dello scrittore), il brasiliano sertão, la brughiera spinosa dell'altipiano centrale del Brasile, celebrato come personaggio principale del romanzo di João Guimarães Rosa, Grande Sertão: Veredas. E tanti altri termini affascinanti che varrebbero un libro a sé.

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Abbiamo accennato finora alle biblioteche del potere, quelle dei potenti e dei dittatori. Passando invece alle biblioteche dedicate ai movimenti sociali, ci piace in questa sede citare tra le tante, almeno la Biblioteca Franco Serantini (Bfs) a Pisa, specializzata nel movimento anarchico dalle origini fino ai giorni nostri, nella documentazione dei movimenti operai e sindacali, nella storia dell'antifascismo e della resistenza al nazismo, nei movimenti studenteschi, nelle insurrezioni socialiste (come quelle degli anni Venti in Germania) e nelle rivolte giovanili dal 1968 in poi. Dispone, per esempio, di tutte le edizioni dei «Cahiers de Mai», la mitica rivista pubblicata dal maggio 1968 come luogo di dibattito per tutti i movimenti rivoluzionari operai. La Bfs offre anche un'ampia documentazione sulle «eresie di sinistra», il femminismo e i movimenti anti-militaristi e pro-disarmo.

La Biblioteca Serantini è sorta nel 1979 in omaggio alla memoria di Franco Serantini, un anarchico morto a vent'anni nel 1972 nel carcere Don Bosco di Pisa, in seguito alle violente percosse subite da parte della polizia durante una manifestazione contro il movimento neo-fascista. La biblioteca è nata al pian terreno di un edificio medievale nel centro storico di Pisa, ma negli ultimi anni è cresciuta a tal punto che l'associazione culturale che la gestisce ha chiesto al Comune di poter occupare uno dei capannoni della fabbrica tessile della Marzotto di Pisa, fallita da decenni. La Marzotto, proprio per la forte presenza anarchica, aveva avuto vita difficile, tra scioperi e rivendicazioni operaie, fino alla chiusura dei battenti. Quale sede poteva essere dunque piú adatta per la biblioteca di una fabbrica in disuso che era stata teatro di innumerevoli scioperi?

All'inizio del 2020 la Bfs si è trasferita nella nuova sede che, stando alle parole di Franco Bertolucci, responsabile dell'associazione culturale, «ancora riecheggia dei suoni ritmati dei telai e degli slogan scanditi dai manifestanti ai cancelli». La biblioteca dispone di 60000 libri, tutti frutto di donazioni. Grazie al considerevole spazio che le è stato concesso, è divenuta con il tempo anche una casa editrice specializzata nei temi legati al movimento anarchico, e un centro culturale in cui si organizzano conferenze, rassegne e presentazione di libri.

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Le città-biblioteca.


Nel 1962 sorse un nuovo concetto di biblioteca e di libreria: la città-biblioteca, o la città dei libri. L'inventore fu Richard Booth (che ha scritto un interessante libro di memorie intitolato My Kingdom of Books), della cittadina gallese di Hay-on-Wye. L'idea era «impiantare, in un'agglomerazione localizzata dentro una regione pittoresca o turistica, tutte le possibili attività legate ai libri, a cominciare da una biblioteca, e piano piano commercio di libri antichi e usati, e tutto l'artigianato del libro, impaginazione, rilegatura, fabbricazione di carta, attività editoriali, e cosí via». Nel 1984, il villaggio belga di Redu proclamò il gemellaggio con Hay-on-Wye, e inaugurò la sua prima «festa del libro». Adesso accoglie 200000 visitatori all'anno. Da allora, il movimento delle città del libro non ha smesso di crescere, e nel 1989 è stata creata la Fédération des Villes, Cités et Villages du Livre. Nello stesso anno, entrò a far parte del movimento l'antica cittadella medievale francese di Bécherel, seguita da altre sette - solo in Francia - negli anni successivi. Ambierle, ad esempio, si è specializzata in fumetti, con una biblioteca associata a una piccola casa editrice e a una scuola del fumetto. Fontenoy-la-Joûte ha 310 abitanti, 15 librerie (tra nuovo e usato) e una scuola di biblioteconomia. In Spagna, il villaggio medievale (completamente preservato e restaurato) di Urueña ha 200 abitanti, 11 librerie, 6 rivendite di libri usati, 3 biblioteche (una delle quali su corrida e toreada), e spazi pubblici per seminari e workshop.

In tutt'Europa (compresa l'Estonia) ci sono oggi 30 città del libro, ma sono presenti anche negli Stati Uniti, in Canada, Malesia e Giappone. Le attività si sono via via diversificate, includendo festival, presentazioni di libri, dibattiti, incontri con autori e, in alcuni casi, musei dedicati alle attività libresche.

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Harry Potter, e la magia di salvare una libreria antica.


Questo è un libro sulle biblioteche, non sulle librerie. Ma tutti coloro che amano i libri sanno che tra biblioteca e libreria (di qualità) il confine è elastico e indefinito. A Porto, in Portogallo, c'è una libreria che svolge la funzione di biblioteca e insieme, vista la sua notorietà, di attrazione turistica: la Lello e Irmão, o semplicemente Lello, inaugurata nel 1906. Opera dell'ingegnere Francisco Xavier Esteves - ritenuto l'innovatore che ha introdotto il cemento armato in Portogallo -, è un edificio neogotico cosí affascinante e particolare da essere considerata una delle più belle librerie al mondo. Magnifici scaffali in legno scuro carichi di libri (60000), un enorme doppio scalone centrale e una straordinaria vetrata decorata con il monogramma dei fratelli Lello e con il motto della libreria: Decus in labore.

Nonostante la bellezza e la ricchezza dell'offerta, i costi di manutenzione e la concorrenza delle vendite online stavano portando la Lello al fallimento. Fino a quando una «maghetta», Aurora Pedro Pinto, non ne ha assunto in extremis la direzione con la missione di salvarla. E ha compiuto il miracolo: da buona esperta in relazioni pubbliche ha fatto sapientemente circolare la voce che è stato proprio nella Lello che J. K. Rowling, autrice della serie di Harry Potter, ha concepito i suoi personaggi e attinto le sue nozioni di magia. E addirittura che è proprio alla Lello che la biblioteca magica di Hogwarts si ispira. La Lello è diventata cosí per il grande pubblico «la biblioteca di Harry Potter», un vero monumento della città che i turisti sono disposti a vedere a pagamento. Attualmente la visita prevede infatti un costo, che viene però rimborsato in caso di acquisto di libri. Da allora, la Lello è passata da 9 a 50 dipendenti, vende 1200 libri al giorno, e ha ricevuto nel 2018 quasi un milione di visitatori.

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