Autore Paolo Pagani
Titolo I luoghi del pensiero
SottotitoloDove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2019, Piccola biblioteca , pag. 368, cop.fle., dim. 10,5x17,5x2,2 cm , Isbn 978-88-545-1696-0
LettoreRenato di Stefano, 2019
Classe viaggi , biografie , filosofia , storia della scienza , storia letteraria












 

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Indice


  9     Introduzione


 13  1. Il Seicento in Olanda.
        O libertà, verità e tolleranza
        I luoghi di Spinoza e Cartesio

 75  2. Il cortigiano e il rivoluzionario
        I luoghi di Leibniz e Newton

107  3. Le ragioni della Ragione
        I luoghi di Darwin e Marx

149  4. Non solo in Inghilterra
        I luoghi perduti di Wittgenstein

215  5. L'Apostolo di Cambridge
        I luoghi di Keynes

251  6. Nella Foresta Nera
        I luoghi di Heidegger e Arendt

309  7. Le dieci case della nobiltà di spirito
        I luoghi di Mann


355     Bibliografia


 

 

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Pagina 9

Introduzione


I luoghi del pensiero non è un libro di filosofia, ma parla soprattutto di filosofi. E, molto, delle loro vite. Dei luoghi che hanno abitato. Questo libro è una personalissima cartografia intellettuale d'Europa. L'ho voluta disegnare con l'aiuto di mappe e di una bibliografia di testi. Ho cercato d'essere un cronista della (e, ovviamente, nella) Storia. Intendo per lo più la storia delle idee e della loro genesi. Per me ha significato indagare, riscoprire, ristudiare pensieri fondamentali, di ieri e di oggi, dei quali ritengo obbligatorio tenere viva la memoria. Case, tombe, luoghi geografici, nomi di persone sono i paesaggi che attraverso. Un viaggio-reportage sentimentale alle radici della cultura europea: nomi, case, sepolcri degli uomini che hanno cambiato la nostra visione del mondo. Soprattutto: idee nate da quei nomi, in quelle dimore, interrate in quei sepolcri, ma ancora vive perché potenti, lungimiranti, preziose, eterne, fondative. Pensieri che, secondo me, potevano essere concepiti solo lì dove sono materialmente nati. Perché c'è un'aura in ogni luogo, un linguaggio non detto che si impara ad ascoltare.

È importante capire cosa significhi un luogo. Bisogna affinare i sensi per afferrare quel che sta cercando di dirci. Ecco perché obbedisco al richiamo di qualcosa che non parla ma agisce, a un brillio irresistibilmente attraente, a una forza gravitazionale silenziosa e prepotente. Non succede dappertutto. Serve che il luogo racchiuda un dono segreto, sia abitato da un potere primitivo. Ci si va per questo motivo. Un'aura speciale che vibra e si capta con un radar interiore. Un alfabeto oscuro che però, man mano, assume chiarezza.

Questa è anche la personale ricostruzione di una certa idea di Europa. Politica ed economia sono strumenti imprescindibili di comprensione, forniscono il kit di smontaggio dei meccanismi di funzionamento di ogni società. Ma è la cultura che ha reso inimitabile il Vecchio Continente, è il suo possente portato di pensiero. Naturalmente attraverso alcune figure monumentali. C'è un percorso che credo meriti d'essere difeso. Almeno nella dimensione del ricordo. E da far riaffiorare scrivendone. Ho pensato all'Europa che bisogna amare. E, in troppi casi, rimpiangere. Che ne è di lei? Che ne è di tutti coloro, o dei più importanti di coloro, che ci hanno resi grandi e importanti? Cosa stiamo perdendo, o abbiamo già perso, e cosa dobbiamo necessariamente recuperare? Quella che segue è una geografia delle idee che ci hanno insegnato quel che dobbiamo sapere.

Ho compiuto un lungo itinerario, costituito naturalmente da più viaggi, scomposto in tappe scaglionate nel corso degli anni. O percorso con cammini concitati che si incrociano, talvolta si sovrappongono. In qualche caso ripetendo l'incontro con case e cose. Perché magari, nel frattempo, una nuova lettura suggeriva uno sguardo aggiornato, diverso, più attento. Ho inseguito una passione privata con lo scrupolo di raccontare quel che vedevo, associandolo a quel che leggevo, a quel che ricordavo. Sono voluto andare nei posti fisici abitati e vissuti da chi, negli ultimi tre secoli di storia delle idee, ci ha fornito modelli morali e intellettuali. Avrei senz'altro potuto occuparmi di altri autori e di altri secoli. La scelta è del tutto personale e convenzionale. Riflette le conclusioni tratte dalle mie letture, rivela i miei gusti. Scrivo di teorie che merita ripassare. Che hanno propiziato analogie, confronti, similitudini imprevedibili. Perché un filo rosso di valori lega davvero, tra Seicento e Novecento, autori diversi che ci parlano con una voce sola.

Dove hanno speso le loro esistenze e come, cosa ci hanno detto, dove giacciono, perché ricordarli. Questi i quattro principali motivi di un itinerario geografico e mentale assieme. Chiamiamola ricognizione storica, topografica e passionale. Non ho scritto un saggio accademico per specialisti, tantomeno originali esegesi filosofiche. Spicca semmai una tesi di fondo nel libro, nell'accostamento di profili arbitrariamente abbinati: l'eresia intellettuale, la rottura con il passato, la discontinuità con la tradizione, la frattura, la ricchezza intrinseca a ogni sguardo critico, a ogni messa in discussione di dogmi o regole prestabilite è l'eredità che ciascuno di loro ci ha lasciato. Crisi come patrimonio, occasione problematica di crescita, di riflessione.

Da Baruch Spinoza, nel Seicento olandese, ho risalito il tempo e lo spazio fino a Thomas Mann. Autentica coscienza europea, alta e antitotalitaria, del XX secolo. Ho inseguito e spiato nel loro lavoro quotidiano e nell'impegno di una vita tanti filosofi e un grande scrittore che, col suo pensiero politico, ha filosofato sulla decadenza del suo tempo e ha preparato il nostro. Nella pratica, ha significato escogitare un itinerario di qualche migliaio di chilometri, a zigzag fra Stati, città, paesi, borghi, piccoli abitati, baite, stanze in affitto, monti e mari che, da sud a nord dell'Europa, può configurarsi nella forma di un larghissimo cerchio. Con un importante dirottamento negli Stati Uniti. Un'estensione, andata e ritorno, al di là dell'Atlantico. Buon viaggio e buona lettura.

