Copertina
Autore Remo Ceserani
Titolo Convergenze
SottotitoloGli strumenti letterari e le altre discipline
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2010, saggi , pag. 200, cop.fle., dim. 14,6x21x1,2 cm , Isbn 978-88-6159-491-3
LettoreElisabetta Cavalli, 2011
Classe storia letteraria , teoria letteraria , scienze naturali , scienze sociali , scienze umane , filosofia , storia , diritto , economia
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Indice


   1  Introduzione


  22  1. Filosofi

  37  2. Matematici

  47  3. Fisici e chimici

  63  4. Biologi

  78  5. Antropologi e paleontologi

  92  6. Storici e geografi

 108  7. Economisti

 115  8. Medici

 130  9. Psicologi, neuroscienziati e cognitivisti

 141 10. Giudici, avvocati, esperti nel determinare
         colpe e punizioni


 165 Conclusioni provvisorie

 170 Bibliografia

 192 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 1

Introduzione

Letteratura, altre culture, altri linguaggi: una situazione contraddittoria


La situazione mi sembra contraddittoria e quasi paradossale: da una parte si deve constatare che la letteratura tende a perdere la tradizionale posizione di prestigio goduta a lungo nelle nostre società (e nei nostri programmi scolastici); che la teoria letteraria sembra aver sostituito a concezioni rigide e assolute concezioni più sfumate e relativistiche; che la critica letteraria ha perso molte delle sue certezze mettendo in discussione i quadri di valore (e i canoni tradizionali); che lo stesso concetto di letteratura si va trasformando in altri meno rigidamente delimitati: l'immaginario, i mezzi di comunicazione, i vari strumenti espressivi, le molteplici forme della cultura. Per contro, si assiste a un notevole, a volte azzardoso, interesse per i testi e le modalità della letteratura da parte degli studiosi di parecchie altre discipline: gli storici non esitano a usare i testi letterari come documenti per la ricostruzione delle società del passato e prestano una nuova attenzione all'impianto retorico e narrativo dei loro racconti; i filosofi, preferendo le forme saggistiche o aforistiche ai grandi trattati sistematici, si avvicinano sempre di più alle scritture tipiche della letteratura e si impegnano in esercizi ermeneutici non molto diversi da quelli di certa critica letteraria; gli scienziati non disdegnano di ricorrere a metafore e immagini per rappresentare metodi e risultati dei loro esperimenti e delle loro ricerche; gli studiosi del diritto ricorrono agli strumenti dell'indagine retorica e narratologica per ricostruire avvenimenti, analizzare testimonianze, o agli strumenti della psicologia per comprendere motivazioni e azioni dei personaggi sotto giudizio e valutare colpe e punizioni. E così via.

Nascono in molti paesi associazioni che si occupano dei rapporti fra scienza e letteratura, filosofia e letteratura, medicina e letteratura, legge e letteratura ecc. Un'mportante studiosa del rapporto fra la cultura scientifica dell'Ottocento (in particolare l'opera di Darwin) e la cultura letteraria dell'età vittoriana, la professoressa di Cambridge Gillian Beer, ha collegato, in un libro dal titolo significativo di Open Fields (Campi aperti), il rapporto fra scienza e letteratura e fra le varie discipline e i vari campi del sapere e gli attraversamenti tra una disciplina e l'altra («a volte territori aperti, altre volte raggiungibili passando tornelli o abbassandosi sotto il filo spinato finendo graffiati dai rovi») con l'atmosfera culturale oggi dominante, caratterizzata da aperto confronto e reciproco arricchimento fra culture, discipline, lingue:

Gli incontri culturali non avvengono solo fra persone di diversa origine etnica, ma anche fra attività svolte in una data società, identità sessuali, gruppi professionali, specializzazioni di qualsiasi tipo. Appassionati di treni, mamme, astronomi, cavallerizzi hanno ciascuno le loro conoscenze particolari e il loro vocabolario specializzato, ma nessuno di loro vive soltanto come appassionato di treni, mamma, astronomo o cavallerizzo. Ciascuno trae ispirazione dall'esperienza del momento storico in cui vive, dalla base materiale, dai mezzi di comunicazione, dalla comunità di cui fa parte. (Si può addirittura trattare della stessa persona, magari molto indaffarata). Queste molteplici posizioni soggettive comportano che i rapporti non costituiscono mai un unico sistema: ciò che può essere percepito come proiezione secondaria e slegata con il resto può risultare invece essere parte di un percorso appartenente a un'altra connessione. (Beer 1996, p. 1)

Non tutti gli studiosi vedono con così aperta approvazione e con così forti speranze per il futuro il rapporto fra le discipline, in particolare fra quelle scientifiche e quelle umanistiche. Tutti ricordiamo il duro pamphlet pubblicato nel 1959 dal fisico e romanziere inglese C.P. Snow The Two Cultures (Le due culture), in cui veniva denunciato il distacco abissale fra la cultura umanistica e quella scientifica e in particolare veniva rimproverato agli umanisti di ignorare, in grande maggioranza, la seconda legge della termodinamica. Si trattava, come è apparso chiaro negli anni seguenti, di un modo troppo drastico di operare divisioni culturali, un'operazione con l'accetta. Lo sviluppo dei sistemi accademici nel mondo globalizzato, e delle forme di finanziamento per la ricerca e le strutture didattiche, ha messo in rilievo una distinzione più profonda, e più pericolosa: da una parte le scienze umane e le scienze dure, di pura ricerca, dall'altra le applicazioni tecnologiche e le specializzazioni professionali.