P.P.

Febbraio 2019

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Pagina 13

1. Il Seicento in Olanda.
O libertà, verità e tolleranza
I luoghi di Spinoza e Cartesio



Quell'incipit lieve e profondo sulla vanità di ogni ricchezza materiale mi torna in mente mentre arrivo davanti alla poderosa statua bronzea del suo autore, l'ebreo sefardita Baruch Spinoza , sullo Zwanenburgwal. Proprio in faccia al municipio di Amsterdam e a due passi dall'Opera. Attorno, lo scampanellio di mille biciclette che scavalcano la gobba del ponticello Bjvoetbrug per raggiungere le insalate e i bagel di Frenzi, locale trendy zeppo di gioventù, lasciandosi alle spalle il mercatino hippy dell'usato, lì sulle rive placide del canale. Un trionfo di divise marinare usate e, naturalmente, fantasiosi derivati della cannabis.

«Dopo che l'esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente accadono nella vita comune sono vane e futili, e quando vidi che tutti i beni che temevo di perdere e tutti i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla né di bene né di male se non in quanto l'animo ne era turbato, stabilii infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un vero bene... anzi, se esistesse qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema». Il Trattato sull'emendazione dell'intelletto comincia così. Lasciato incompiuto nel 1660 e pubblicato postumo nel 1677, intende svolgere tramite il cristallo aguzzo del ragionamento, il fuoco freddo del pensiero, un intimo lavoro di correzione degli errori e dei pregiudizi che, radicati nelle credenze degli uomini, impediscono loro di attingere tanto alla verità quanto - il che è assolutamente lo stesso - al bene.

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Pagina 36

Lo sguardo di Spinoza, nel monumento, sembra invece lanciato in direzione del luminoso Seicento degli splendori europei in arte, letteratura, scienza e filosofia. Il secolo del genio. Epoca ineguagliabile e sorprendente nella quale hanno convissuto menti formidabili: Leibniz e Blaise Pascal , Cartesio che come abbiamo visto abitava anch'egli ad Amsterdam lungo il Prinsengracht e Isaac Newton , John Locke , Thomas Hobbes (il cui Leviatano venne tassativamente proibito dalle corti d'Olanda nel 1674), Ugo Grozio, Rembrandt e Jan Vermeer, Francesco Bacone e Miguel de Cervantes , Pierre Gassendi , Giovanni Keplero e l'astronomo Christiaan Huygens. Uno spaventoso concentrato europeo di innovazione radicale e talento trasversale. Forse soltanto il Rinascimento a Firenze, in un'unità di luogo oltre che di tempo, o la Grande Vienna fin de siècle di Robert Musil e del dottor Freud registrarono un simile denso precipitato di personalità fuori del comune.

Nel Seicento furono scavate in profondità le fondamenta del mondo moderno che conosciamo. Con l'impiego dell'eresia intellettuale, il coraggio della rottura con il passato e la tradizione, la discontinuità laica del sapere. Con la nascita e con il progresso della conoscenza scientifica fondata sul tribunale dell'esperimento, sull'emancipazione sovversiva dall'infallibilità del dogma e della gerarchia religiosa. Fu il XVII secolo a generare le grandi idee che hanno spalancato la Modernità, nonostante al suo interno convivesse un dogmatismo occhiuto e vendicativo. Che però stimolò quelle stesse idee a ingrandirsi, quasi in virtù di quella "reazione uguale e contraria" teorizzata negli stessi anni da Newton, l'uomo che cambiò il mondo grazie a una mela come Steve Jobs. Si sgretolano le certezze, si rompe il paradigma dell'antichità, vengono superate le superstizioni e i fideismi. Operazione che espone a rischi qualche volta mortali.

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Pagina 52

Einstein definì Spinoza un prolungamento metafisico della sua fisica rivoluzionaria. Friedrich Nietzsche di lui scrisse con trasporto e un certo egocentrismo: «Ho un precursore, e quale precursore!» Hegel addirittura sentenziò, coniando così un neologismo destinato a durare nei secoli, che «Spinozieren ist Philosophieren»: essere spinoziani equivale, semplicemente, a fare filosofia. L'idealista Friedrich Schelling , compagno di banco di Hegel al collegio teologico Stift di Tubinga, ammise: «Non c'è nessuno che possa sperare di portare avanti qualcosa di vero e di compiuto in filosofia, che, almeno una volta in vita sua, non si sia sprofondato nell'abisso dello spinozismo». Johann Wolfgang Goethe , l'idolo di Thomas Mann , divenne il paladino dello spinozismo: «Dopo che mi ero guardato attorno in tutto il mondo per trovare un mezzo per foggiare la mia strana natura, mi imbattei alla fine nell'etica di quest'uomo... Mi parve mi si aprisse un'ampia e libera veduta del mondo sensibile e morale». E Bertrand Russell , nella sua novecentesca Storia della filosofia occidentale, osserva convinto: «[Spinoza] è il più nobile ed il più degno di amore dei grandi filosofi. Se qualcun altro lo ha superato dal punto di vista intellettuale, dal punto di vista etico è superiore a tutti».

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Pagina 75

2. Il cortigiano e il rivoluzionario
I luoghi di Leibniz e Newton



L'uomo che rese per sempre popolare la mela, molto prima dell'iPhone ma un po' dopo Adamo ed Eva, fu probabilmente il più grande scienziato di sempre. Isaac Newton , issato lassù sul podio con i medagliati Archimede e Albert Einstein (come lui affetto dalla sindrome di Asperger) ai gradini di poco più bassi, è stato un tale fenomeno da riuscire a scoprire la forza di gravità stando placidamente seduto sotto a un albero, nel frutteto della sua fattoria isolata nella campagna inglese. Così inventò la fisica moderna un pomeriggio del 1666, scappato dal Trinity College di Cambridge a rifugiarsi impaurito a casa per venti mesi perché la peste stava flagellando l'Inghilterra. Trent'anni dopo quella di Milano descritta da Alessandro Manzoni nel padre di tutte le serie tv di successo, I promessi sposi.

La pianta di mele più famosa del mondo, quella che gli lasciò cascare perpendicolarmente un frutto sulla testa, c'è ancora: fa frusciare le sue fronde con un rumore di ruscello a Woolsthorpe Manor, sette miglia da Grantham, la cittadina natale della Lady di Ferro degli anni Ottanta, Margaret Thatcher, nel Lincolnshire. Un paio d'ore d'autostrada a nord di Londra. E ci crescono sempre le dure green cooking apples verdi di un verde acido. Osservando queste inconsapevoli, succose sfere del suo giardino intuisce (e dimostra soprattutto) che la forza con la quale i pianeti sono legati al Sole varia come l'inverso del quadrato della loro distanza dal medesimo.

Per essere sinceri fino in fondo, nel 1820 un terribile temporale abbatté l'albero, i pezzi di quel tronco artritico rotti dai fulmini e dispersi al suolo furono prosaicamente utilizzati per fabbricare tabacchiere e bigiotteria varia. Ma non fu la fine della storia. Siccome le radici là sotto erano ancora miracolosamente vive, da loro nacque e si sviluppò un nuovo esemplare. Grazie agli studi della dendrocronologia, che ho scoperto essere la disciplina che osserva l'accrescimento annuale degli alberi attraverso il conteggio degli anelli disegnati dalla natura all'interno del tronco, si può affermare con certezza che l'età del melo sia identica a quella originale, e che quindi le radici siano rimaste le stesse dell'epoca di Newton. Il Tree Council ha perciò inserito la pianta fra i cinquanta Great British Trees nazionali e oggi viene accudita come una vecchia e nobilissima signora dai giardinieri che si occupano del Woolsthorpe Manor.

[...]

«Se ho visto più lontano degli altri è perché sono salito sulle spalle dei giganti» si schermì Newton in seguito alla scoperta dell'attrazione a distanza fra i pianeti, citando san Bernardo di Chartres in una lettera al fisico Robert Hooke. Galileo Galilei e Giovanni Keplero , altri due titani di un'Europa colta devota esclusivamente al sapere puro, erano stati in effetti predecessori di un certo rilievo nelle faccende di astronomia. Newton nacque fra l'altro, orfano di padre, un piccolo allevatore e proprietario terriero senza titoli nobiliari (un cosiddetto yeoman), il giorno di Natale del 1642, lo stesso anno della morte di Galileo. Caso o predestinazione?

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Pagina 104

Newton costruisce addirittura un cielo nuovo, c'è un prima e un dopo di lui, nettamente e gnoseologicamente divisi nel nostro abitare l'universo, nel nostro credere. Poi c'è la multidisciplinarità, l'eclettismo intellettuale, la volontà determinata a non chiudersi dentro ai recinti riparati del già noto. Con un piede annodato dai legacci di un passato che non può più essere il nostro, tutt'e due però guardano al futuro, agli sviluppi del sapere in direzioni coraggiose. Sono modelli indispensabili, figure centrali nella storia europea delle idee scientifiche e non solo, e come tali ci insegnano continuamente qualcosa. Whoolstorpe, Grantham, Parigi, Hannover rappresentano luoghi meravigliosamente simbolici di una cittadinanza colta, evoluta, illuminata. Leibniz è un filosofo che disperatamente tenta di superare ogni antitesi, è un armonizzatore di opposti; Newton è un polemista straordinario che persino sugli argomenti teologici confuta il senso comune.

Figure egemoniche in molti settori della ricchissima vita intellettuale d'Europa, ponti distesi tra mondo dell'altroieri e mondo di domani, Newton e Leibniz si somigliavano da diversi punti di vista, esteriori e di sostanza «perché erano uomini della stessa epoca, così come somigliavano l'uno all'altro sotto una varietà di aspetti personali, per la grande serietà e l'ampia gamma di interessi, perché non si sposarono mai... Ma nonostante ciò, nella struttura particolare del processo di cambiamento del pensiero cui essi diedero un contributo tanto importante, le differenze tra i due sono profonde. Leibniz non era al livello di Newton come scienziato sperimentale, Newton non era a livello di Leibniz come filosofo e rifiutava la metafisica e la meccanica teorica di Leibniz» spiega, con parole che non potrebbero essere più chiare, Hall.

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Pagina 107

3. Le ragioni della Ragione
I luoghi di Darwin e Marx



[...]

Diciassette miglia a sudest di Londra, la capitale europea dove dopo tanto girovagare in fuga Marx è sepolto nel cimitero di Highgate dentro a un maestoso sarcofago di granito di Cornovaglia innalzato nel 1956 in Swain's Lane, trovo invece la grande e fascinosa Down House. Ci visse un altro eversore dell'ordine costituito, più o meno nella stessa turbolenta stagione di Marx, essendo di soli nove anni più anziano: questa è la signorilissima casa di campagna ristrutturata con cura, alle propaggini del Kent, di Sir Charles Darwin , che in realtà nacque e trascorse altrove i primi ventisette anni della sua vita adulta. A Shrewsbury, circondata dal fiume Severn, dormiente contea inglese di Shropshire al confine col Galles. Down House è la magnifica residenza dello scienziato vittoriano giramondo calvo e barbuto che, in natura, provocò lo stesso terremoto progettato da Marx per la più instabile società degli umani. L'uomo dell'evoluzione e quello della rivoluzione accomunati, oltre che dalla contemporaneità e dalla scomoda vocazione eterodossa, dalla destinazione finale delle loro inebrianti vite ribelli.

Spunto che utilizza Ilona Jerger nel recente romanzo E Marx tacque nel giardino di Darwin, che immagina benissimo una cena (mai avvenuta) a Londra tra i due leggendari picconatori dello status quo ottocentesco, per qualche anno vicini di casa e di studio febbrile. Fu del resto Engels stesso, nel pronunziare l'orazione funebre dell'amico di sempre, ad azzardare un più che condivisibile parallelismo sibilando sicuro: «Il 14 marzo 1883, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell'epoca nostra... Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana...»

Ma è lo scandire del tempo a condizionare i due pensieri e a marcarne la differenza. Il proletariato infatti, nell'accezione di Marx, aspira ad annullarlo, confida nella fine della Storia dopo la presa definitiva del potere, con la conseguente cessazione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, con l'appropriazione del progresso, che conclude così trionfalmente il suo cammino luminoso. Il proletariato di Marx sigilla il termine finale del tempo e della Storia. Benché il Moro parlasse, con un'immagine poetica, di fine della preistoria.