Molti probabilmente ricordano anche, a proposito dei rapporti fra le discipline, un intervento, al convegno annuale della Modern Language Association d'America del 1989, in un dibattito diretto dalla presidentessa Herrnstein Smith, del noto (e come sempre provocatorio) professore di retorica e letteratura Stanley Fish, in cui era sostenuto con ragioni abbastanza capziose che l'idea allora di moda della interdisciplinarietà era praticamente inattuabile. In realtà l'argomentazione di Fish (1989), ispirata a un radicale pragmatismo, era rivolta polemicamente contro una serie dì prese di posizione di colleghi allineati in gran parte politicamente a sinistra (o a destra, su linee di conservazione estrema) e aveva come scopo di denunciare le contraddizioni logiche di coloro (decostruzionisti, post-strutturalisti, neo-storicisti ecc.), i quali sostenevano riforme dell'apparato accademico americano e attribuivano alla rottura delle gabbie disciplinari una forza di liberazione dalle pastoie della tradizione e una capacità di fondare una nuova pedagogia e una nuova cultura. Essi partivano, secondo lui, da premesse apparentemente rivoluzionarie ma nella sostanza distruttive e nichiliste. La sua posizione, espressa in nome del buon senso, risulta alla fine assai meno radicale di quella affermata nel titolo del suo discorso e nel passaggio centrale: «L'interdisciplinarietà non solo è difficile, ma è impossibile da praticare» (1989, pp. 244-45). Il suo scopo era di salvare l'assetto disciplinare oggi dominante, senza escludere che ci possano essere rapporti, anche intensi, fra le discipline ed eventuali diversi equilibri nel corso della storia:

In anni recenti delle illazioni illegittime sono state tratte da una tesi legittima. La tesi è che le discipline non sono delle entità naturali; esse prendono forma in seguito alla costituzione, su iniziativa politica, del campo delle conoscenze. L'illazione illegittima è che, siccome i confini disciplinari sono costruiti e modificabili, non sono reali. Ma naturalmente sono reali così come ogni altra cosa in un mondo in cui ogni cosa è costruita [...]; se è vero che le linee di demarcazione che separano una disciplina dall'altra possono col tempo sfumare ed essere trasformate, finché ciò non avviene la sistemazione attualmente in vigore produrrà delle differenze fortemente sentite da tutti coloro che operano all'interno di quei confini. E mentre è sicuramente vero che le discipline non hanno un loro nocciolo essenziale (altro modo per dire che non sono entità naturali), l'identità loro conferita da una struttura di rapporti – una struttura in cui ogni elemento è riconosciuto per quello che esso non è – costituisce (per quanto temporaneamente) un nocciolo che si comporta in un modo che ogni essenzialista potrebbe desiderare, compreso quello di comunicare a tutti i membri che fanno parte della disciplina ciò che è consentito e non consentito dalla pratica che la caratterizza. [...] Essendo il nocciolo di una disciplina il risultato di un movimento storico, esso è capace di modificazioni, ma in quanto risultato di storia esso esercita, anche solo temporaneamente, una forza che non può essere ignorata o considerata inesistente. (Fish 1989, p. 247)

Una volta esclusa la possibilità che il progetto interdisciplinare abbia come effetto di «liberare conoscenza dalle costrizioni del pensiero e aprire le menti di coloro che lo mettono in pratica», Stanley Fish ammette che ci siano vari aspetti positivi nel rapporto fra le discipline. Egli stesso trova molto interessante ciò che avviene quando da una disciplina vengono esportati in un'altra metodi e suggerimenti (lui, fra l'altro, insegna contemporaneamente nella Facoltà di Giurisprudenza e nel Dipartimento di Inglese):

Non c'è nulla di sconveniente in attività come queste [l'assorbimento del modello psicoanalitico nello studio letterario, per esempio]. Entro i limiti degli interessi di ciascuna particolare disciplina e della consapevolezza di ciò che richiede la situazione, le ambizioni imperialistiche di essa possono corrispondere proprio a quanto hanno prescritto i dottori; e può benissimo capitare che, da un certo punto di vista, certe discipline tradizionali abbiano esaurito i loro compiti e sia giunto il tempo di fondarne una nuova. (Fish 1989, p. 248)

Alla provocazione di Fish hanno risposto in tanti. Fra gli interventi più significativi direi che vanno considerati quelli di Giles Gunn e quelli, molto ampi e coerenti, di Julie Thompson Klein. Il primo, professore di Inglese e Studi internazionali e globali all'Università della California a Santa Barbara, si è occupato a più riprese della questione, sostenendo, in polemica diretta con Fish, che il progetto interdisciplinare non è limitato alla costruzione della conoscenza né alla ricerca di particolari verità (epistemologia), né si propone necessariamente di "aprire" o "liberare" le menti dei suoi praticanti.