Al contrario, la teoria darwiniana dell'evoluzione delle specie ha bisogno che il tempo non finisca. Guarda al passato, alle origini fondanti del mondo naturale. Le specie si diversificano nel corso del tempo, che non può finire il suo percorso, deve scorrere con lentezza abissale, pena il fallimento di una spiegazione materialistica della natura che sta rimuovendo inevitabilmente la creazione dalle sue cause. Le specie non transitano l'una nell'altra per saltum, ma con gradualità, per gradi insensibili di cambiamento. Darwin liberò tutta la pericolosità della sua idea iniziando a scrutare le forme di vita visibili e mostrando che le configurazioni della biosfera di oggi si spiegano come generate dal processo di selezione naturale a partire dalla biosfera di ieri. «Colui che comprende il babbuino contribuirà alla metafisica più di Locke» sintetizzò nei suoi diari.

Darwin non aspira ad alcuna salvezza, né di classe né di genere, osserva semplicemente quel che è accaduto per ricavarne una descrizione che confermi come sono andate le cose. Tutto discende da genitori che discendono da nonni e così via, sempre più indietro. Se Marx individua un fine, non solo una fine, nella Storia, Darwin è invece lungi dal credere a un disegno teleologico, opera di una mano ultraterrena, cui tendere. Teorie geniali di due scienziati che vollero entrambi modificare i paradigmi di comprensione del mondo, minarne le basi consolidate, venute alla luce in contemporanea e per lo più nello stesso luogo.

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Pagina 128

È una stanza quadrata, piuttosto piccola. Mi fanno notare che è rivolta a nord per un motivo preciso. Soltanto un'ora o due, di primo mattino, il sole disturbava il lavoro di Darwin. Che stava chiuso qua dentro in solitudine non meno di sei ore al giorno, tra esperimenti, disbrigo della posta, scrittura. Le alte finestrone riparate da pesanti tendaggi di lana carminio facevano filtrare la luce fredda, non brutalmente diretta, che Charles amava e riteneva adatta a esaltare i minimi dettagli delle sue osservazioni scientifiche. Anche se, in realtà, gli esperimenti non conoscevano confini di sorta. Si estendevano a tutta Down House. Poi la sera giocava volentieri a backgammon con Emma, spesso perdendo perché la sua mente era imprigionata altrove.

La scelta e il posizionamento degli arredi obbedivano esclusivamente a criteri pratici. Il tavolo di quercia pieno di pergamene, specimen, manoscritti è un Pembroke rettangolare di tipica manifattura inglese ottocentesca. Ingombro di penne, tagliacarte, forbici. Qui accanto un secondo tavolo ma tondo, a forma di tamburo e con tanti cassettini, protetto da uno spesso panno grezzo sulla superficie: ancora bottiglie, bottigliette, alambicchi e scatoline portapillole riempite di insetti di ogni genere. Sulla parete sud, la libreria vetrata racchiude parte di quella che fu la straordinaria biblioteca strettamente scientifica. Ma intravedo, impolverate, anche «le opre di Thomas Malthus , di Adam Smith e del botanico svizzero Augustin P. De Candolle sulle dinamiche popolazionali in fasi di scarsità di risorse, sul laissez-faire e sulla guerra tra specie rivali» di cui ci parla l'epistemologo Telmo Pievani nel suo Creazione senza Dio , scritto in difesa della teoria dell'evoluzione contro gli oscurantismi teo-con dei neocreazionisti.

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Quando scappa a Londra, la metropoli più grande e più sporca del mondo, il Moro ha da poco maturato e dato alle stampe a Parigi la sua Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (pubblicata però soltanto nel 1927, postuma), l'opera all'interno della quale compare la celeberrima critica della religione, da allora il Vangelo di ogni ateo irriducibile, l'indispensabile premessa di ogni rovesciamento dell'esistente. Nessuna critica può infatti essere avanzata se si considera vera la religione e posti da Dio l'ordine naturale e l'ordine sociale. In realtà l'uomo fa la religione, e non la religione l'uomo. La religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. La lotta contro la religione è dunque la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l' arma spirituale. Da qui le famose conclusioni, uno slogan divenuto litania abusata nei secoli: la religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è, insomma, l'oppio dei popoli.

Tutto questo mi viene in mente sfogliando l' Autobiografia di Darwin per scoprire che quasi nello stesso momento, clamorosamente, anch'egli maturò rischiosissimi (per l'epoca) pensieri laici, molto controcorrente. Parole cristalline, pronunciate senza alcuna enfasi tronfia, altro elemento di vicinanza, o per lo meno di forte analogia metodologica se non ideologica, con la teoria critica del Moro. Il naturalista va col ricordo agli anni tra ottobre 1836 e gennaio 1839, trascorsi a dondolare col Beagle sugli oceani intorno al globo e sublimati nelle meravigliose pagine del suo Viaggio di un naturalista intorno al mondo , che vedo esposto in un'edizione illustrata per ragazzi nel gift shop di Down House: «Durante quei due anni meditai molto sulla religione. Quando ero imbarcato sul Beagle ero di un'ortodossia perfetta e ricordo che parecchi ufficiali, nonostante fossero anch'essi credenti, mi derisero perché facevo appello alla Bibbia come a un'autorità inconfutabile su certe questioni morali... Ma già a quel tempo ero pervenuto, gradualmente, a rendermi conto come il Vecchio Testamento, per la sua storia del mondo così manifestamente falsa, con la Torre di Babele, l'arcobaleno come presagio... non meritasse più fede dei libri sacri degli indù o della credenza di qualsiasi barbaro». Seduto placidamente qui, nello studio di Down House, Darwin ricostruisce l'avventura delle sue idee con lo stesso spirito di un signore tedesco di non molto più giovane, ma ugualmente malandato e altrettanto secchione, che aveva spintonato lo status quo abitando meno di diciotto miglia più a nord, fra i teatri di Soho.

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Se anche non dimostrabile tramite reciproci rimandi e dirette influenze, adesso ai miei occhi di lettore viaggiante, mentre rimbalzo tra Soho e Down House, l'analogia degli scopi tra le due installazioni teoretiche, termine che preferisco a piattaforme perché dà un senso maggiore di permanenza, si rivela un pretesto potente per accomunarle. Marx e Darwin, con la riappropriazione l'uno dell'essenza umana che si libera dell'alienazione scuotendo tutte le gerarchie e l'altro dell'empirica evidenza del divenire naturale sottratto al fideismo, cancellano ogni superstizione miracolosa dall'orizzonte umano. Ed eccomi qui, nei luoghi dove è accaduto.