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Pagina 9

Tenendo conto di tali questioni e dibattiti, ma guardando anche a una serie di problemi più ristretti e specifici, mi occuperò in questo libro di alcuni fenomeni che si sono manifestati da qualche tempo nella situazione culturale in cui viviamo, e che possono apparire sorprendenti: molte discipline e campi del sapere, anche quelli che dovrebbero essere più chiusi e delimitati nel loro mondo specialistico e nel loro linguaggio tecnico (la matematica, la biologia, la fisica, le scienze naturali, ma anche la filosofia, la storia, la geografia, l'antropologia), e a maggior ragione quelli più legati alle attività umane, anch'essi spesso trincerati dentro le loro metodologie è terminologie (la medicina, le attività giuridiche), mostrano un bisogno molto forte di interloquire fra di loro e con il mondo della letteratura, cercano di esprimersi con il linguaggio della tradizione letteraria, di prendere a prestito metafore e forme di racconto.


E nel campo della teoria dei linguaggi e della letteratura che cosa succede? Sembra ormai lontanissimo il tempo in cui le teorie letterarie dominanti negli anni sessanta-ottanta (il formalismo, lo strutturalismo) erano quasi esclusivamente concentrate sul testo e sulle sue qualità specifiche e affidavano alla critica il compito esclusivo di analizzarne e interpretarne i molti strati ed eventualmente le ambiguità, considerando una deviazione (una fallacy) qualsiasi interesse per il contesto storico, sociale, biografico, ideologico che con il testo potesse essere in qualche modo collegato. Il punto più alto e rigido di quell'impostazione teorica si è avuto nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, fin verso gli anni ottanta. Poi sono cominciati i movimenti in direzione opposta e ormai si è giunti a un totale ribaltamento delle posizioni.

I nuovi movimenti si sono prodotti in rapida successione, sono stati molto numerosi e differenziati fra di loro: mentre alcuni hanno spostato l'attenzione dal testo al lettore, altri, sempre più vigorosi, l'hanno spostata dal testo al contesto. I primi sono stati i numerosi teorici (da Nelson Goodman a Timothy Reiss a Pierre Bourdieu) che hanno sottoposto ad analisi critica l'idea, che negli ultimi due secoli era stata a lungo quasi un postulato negli studi di estetica, che l'opera d'arte, e quindi anche il testo letterario, sia caratterizzata da un valore differenziante e intrinseco rispetto ad altri prodotti dell'immaginazione umana. Poi sono venuti i neostoricisti di Berkeley che, ispirandosi all'archeologia culturale di Foucault, all'antropologia di Geertz, alla storia sociale delle "Annales", alla tradizione warburghiana, hanno cominciato a rivisitare i testi letterari della tradizione (Shakespeare anzitutto, ma anche la grande narrativa dell'Ottocento e poi via via molte opere di epoche diverse, e accanto a esse i testi della tradizione figurativa), mettendoli di volta in volta in collegamento con le memorie e i documenti della colonizzazione, con le forme dell'organizzazione sociale, con il progresso tecnico.

Poi sono venuti i cosiddetti studi culturali, che hanno portato con sé una forte accentuazione degli aspetti tematici e ideologici del testo letterario, dando grande importanza ai temi dell'identità sessuale, della specificità femminile, di quella omosessuale, di quella etnica. In seguito altri modelli di studio letterario si sono via via sviluppati, tutti rivolti a mettere in rilievo il rapporto fra testo e contesto: così, per esempio, gli studi sul rapporto fra letteratura e tecnologia (il tema del treno nella letteratura, quello dell'automobile, dell'aeroplano, dei vari mezzi di comunicazione: la radio, il telegrafo, il telefono, la televisione); oppure gli studi sui rapporti fra letteratura e cultura visuale, recuperando i metodi e gli interessi della scuola di Warburg; o ancora gli studi sui rapporti fra letteratura e cinema, letteratura e musica, letteratura e teatro.

La situazione, come ormai è stato denunciato da molti (e da ultimo nel libro pieno di passione e pessimismo di Mario Lavagetto intitolato significativamente Eutanasia della critica), non è tra le più rosee. I critici e gli studiosi che se la passano peggio, secondo me, sono quelli che hanno scelto di chiudersi nella dimensione ristretta di una specializzazione e di una scuola e metodologia: i puri filologi, per esempio, o gli ultimi adepti della semiotica letteraria, o quelli che praticano una metodologia psicoanalitica chiusa e asfittica (concentrata sull'autore più che sul testo) o i seguaci di una sociologia letteraria attenta quasi solo ai fatti statistici (strategie editoriali, composizione del pubblico, best-seller di buona o cattiva qualità ecc.).

Forse è addirittura possibile recuperare la distinzione, proposta a suo tempo — certo, allo scopo di difendere l'autonomo valore estetico di alcuni grandi testi della tradizione e tenerli separati dal grande mare delle altre scritture, pur se retoricamente elaborate — fra poesia e letteratura, come è stata teorizzata nel volume La Poesia (1936) da un maturo Benedetto Croce e ripresa, con fine applicazione ai problemi dei generi letterari, della critica stilistica, dello stile specifico di alcuni poeti-filosofi o filosofi-poeti come Vico o Leopardi, da Mario Fubini.