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4. Non solo in Inghilterra
I luoghi perduti di Wittgenstein



Dietro a un uomo straordinario stanno spesso nascoste vite veementi, talvolta insopprimibilmente votate all'infelicità. La sua lo è stata. «Era forse l'esempio più perfetto che io avessi mai conosciuto del genio così come tradizionalmente lo si immagina, appassionato, profondo, intenso e dispotico» lo fotografò con una squillante messa a fuoco Bertrand Russell, prima maestro e poi collega al Trinity College, nella sua monumentale autobiografia del '59.

Cominciamo dalla fine. La tomba di Ludwig Wittgenstein , un uomo che riuscì nella parentesi di una sola vita ad essere filosofo soldato maestro elementare giardiniere architetto e scultore, si mimetizza al bosco nel cimitero Ascension Parish Burial Ground di Cambridge. Lo vado a scovare un po' fuori città. E sulla desolata nudità di una lastra di pietra col suo nome, qualcuno poggia di tanto in tanto il modellino in legno di una scala. Metafora artigianale di un pensiero sempre in bilico sull'abisso. Ma anche perché è Wittgenstein che, alla fine del suo Tractatus logico-philosophicus , brucia ogni banale mediazione metodologica e sintetizza pragmatico: «Possiamo distruggere il mezzo che ci ha portato altrove dopo esserci arrivati».

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Pagina 160

Cambridge era la culla dell'intelligenza contemporanea europea e offrì intanto a Ludwig la possibilità d'entrare in contatto con i più alti ingegni del secolo: oltre a Russell e a G.E. Moore , frequentò il matematico Alfred North Whitehead e l'economista italiano Piero Sraffa , figlio di una facoltosa famiglia ebraica torinese, grande amico di Antonio Gramsci , corrispondente dall'Inghilterra per L'Ordine Nuovo. La svolta nel pensiero di Wittgenstein con la formulazione della nozione di "gioco linguistico" avvenne, per ammissione del filosofo stesso, proprio grazie all'influenza delle conversazioni con Sraffa, uomo molto eccentrico, negli anni Trenta a Cambridge. Dove l'economista insegnava già dal 1927.

I due trascorrono assieme almeno un pomeriggio a settimana discutendo del più e del meno. Fu nel corso di una celebre chiacchierata in treno che Sraffa convinse Ludwig a rivedere la teoria della forma logica delle proposizioni: facendogli il popolare e italianissimo gesto dell'ombrello (ma secondo qualcuno era il classico chissenefrega con le dita di una mano sfregate sotto al mento) gli domandò, infatti, di provare a illustrarne la forma logica... Intelligenza penetrante e sottile quella di Sraffa: dopo ogni discussione con lui, Wittgenstein ammetteva di sentirsi come un albero al quale siano stati tagliati i rami secchi.

Il 18 gennaio 1929 sarà Keynes a scrivere dal campus di Cambridge alla ballerina russa Lydia Lopokova, divenuta sua moglie nel 1925: «Mia cara, ebbene Dio è arrivato. L'ho incontrato sul treno delle 5.15. Ha in programma di restare a Cambridge in modo permanente... Ma non devo permettergli di parlarmi per più di due o tre ore al giorno».

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Pagina 203

Fu la scuola a deviare l'attenzione del filo- sofo dal linguaggio ideale al linguaggio reale, con il quale si fanno molte più cose che descrivere fatti. Furono gli anni dolorosi passati in Bassa Austria con i bambini, per i quali Wittgenstein fu una sorta di don Lorenzo Milani , a convincerlo della necessità di una svolta nel suo pensiero. Più tardi ribadita dagli incontri con Sraffa, al ritorno a Cambridge. Tanto che, nella prefazione alle Ricerche filosofiche, Ludwig sarà esplicito: «La mia gratitudine va alla critica che un insegnante di questa Università, P. Sraffa, ha per molti anni esercitato incessantemente sul mio pensiero. A questo stimolo sono debitore delle più feconde idee contenute nel presente scritto».

Il significato delle parole sta insomma nascosto nel loro uso, nella molteplicità degli usi, nei giochi linguistici specifici della forma di vita umana comunitaria. Perciò bisogna riportare il linguaggio alla quotidianità nella quale i parlanti s'intendono, inabissandolo quaggiù dalla rarefatta idealità delle condizioni astratte della logica. Questi i concetti faticosamente elaborati nelle Ricerche filosofiche: l'abbandono della corrispondenza tra la forma delle proposizioni e la struttura del mondo dei fatti. Ludwig maturò un profondo cambio di paradigma, da coraggioso speleologo solitario nei labirinti del linguaggio: il mondo non vi si rispecchiava più, la prospettiva da logica diventava quasi antropologica. Il senso, ora, viene attribuito al linguaggio dall'uso delle parole. L'importante sarà non pretendere di usare il linguaggio della religione, ad esempio, per rispondere alle domande della scienza. Resta però una parentela importante tra primo e secondo Wittgenstein: l'atteggiamento antimetafisico. La filosofia non si svolge lontana dalle vite concrete e dalle modalità comunicative tra gli individui in carne e ossa.

[...]

La casa è sempre autobiografia, segno del tempo anche quando è luogo disertato, lasciato. Dà voce a un mondo, anche quando diventa muto, quando è stato un fugace fondale provvisorio. È sinonimo di patria perché le case sono spugne che assorbono i gesti di chi le abita. Ogni casa produce memoria, qualcosa di immateriale eppure concreto, esperito. È luogo iniziatico, è sintesi come nient'altro. Dove vivi ogni giorno, quello è ciò di cui vivi. Per questo il "mio" Wittgenstein trova la sua identità vera in certi luoghi indiscutibilmente wittgensteiniani. Il più wittgensteiniano di tutti è per me la casa cubica, razionale, perfetta in Kundmanngasse 19 a Vienna, costruita in cemento e cristallo per la sorella Margarethe Stonborough-Wittgenstein.

[...]