Ho ritrovato questa distinzione fra poesia e prosa, poeta (Dichter) e scrittore (Schriftsteller), e quindi fra testo creativo, dotato di bellezza e dedito alla contemplazione lirica del mondo, e testo ben scritto, attraente alla lettura, dotato di originalità di pensiero e forza stilistica, ma inevitabilmente limitato a tendenze pedagogiche, persuasive, retoriche, in un importante contributo dello studioso tedesco di estetica Max Bense sul genere letterario del saggio. L'articolo di Bense (1947) si colloca dentro una tradizione tedesca di riflessione su questa forma di confine fra filosofia e letteratura, poesia e letteratura: una tradizione che ha avuto inizio con un saggio fondativo di György Lukács (1911) ed è culminato con un testo famoso di Theodor Adorno (1951). Scrive Bense:

L'attività dello spirito si manifesta o come creazione o come pedagogia. Produce o un'opera di invenzione [ein Geschöpf] o un intervento ideologico [eine Tendenz]. Ci sembra che esista una differenza essenziale fra l'essere poeta o l'essere scrittore, poiché il poeta è un creatore e accresce l'essenza vitale, mentre lo scrittore dà espressione al programma, all'ideologia, a ciò che lo spirito incontra. (1942, p. 415)

Una volta stabilita questa differenza essenziale, Bense cerca di costruire dei ponti fra le due attività dello spirito e finisce con il dare al genere del saggio (secondo i grandi modelli di Montaigne, Bacone, Hume, Schlegel, Nietzsche fino ai moderni Kierkegaard, Gide, Eliot e Ortega y Gassett) una capacità di mediazione fra attività creativo-contemplativa e attività conoscitivo-educativa: il saggio punta al concreto dell'esistente, ma anche a rappresentarlo in modo nuovo e originale, non ha come scopo la creazione di un oggetto, ma la rappresentazione delle sue possibili configurazioni e applica a esso l'arte combinatoria, che è per sua natura essenzialmente letteraria:

Nessun saggio sta racchiuso nel territorio dell'estetico e tuttavia, devo confessare, esso comporta anche il problema di una qualche forma artistica della prosa. (p. 424)

Il saggio di cui parlano Lukács, Bense e Adorno può essere considerato la forma concreta in cui si realizza in modo esplicito e plastico l'incontro fra le discipline, in particolare, come vedremo, tra filosofia e letteratura. È, per sua natura e vocazione, la forma interdisciplinare per eccellenza.

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I teorici, a loro volta, hanno dimostrato, in modo che mi pare convincente, che le metafore sono un ingrediente necessario e utile del linguaggio scientifico. Fra i molti che si possono citare, ne scelgo due. Il primo è una docente di Storia alla Columbia di New York, Nancy Leys Stepan. In un articolo (1986) sulle metafore usate dagli antropologi e biologi dell'Ottocento per costruire un'analogia tra razza e genere sessuale (inferiorità delle razze africane e inferiorità del genere femminile), la Stepan sostiene con vigore la funzione essenziale della metafora in tutte le costruzioni e in tutti i discorsi scientifici:

Siccome la scienza è stata [tradizionalmente] identificata con la verità e la realtà empirica, la natura metaforica di gran parte della scienza moderna è passata inosservata. E siccome è passata inosservata [...], è stato facile scambiare nella scienza il modello con "la cosa modellata", pensare, per esempio, che la natura era meccanica, piuttosto che pensare che era, metaforicamente, vista come meccanica. [...] Più di recente, tuttavia, a mano a mano che l'attenzione degli storici e filosofi della scienza si è allontanata dalle ricostruzioni logiche verso visioni più "naturalistiche" della scienza all'interno della cultura, il ruolo delle metafore, delle analogie e dei modelli nella scienza ha cominciato a essere riconosciuto. [...] Alcuni filosofi della scienza sono ora disposti ad ammettere che metafore e analogie non sono meri aiuti psicologici per le scoperte scientifiche, o strumenti euristici, ma elementi costitutivi di ogni teoria scientifica. Abbiamo compiuto un giro completo del circolo, dal considerare le metafore come semplici abbellimenti o finzioni poetiche al considerarle essenziali allo stesso pensiero scientifico. [...] Nel caso dello studio scientifico delle differenze umane, le analogie utilizzate dagli scienziati nel tardo Settecento, quando le diversità fra gli esseri umani cominciarono a essere studiate sistematicamente, furono il prodotto di metafore di lunga durata, di larga familiarità, culturalmente legittimate. Le variazioni e differenze fra gli esseri umani non erano avvertite "come esse realmente sono, in natura", ma attraverso un sistema metaforico che strutturò l'esperienza e il modo di concepire la differenza: fu esso, essenzialmente, che creò gli oggetti della differenza. Il sistema metaforico fornì le "lenti" attraverso cui la gente percepiva e "vedeva" le differenze fra le classi, le razze e i sessi, fra uomo civile e selvaggio, ricco e povero, bambino e adulto. (Stepan 1986, pp. 262, 265)

Una concezione ancora più positiva del ruolo svolto dalla metafora nei discorsi della scienza è quella espressa, in un saggio del 1990, da un professore di Storia e di Storia della medicina all'Università di Buffalo (New York): James J. Bono. Egli colloca il ruolo della metafora al centro di un proficuo e storicamente sempre mutevole scambio fra tipi diversi di discorsi e di culture:

Le tensioni insite nei discorsi scientifici e una certa rozzezza delle loro origini sono, io sostengo, il risultato dei concreti processi storici traverso cui si sono costituiti come discorsi culturalmente e socialmente situati. Troppo spesso gli studiosi hanno descritto le origini di un discorso scientifico come atto autonomo del genio, o come ineluttabile svolgimento nel tempo di un quadro di riferimento razionale per spiegare i fenomeni o, alternativamente, come l'affermazione rivoluzionaria di una nuova visione della natura. Tutti questi modelli storici del cambiamento o dello sviluppo scientifico allontanano nettamente il discorso scientifico dagli aspetti pertinenti delle sue origini storiche, che sono altamente specifiche, locali e auto-riflesse. Le metafore scientifiche, con i loro slittamenti di significato, presentano tracce evidenti di tali origini represse, o dimenticate.

Per recuperare quelle origini, per ricordare il discorso della scienza, dobbiamo cercare quelle tracce, quelle metafore. Facendo questo, a parer mio, ci avvicineremo alle dimensioni sincroniche del cambiamento scientifico, alla costituzione dei discorsi scientifici come sistemi sincronici di significato all'interno di una costellazione di altri sistemi culturali e sociali. (Bono 1990, p. 76)

Non molto diverso dal ruolo che la metafora ha svolto e può svolgere nel rapporto fra discorso scientifico e discorso letterario è il ruolo che può essere svolto dalle forme della narrazione. Anche in questo caso abbiamo a che fare con una distinzione tradizionale molto diffusa tra discorso descrittivo (e analitico, esplicativo), tipico dell'attività scientifica, e discorso narrativo (rappresentativo, di finzione), tipico dell'attività letteraria. E anche in questo caso dobbiamo registrare che negli ultimi decenni, oltre alla grande espansione degli interventi teorici sulla narrativa (l'affermazione della cosiddetta narratologia, sulla base delle elaborazioni dei formalisti russi, degli strutturalisti cechi, della teoria francese e americana) si è assistito a un convergere di interessi sulla narrazione (a volte anche in modo eccessivo e disordinato) da parte di scienziati e cultori di disparate discipline. Fra i molti che potrei ricordare, ne cito qui solo due.

Il primo è lo psicologo, pedagogista e studioso dei sistemi cognitivi Jerome Bruner, professore all'Università di New York (dove insegna, interdisciplinarmente, anche nella Law School). Autore di vari libri sul nostro argomento, ha fatto scalpore con un saggio pubblicato nel 1991 su "Critical Inquiry" intitolato The Narrative Construction of Reality (La costruzione narrativa della realtà). In una delle prime pagine del saggio scriveva:

Molto di quello che ho da dire non risulterà del tutto nuovo a coloro che hanno lavorato nei vigneti della narratologia o che sono familiari con gli studi critici sulle forme narrative. A dire il vero le idee di cui mi occuperò possono essere fatte risalire direttamente ai dibattiti che hanno impegnato i teorici della letteratura negli ultimi due decenni. I miei commenti echeggiano quei dibattiti che stanno al momento facendo sentire la loro influenza anche nelle scienze umane – non solo in psicologia, antropologia e linguistica, ma anche nella filosofia del linguaggio. Per la prima volta la cosiddetta "rivoluzione cognitiva" nelle scienze umane ha messo l'accento sul problema di come la "realtà" viene rappresentata nell'atto della conoscenza, con proposizioni, con reti lessicali, o perfino con strumenti espressivi più distesi nel tempo come le frasi del discorso. È stato più o meno un decennio fa che gli psicologi si sono resi conto della possibilità che la narrazione fosse una forma non solo della rappresentazione ma anche della costruzione della realtà. [...] A quel punto gli psicologi e gli antropologi più attenti alle questioni cognitive hanno cominciato ad accorgersi che i loro colleghi nella teoria e storiografia letteraria erano, con profondo coinvolgimento, occupati a porsi domande sulla narrativa testualmente situata. (Bruner 1991, p. 5)