Qui si sviluppa il se stesso senza finzioni del filosofo-architetto, il suo anticonformismo, la scelta della profondità contro l'abitudinario e il superficiale. Qui non prende forma su pagina un pensiero, qui un pensiero addirittura si incarna nello spazio. In questa grande villa suburbana aristocratica, inserita però in un quartiere non lussuoso della Vienna orientale vicino al Donaukanal, il canale del Danubio, serpeggiante lì in fondo alla Parkgasse. Questa casa è un momento di continuità musicale della ricerca filosofica e dell'elaborazione scientifica di Wittgenstein e dunque nulla ha a che vedere con la semplice disciplina architettonica, è pensiero sotto altra forma. Dove il massimo del lusso consiste nella sua stessa autodistruzione. Perché la sparizione di ornamenti è sinonimo di concisione di scrittura, è creazione di un meccanismo di austerità logica.

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La congrega dei Dodici (naturalmente) di Cambridge è sinonimo di amicizia indissolubile, affinità elettive, conversazioni dotte, modi trasgressivi, emancipazione dalle regole, gusto per il dibattito delle idee, la filosofia, l'arte e perché no: la sodomia. Perché l'atmosfera è intrisa di omosessualità. Uno strumento perfetto per scardinare i moralismi di un'educazione vittoriana ricevuta da famiglie che, a fine Ottocento, hanno ossequiato istintivamente le convenzioni del perbenismo e del pudore. Keynes e Lytton Strachey, il sodale di sempre, ottavo di dieci figli, costruirono persino una dottrina etica denominata della "Suprema Sodomia", fondata sulla convinzione che l'amore per i giovani uomini fosse moralmente superiore a quello nei confronti delle donne. Stravaganze, ma nemmeno tanto per l'epoca e l'ambiente, se consideriamo che anche Margaret e Geoffrey, sorella e fratello di Maynard, erano serenamente e felicemente bisessuali.

Maynard è comunque un socialite ante litteram, familiarizza con qualunque decadente conventicola profumi di anticonformismo o di introversione elitaria. Le riassume bene Alain Minc in Diavolo di un Keynes quando ne elenca una incredibile lista: «La Walpole Debating Society, i Decemviri, un club di raccordo con il Trinity College, l'Apennin Society, il non plus ultra letterario, il Liberai Club, primo punto di riferimento politico, la Lower Dickinson Society, il Baskerville Club, porto dei bibliofili, lo Union, tempio dell'eloquenza universitaria... Keynes è dappertutto».

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In poco tempo Keynes diventa talmente influente da offrirsi addirittura di far liberare in anticipo dalla prigionia di Cassino, nel 1918, il vecchio amico Wittgenstein, il quale però rifiuta orgogliosamente ogni trattamento di favore.

Wittgenstein fa irruzione nella vita di Keynes a Cambridge esercitando immediatamente un fascino durevole, una potente seduzione sul maggiore economista del Novecento, sul rivoluzionario sostenitore dell'incremento della spesa pubblica nei periodi di disoccupazione, sul tecnico che prima di ogni altro diffiderà delle capacità riformatrici del mercato lasciato a se stesso. E così Maynard, per la prima volta in vita sua, associa al suo raffinato consorzio intellettuale un uomo finalmente considerato alla sua altezza. Anzi, forse persino superiore. L'unico all'altezza, tra tutti quelli della sua generazione che gli bazzicano attorno. Ludwig è brillantissimo, non convenzionale, capriccioso, impossibile non provare un debole per quell'austriaco magnetico il cui pensiero è destinato ad avere immensa influenza sulla filosofia del Novecento che sta cominciando.

Wittgenstein è pane non azzimo, ma anzi gustosissimo per i denti di Maynard, è quel che ci vuole per il suo palato dissacratorio. Soddisfa al volo il suo amore istintivo per l'insolito, per l'eccitante. Solo che Keynes è molto mondano e diventerà sempre più ricco e mediaticamente sovresposto, Ludwig invece è ascetico, rude e selvatico, sappiamo che cerca l'isolamento in luoghi sperduti per sottrarsi alle sirene del mondo. Convinto, l'abbiamo visto bene, che l'esercizio del lavoro filosofico debba operare una trasformazione profonda nella biografia, nella vita reale di chi lo pratica.

[...]

Parlare dell'amicizia tra Ludwig e Maynard serve a capire meglio le qualità rare di quest'ultimo. Che non fu semplicemente un economista, ma invece un sofisticato intellettuale che in un ambiente come quello di Cambridge, nella straordinaria congiuntura di un periodo magico, seppe assorbire come una spugna l'essenza di una formazione senza eguali: filosofica, storica, letteraria, logica e soprattutto umana e umanistica. Buona parte della grandezza di Keynes spiove direttamente da un eclettismo fuori dal comune. In lui l'economia non è rigida formalizzazione matematica, profluvio di formule astratte, simboli aridi, equazioni scolastiche. Ma ampiezza di visione, spiegazione brillante e desiderio di governo delle dinamiche, attraverso diagnosi e ricette né monotone né, tantomeno, scontate. L'immagine del mondo di Maynard è polimorfica, complessa, spregiudicata. Il suo genio teorico antispecialistico si alimenta di curiosità intellettuale trasversale. E non avrebbe certo potuto avere l'incidenza che ha avuto nella storia del Novecento se fosse stato "solo" un economista. Nel 1924 in Sono un liberale? spiega lui stesso con la chiarezza dell'acqua di fonte che cosa intenda per economia e per economista: «L'economia è una materia facile in cui però pochissimi eccellono. Il paradosso trova una spiegazione forse nel fatto che il grande economista deve possedere una rara combinazione di qualità. Deve raggiungere una certa perizia in svariati ambiti e coniugare doti che raramente si trovano nella stessa persona. Deve essere, in una certa misura, un matematico e uno storico, uno statista e un filosofo...»

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[...] Il coraggio di una rivoluzione morale copernicana che non smette di esercitare forza d'attrazione sulle nostre vicende contemporanee. L'intelligenza lungimirante che, in qualità di rappresentante del Tesoro britannico alla conferenza dei vincitori a Versailles nel 1919, lo guidò nell'intuire i pericoli di un accanimento contro la Germania uscita distrutta della Grande Guerra. Le conseguenze economiche della pace, la lucidissima analisi che un uomo di trentasei anni scrive pensando all'arrogante ingiustizia d'infliggere insopportabili sanzioni economiche agli sconfitti, ci parlano un linguaggio di formidabile attualità. Ci dicono, cent'anni prima delle disastrate cronache del presente europeo, che gli egoismi punitivi sono sempre armi letali e ottuse puntate contro la pace. Maynard lo pubblica a sue spese, le prime duemila copie vanno perdute nel naufragio della nave che le trasporta a Londra da Edimburgo, poi ne saranno vendute sessantamila in due mesi, centoquarantamila in cinque anni.