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Nei suoi libri The Sovereignty of the Good (La sovranità del bene, 1967) e The Fire and the Sun (Il fuoco e il sole, 1970) e in una lunga intervista al noto giornalista televisivo Bryan Magee, intitolata proprio Philosophy and Literature (trasmessa dalla BBC nel 1978 e disponibile su YouTube ma pubblicata anche in un libro), la Murdoch sostiene con convinzione la tesi della differenza radicale fra le due attività del filosofare e dello scrivere romanzi, e lo fa sulla base della sua stessa esperienza. Essa ammette, e in questo sembra in accordo con la Nussbaum, che la letteratura può far conoscere a un lettore attento aree della vita morale che la filosofia, nella sua astrattezza, tende a ignorare, e che in un romanzo i rapporti e l'interazione fra i personaggi, nelle singole e concrete circostanze, possono essere carichi di insegnamenti e promuovere una più profonda conoscenza dell'animo umano. Tuttavia insiste nel tenere le due attività radicalmente separate. Scrivere di filosofia e scrivere romanzi sono due imprese nettamente diverse, con scopi e stili che non coincidono. La filosofia mira alla «chiarificazione», la letteratura alla «mistificazione», l'una vuol essere «traslucida», l'altra volutamente «ambigua», l'una punta a terrorizzare, l'altra a intrattenere. La letteratura è vasta e multiforme, densa, vicina alla vita, la filosofia è concentrata su singoli problemi, compatta, astratta. La letteratura è naturale, la filosofia artificiale, la letteratura mira a una forma esteticamente attraente, la filosofia non si propone una perfezione formale. Ma allora, si chiede la Murdoch, esiste uno stile filosofico? E risponde:

Sono tentata di dire che uno stile filosofico ideale esista e che esso abbia una speciale schiettezza priva di ambiguità e una certa sua durezza. [...] Quando un filosofo si trova come sulla linea del fronte davanti a un problema penso che egli parli con una certa fredda chiarezza, riconoscibile nella sua voce. (Magee 1978, ed. 1982, p. 231)

Nonostante le obiezioni severe della Murdoch, si avverte, in molti filosofi contemporanei, la tendenza a far convergere scrittura filosofica e scrittura letteraria, soprattutto per effetto delle correnti prevalenti nella filosofia francese che sviluppano i temi della soggettività, della filosofia della vita e dell'esistenza, della dimensione conoscitiva della memoria, del tempo e della storia (Merleau-Ponty e Ricoeur e, più indietro nel tempo, Bergson) e, ancora, della fenomenologia delle passioni e delle emozioni, dell'esperienza femminile (Simone De Beauvoir, con una disponibilità a mescolare filosofia e letteratura che invece Sartre, nonostante le molte prove saggistiche, romanzesche, memorialistíche e teatrali, tendeva ancora a tenere separate).

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Pagina 35

Rimane da render conto del particolare incontro tra filosofia e letteratura promosso dal filosofo francese Jacques Derrida. Si tratta di un pensatore di prima grandezza, che ha dato una soluzione originale, e per certi versi estrema, alle proposte di fenomenologi come Husserl e ontologi come Heidegger. Si tratta anche di un pensatore considerato oscuro e criptico. Tuttavia, nel comune sentire, se qualcuno vi chiedesse «Ma questo Derrida, chi era? E cosa voleva?», credo che non sbagliereste molto rispondendo: «Derrida è un filosofo francese di marca sostanzialmente idealista, il quale ha sostenuto che tutto il mondo è un testo, che la filosofia è un altro tipo di letteratura e che la lingua scritta viene prima della lingua parlata». Se si bada alla realtà dei fatti e degli scritti, Derrida non si è mai occupato direttamente di testi letterari, e ha invece usato la sua straordinaria forza di analista delle trappole del linguaggio per affrontare i grandi problemi filosofici della soggettività, della verità, della "differanza", dell'errore (considerato utilissimo), dell'inconscio, degli atti linguistici, della logica, della storia, delle nostre azioni pratiche, della plausibilità stessa della filosofia; e poi si è occupato di Platone, di Hegel (il suo vero nemico, per la pomposa sicurezza di sé), di Husserl (per lui il più grande filosofo dopo i greci), di Marx e di Heidegger (pericolosamente avviato verso la metafisica).

Nonostante l'originalità quasi eccentrica e la voluta marginalità del pensiero di Derrida, nonostante la sua ostinata decisione di mantenersi entro i confini dei problemi filosofici e linguistici, e la posizione abbastanza defilata che egli ha sempre avuto nel suo paese di origine – a cui è tuttavia sempre rimasto fedele, lavorando indefessamente sulla lingua francese, e dove è sempre ritornato dopo i frequenti ma brevi soggiorni negli Stati Uniti –, nonostante tutto questo alcune delle parole d'ordine da lui lanciate, come la decostruzione e la "differanza", sembrano aver trovato una curiosa consonanza con lo spirito dei tempi (quello che chiamiamo postmoderno o della modernità liquida); il suo pensiero ha provocato, soprattutto negli Stati Uniti, un fenomeno culturale di grandi dimensioni: il decostruzionismo è divenuto un movimento di moda, coinvolgendo personaggi come Paul De Man, Hillis Miller e tanti altri, dando nuova linfa teorica ai movimenti femministi (Barbara Johnson, Judith Butler), trasformando i dipartimenti di studi letterari in dipartimenti di teoria letteraria, quasi centri di studi filosofici di tipo europeo continentale, mentre i dipartimenti di filosofia autoctoni restavano orientati alla filosofia analitica di tipo anglosassone. Si è trattato di un tipo di incontro tra filosofia e letteratura molto diverso (e per certi aspetti rischioso e alla fine abbastanza inconcludente) rispetto a quello auspicato dalla Nussbaum. Una dura polemica scoppiata tra la Nussbaum e la Butler può essere considerata una conferma delle difficoltà create dal difficile rapporto tra filosofia main stream e decostruzionismo americano, tra problemi etici e problemi filosofico-letterari.

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Pagina 38

Del resto, si sa, il rapporto fra i numeri e la letteratura affonda le sue radici nelle tradizioni folcloristiche e nella letteratura orale. Ne sono una prova tante filastrocche, tanti giochi fanciulleschi basati sulle conte, tante presenze ritmiche e numeriche nelle fiabe di magia, in cui le azioni rituali vengono ripetute regolarmente tre volte e sette possono essere le paia di scarpe da consumare e le leghe da percorrere in un viaggio ecc. Alcuni studiosi, ispirandosi alla forte presenza di numeri simbolici, formule e strutture proporzionali su base matematica e geometrica nelle culture antiche, hanno ritrovato, per esempio, la presenza di un rapporto aritmetico e armonico, rappresentato da numeri simbolici o della sezione aurea, non solo nella struttura dei templi greci o dei gruppi scultorei di Fidia, ma anche nella poesia di Omero, nelle tragedie di Eschilo, nelle commedie di Aristofane, nelle ecloghe di Virgilio, nel grande poema di Dante. Tendenzialmente scettico di fronte a queste proposte il matematico e astrofisico Mario Livio , che a Baltimora dirige l'istituto Hubble e che è autore di fortunati libri di divulgazione matematica, fra cui quello che porta sulla copertina questa domanda: Is God a Mathematician? ( È Dio un matematico? – ma il punto di domanda è scomparso nella traduzione italiana, forse perché il nostro paese rispetto a Dio ha solo certezze). Egli, in un libro sulla sezione aurea (1992) ha espresso molti dubbi sulle proposte dei critici letterari.

Al centro delle questioni culturali che riguardano la matematica e la geometria sta una rete di relazioni che, prima di riguardare le questioni della scrittura e della letteratura, coinvolgono la logica, l'organizzazione mentale delle conoscenze, le rappresentazioni strutturate dello spazio, la musica. Molti studiosi hanno insistito sul rapporto sia della matematica sia della letteratura con l'elemento estetico dell'armonia e della bellezza, con il tema dell'infinito, con quelli del ritmo e della simmetria e anche sul rapporto fra il contare e il raccontare: nelle lingue romanze i vari termini, con la doppia applicazione, sono derivati dal latino computare; in quelle germaniche hanno la stessa radice indoeuropea il tedesco Zahl (numero) e l'inglese tale (racconto).

Esemplare, dal punto di vista del fitto intreccio di relazioni fra matematica, arte, musica (e letteratura), un libro di Douglas Hofstadter. Figlio di un premio Nobel per la fisica, matematico di formazione, professore di Scienze cognitive a Bloomington (Indiana), Hofstadter è uno dei massimi esperti americani di intelligenza artificiale. Il libro è intitolato Gödel, Escher, Bach: an Eternal Golden Braid ( Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante , 1979) ed è descritto dal suo autore, nella quarta di copertina, come «una fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll ». L'autore combina insieme, brillantemente, e collega fra di loro, le vite e le menti del logico Gödel , del disegnatore Escher e del grande compositore di fughe musicali Johann Sebastian Bach. La tesi di fondo è che i sistemi di comunicazione e formalizzazione, pur composti da elementi privi di significato, possono acquistare proprio dalla loro combinazione un significato. Ispirato da idee cognitiviste, Hofstadter intende dimostrare che il pensiero e la conoscenza hanno origine, nel cervello, da invisibili meccanismi neurologici: essi sembrano obbedire a una nascosta organizzazione simile a quella esibita da una colonia di formiche. Il libro è costruito con narrazioni intrecciate e interrotte da dialoghi fra personaggi immaginari, come Achille e la tartaruga, un granchio, un genio ecc. Non mancano indovinelli, acrostici, problemi da risolvere.