Scrive Maynard nel capitolo introduttivo dell'opera, risultando profetico ai limiti dello sciamanismo perché sembra davvero di leggere i commenti sui giornali di stamattina distillati cent'anni prima: «La capacità di abituarsi alle circostanze è un tratto spiccato del genere umano. Ben pochi di noi si rendono conto appieno del carattere fortemente insolito, instabile, complicato, incerto, temporaneo dell'organizzazione economica con cui l'Europa occidentale è vissuta nell'ultimo mezzo secolo. Consideriamo naturali, permanenti, sicuri, alcuni dei più singolari e temporanei nostri vantaggi recenti, e ci regoliamo nei nostri piani di conseguenza. Su questa base precaria e ingannevole progettiamo miglioramenti sociali e allestiamo piattaforme politiche, coltiviamo le nostre animosità e le nostre particolari ambizioni, e pensiamo di disporre di un margine bastante per fomentare, anziché mitigare, il conflitto civile nella famiglia europea».

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E poi c'è naturalmente la Teoria generale , pensiero politico-economico controcorrente che oppone ai tecnicismi e ai monetarismi dogmatici una visionaria soluzione alle povertà, alle crisi economiche brutali («Il mercato può rimanere irrazionale più a lungo di quanto tu possa rimanere solvibile»), ai capitalismi di ogni latitudine e a ogni ragionieristica, animalesca crudeltà («I mercati sono mossi da spiriti animaleschi e non dalla ragione»). Pur essendo Keynes un convinto liberale, critico nei confronti della dottrina liberista smithiana del laissez-faire puro, ma non un eversore marxista dell'ortodossia mercantile: «Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi» scrive nel saggio del 1933 Autosufficienza nazionale.

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6. Nella Foresta Nera
I luoghi di Heidegger e Arendt



[...]

A sud della tedesca Friburgo sgomitano altre due nazioni, Svizzera e Austria. Geografia di confine. Proprio come il pensiero di Heidegger , c'era un prima e c'è un dopo di lui. C'è un lungo cammino della filosofia verso la Modernità e poi qualcosa si rompe. Serviva compiere una Kehre ontologica; una svolta intellettuale, un riordinamento rispetto alla metafisica occidentale che secondo il Mago di Messkirch non sapeva più pensare l' Essere. E che è nichilismo, dominio della Tecnica, oblio dell'Essere appunto, dimenticanza dell'origine, addirittura dimenticanza della dimenticanza.

È un nuovo inizio sensazionale. Un nuovo orizzonte critico. Quella che diverrà famosa come analitica esistenziale di Heidegger, o anche ma meno correttamente esistenzialismo, la grande sfida alla storia del pensiero, scardina con un colpo di maglio l'idea di soggetto consegnataci dalla tradizione occidentale. Estirpa l'uomo dalla sua centralità astratta, distrugge al tempo stesso Cartesio, la contrapposizione tra "dentro" e "fuori". Demolisce il pensare abituale, il classico impianto della metafisica e della teoria della conoscenza: basta con un soggetto che sta di fronte a un oggetto esterno dei sensi, noi siamo già da sempre immersi nel mondo, lo pre-comprendiamo, non è altro da noi. Il soggetto viene rimesso "coi piedi per terra". Non è più il soggetto isolato dell'idealismo, è un Esserci, è un'entità esposta al mondo.

I nuovi ermetici, traumatici, certamente complicati concetti heideggeriani, espressi in una lingua altrettanto nuova ed ellittica proprio per rendere dicibile il sottrarsi radicale dal linguaggio della metafisica, si rivelano così di colpo i più potenti strumenti filosofici per la ricerca del senso delle nostre concrete esistenze individuali. Ovvero di quell'ente mortale, gettato nel tempo, secondo il nuovo lessico coniato dal figliolo del bottaio, che è l'uomo. Ogni uomo. E per indicare l'importanza del cammino filosofico da percorrere per affidare un nuovo compito al pensiero, molto più importante rispetto alla fissità dei risultati finali da raggiungere, Heidegger usò la formula poetica «Wege - nicht Werke», per l'appunto cammini e non opere.

Il Dasein o l' Esserci, la nostra singola esistenza, va colto nella sua quotidianità irriducibile. Va dunque messa a nudo la sua temporalità, in questo modo la riflessione viene liberata da ogni pretesa di verità eterna. L'opera di Heidegger, la sua difficile ontologia rivoluzionaria, si allontana da qualunque orizzonte o protezione trascendente. Conferisce una radicale immanenza concreta, non religiosa, al senso della vita. Questo evento è un autentico trauma filosofico, un terremoto che destabilizza in modo irreversibile la filosofia.

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Ancora più curiose, però, alcune coincidenze sottolineate da un professore americano come Lee Braver nel suo Groundless Grounds. A Study of Wittgenstein and Heidegger pubblicato da MIT Press. I due più importanti e oscuri filosofi del Novecento non condividevano solo la lingua. Entrambi provenivano da ambiti diversi rispetto alla filosofia: l'ingegneria Ludwig, il seminario teologico e la vicinanza al clero cattolico Martin. Entrambi ebbero grandi maestri, come Bertrand Russell e Husserl, che entrambi vollero superare. Entrambi scrissero il libro della vita negli anni Venti, il Tractatus ed Essere e tempo. Entrambi inventarono linguaggi enigmatici per esprimere il loro filosofare. Ed entrambi, infine, scelsero l'isolamento antiaccademico in capanne remote.

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La Arendt , la filosofa ebrea che nel 1963 raccontò al mondo ne La banalità del male il processo di Gerusalemme al gerarca nazista Adolf Eichmann, era nata a Hannover nel 1906, un'epoca che il narratore Stefan Zweig da lei detestato ha definito «l'età dorata della sicurezza», ma la sua famiglia si trasferì presto con lei in Tiergartenstrasse, sulla strada per il giardino zoologico nel quartiere di Hufen, dove si trovavano le più belle ville di Königsberg. La capitale mondiale dell'ambra, fondata al galoppo nel Medioevo in Prussia orientale dalla cavalleria dell'Ordine Teutonico. «Nel castello in cima alla collina "erano stati incoronati tutti i re di Prussia» ricorda Jan Brokken in Anime baltiche. Nel 1920 Martha Cohn, la mamma di Hannah rimasta vedova, si risposò con Martin Beerwald, un ricco ferramenta, e la famiglia traslocò in Busoltstrasse, a soli due isolati da Tiergarten.

«Situata contemporaneamente sul mare e su un fiume, ottima per il commercio marittimo e per la ricerca di terre lontane. Una città come Königsberg è il luogo adatto per l'estensione delle conoscenze dell'uomo e del mondo» secondo lo spot campanilistico inviato a posteri e contemporanei nell' Antropologia dal punto di vista pragmatico, l'ultima opera pubblicata in vita, da Kant stesso. Il più celebre degli abitanti di quello che, dal 1945, è lo spicchio più occidentale di tutte le Russie. Il genio idealista, criticista, figlio di un sellaio, che qui ha insegnato per decenni all'università Albertina e qui ha la sua tomba (1724-1804), sotto al porticato roseo di un mausoleo esterno conficcato all'angolo nordest della cattedrale, sull'isola di Kneiphof, naturalmente ribattezzata Isola di Kant.

Alle spalle dell'edificio svettano in lontananza sfilze di anonimi casermoni color cemento e tutti alti uguali. L'epitaffio accanto al sepolcro riporta scritta in due lingue, tedesco e russo, una celebre frase del filosofo della ragione: «Due cose hanno soddisfatto la mia mente con nuova e crescente ammirazione e soggezione e hanno occupato persistentemente il mio pensiero: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me».

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Ma non c'è probabilmente esistenza filosofica altrettanto avvinghiata a un paesaggio fisico, così radicata in una cartografia molecolare, miniaturizzata nei suoi confini millimetricamente definiti, come quella di Heidegger. Non significa protettivo ancoraggio al mondo arcaico-contadino, non è mai stato vagheggiamento antimoderno. La baita da sci di Todtnauberg, la Foresta Nera non sono né rinuncia nostalgica, rurale, né chiusura provinciale; non significano grettezza paesana, angusto limite rustico, oscurantismo impaurito e retrogrado. Ma legame ontologico, Heimat, geografia che mostra a se stessa un pensiero e pensiero allacciato a una zolla geografica; sfondo materiale di un filosofare che sa custodire e dire un misterioso sapere soltanto perché quei sentieri, quelle radure, quei boschi di smilze conifere secolari ne permettono l'esperienza, lo scaturire.

Il luogo nel quale Heidegger svolge il suo lavoro somiglia, semplicemente, a un destino. Suolo dove affondano le radici. È elemento chimicamente indispensabile all'aprirsi di un mondo metafisico. Cornice autentica di autenticità: solo a Todtnauberg si schiudono domande capaci di oltrepassare la chiacchiera vuota. Perché l'universalità appartiene alla particolarità di una terra, ne deve per forza abitare i confini. Luoghi e idee condividono il setting, pensare e abitare coincidono. Todtnauberg, la baita, è dunque molto più un evento filosofico che architettonico. Rappresenta, al tempo stesso, un punto sulla mappa della foresta e una pratica filosofica.

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7. Le dieci case della nobiltà di spirito
I luoghi di Mann



[...]

Ho intuito solo da fuori la casa di Pacific Palisades, fasciata e protetta com'è da un verde esuberante.

[...]

Lì dentro fra il 1943, era una domenica di maggio, e l'ottobre del 1947 è nato il Doctor Faustus. Capolavoro demoniaco nel quale il mondo ha riconosciuto i segni dell'eterna battaglia del bene contro il male totalitario. E del patto mefitico dell'Uomo con le forze notturne, ctonie, irrazionali dell'Esistere. Lì terminò nel 1942 il lavoro sul Giuseppe, lì fu scritto L'eletto.

[...]

Traversando con comprensibile timore adolescenziale l'ampio Wohnzimmer della villa, il soggiorno verandato a pianoterra con la spettacolare parete a vetri di portefinestre spalancata sul giardino, una domenica del 1947, quasi per gioco, una ragazzina americana di quattordici anni destinata alla celebrità bussa all'abitazione californiana del Mago. Susan Sontag fu la protagonista di un incontro per lei indimenticabile, traboccante d'emozione chimicamente pura, e quarant'anni dopo, nel 1987, ne scrisse nel più autobiografico dei suoi brevi racconti: Pellegrinaggio. Titolo emblematico di un'esperienza vissuta come estasi religiosa: «Una bambina imbarazzata, appassionata, intossicata di letteratura, e un dio in esilio che viveva in una casa a Pacific Palisades». La Sontag, in rapide pennellate impressionistiche, ci descrive lui, Mann, e quel che della leggendaria dimora colpì lei e Merrill, l'amico coetaneo che l'accompagnava. «Vidi la stanza - sembrava spaziosa e aveva una grande finestra con una gran vista - prima di rendermi conto che c'era lui, seduto dietro un tavolo massiccio, scuro e decorato. Katia Mann ci presentò. Ecco i due studenti, gli disse, riferendosi a lui chiamandolo dottor Thomas Mann; lui annuì e pronunciò qualche parola di benvenuto. Indossava una cravatta a farfalla e un abito beige, come sul frontespizio della sua raccolta di saggi... Era seduto in posizione molto ritta e aveva l'aria di essere molto vecchio, vecchissimo. Difatti aveva settantadue anni...»

Poi lo sguardo della Sontag bambina si allarga, incuriosita dal lussuoso antro creativo del Mago che la osserva, avvolto dalle lente volute di fumo dell'ennesima sigaretta: «All'inizio avevo visto soltanto lui, la soggezione per la sua presenza fisica mi rendeva cieca al contenuto della stanza. Ora cominciavo a vedere di più. Per esempio quel che si trovava sul tavolo piuttosto ingombro: penne, calamaio, libri, fogli, e una serie di piccole fotografie in cornici d'argento che vedevo da dietro. Tra le molte immagini dalle pareti, riconobbi soltanto una fotografia autografata di F.D.R [Franklin Delano Roosevelt, il presidente in carica degli Stati Uniti] in compagnia di qualcun altro - mi sembra di ricordare un uomo in uniforme. E libri, libri, libri negli scaffali che coprivano due pareti fino al soffitto... Come mi aspettavo, quasi tutti i libri erano tedeschi, per lo più ordinati secondo le collane, rilegati in pelle... I pochi libri americani, tutti d'aspetto recente, erano facilmente riconoscibili nelle loro copertine vivide, patinate...»

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