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Un momento esemplare di convergenza fra matematica e letteratura è rappresentato dalla fondazione in Francia, nel 1960, su iniziativa del matematico François Le Lionnais e dello scrittore Raymond Queneau , dell'OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle: Officina di Letteratura Potenziale), un'associazione di scrittori che sottopongono le loro creazioni letterarie ad alcune regole e restrizioni suggerite dalla matematica e mettono in pratica la cosiddetta «arte combinatoria», che ha le sue radici nella logica e nella matematica. L'associazione, che è tuttora operante e si riunisce in forma privata a date da stabilirsi e in forma pubblica l'ultimo giovedì di ogni mese presso la Biblioteca Mitterand (in precedenza in altri luoghi di Parigi), ha avuto tra i suoi membri più influenti e significativi, oltre a Lionnais e Queneau, Albert-Marie Schmidt, uno specialista di retorica del Rinascimento, Jacques Bens, poeta, Claude Berge, matematico, grafico e pittore, Jacques Roubaud, scrittore e matematico, e in particolare Georges Perec e Italo Calvino. Queneau, utilizzando le regole OuLiPo con grande perizia ma anche con leggerezza creativa ha composto sia lavori decisamente ma anche brillantemente sperimentali, come Exercices de style ( Esercizi di stile , 1947, tradotti in italiano da Umberto Eco) o Cent mille milliards de poèmes (Centomila miliardi di poesie, 1961), sia opere narrative di piacevolissima lettura, come Zazie dans le métro ( Zazie nel metro , 1959) e Les Fleurs bleues ( I fiori blu , 1965, traduzione italiana di Italo Calvino). Il poeta Jacques Jouet ha tentato di far rivivere, con regole anche più stringenti, l'antica forma della sestina, proponendo un tipo di componimento, chiamato la redonde e intitolato Le bel âge (La bella età, 1999), costituito da tre strofe di cinque versi con tre parole-chiave che cambiano di posizione in ciascuna strofa. Georges Perec è forse lo scrittore che si è dato più regole costrittive e complicati schemi matematici nella costruzione dei suoi romanzi: La Disparition ( La sparizione , 1969), è un "lipogamma" di 300 pagine basato sulla regola di non usare mai in nessuna parola del testo la vocale "e"; W ou le souvenir d'enfance ( W o il ricordo d'infanzia , 1975) è un testo che racconta, a capitoli alterni, memorie d'infanzia di un bambino i cui genitori ebrei sono morti in tempo di guerra nei campi nazisti e una storia avventurosa e allegorica che si svolge in un'isola del Sudamerica; La Vie, mode d'emploi, ( La vita, istruzioni per l'uso , 1978) è un grande romanzo-costruzione o romanzo-combinazione, che racconta le vicende degli abitanti di un palazzo parigino le cui stanze sono disposte geometricamente dieci per piano su dieci piani e vengono descritte, raccontando la vita degli abitanti sia presenti sia passati, seguendo le mosse scacchistiche del cavallo. Italo Calvino, durante il suo soggiorno parigino, ha frequentato le riunioni dell'OuLiPo e lì ha presentato un suo progetto di romanzo (rimasto allo stato di racconto-abbozzo), intitolato L'incendio della casa abominevole (1973), la cui trama era dominata dalle variazioni suggerite da un computer e dalla logica delle probabilità. All'esperienza parigina risalgono altri esperimenti di Calvino, come alcune poesie e lipogrammi e la traduzione del Piccolo sillabario illustrato di Perec, ma da questi esperimenti di arte combinatoria derivano anche altri suoi testi, fino a Una notte d'inverno un viaggiatore (1979).

Oltre agli esempi offerti da Queneau, Perec, Calvino e Lewis Carroll, il bizzarro logico e matematico inglese di Oxford, creatore delle deliziose e popolarissime storie di Alice's Adventures in Wonderland ( Alice nel Paese delle Meraviglie , 1865) e Through the Looking Glass and What Alice Found There ( Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò , 1871), va anche ricordato l'ampio filone della letteratura poliziesca che ha frequentemente messo in scena matematici ed equiparato la soluzione di un mistero poliziesco con quella di un problema di matematica. Fra i tanti scrittori che hanno contribuito a mettere in rapporto matematica e letteratura e a fornire materiale per i manuali di insegnamento della matematica (Morgenstern, Musil, Borges, Zamjatin, Buzzati, Frish, Landolfi, Yourcenar, Pynchon, Lem, Szymborska, Ballard, Dick, Cheever, Saramago, McEwan ecc.), posso ricordare qualche altro nome, obbedendo a una mia scelta, inevitabilmente arbitraria: quello dello scrittore, matematico e teologo inglese Edwin Abbott, che in un originale romanzo, molto popolare fra gli studenti dei primi anni di matematica, intitolato Flatland: A Romance of Many Dimensions ( Flatlandia: un romanzo a più dimensioni , 1884), colloca in un immaginario universo a due dimensioni le vicende di un abitante proveniente da un universo tridimensionale; quello del poeta, matematico e filosofo francese Paul Valéry , che nelle sue conferenze e nelle scritture diaristiche dei Cahiers (Quaderni, 1965) ha posto l'accento sulla purezza astratta della bellezza poetica e di quella matematica («spero che le mie poesie abbiano la solidità di alcune pagine di algebra») e ha tratto dai rigorosi procedimenti metodologici della matematica insegnamenti morali, in nome della coerenza dei comportamenti umani; quello del poeta e ingegnere e pubblicitario italiano Leonardo Sinisgalli , i cui libri hanno titoli programmatici molto chiari: Ritratti di macchine (1935); Quaderno di geometria (1935): Furor mathematicus (1944); Horror vacui (1945); Fiori pari, fiori dispari (1945); quello dello scrittore sperimentale tedesco Hans Magnus Enzensberger, autore di un piacevolissimo Der Zahlenteufel ( Il mago dei numeri , 1998), che ha un sottotitolo scherzoso: Ein Kopfkissenbuch für alle, die Angst vor der Mathematik haben (Un libro da leggere prima di addormentarsi, dedicato a chi ha paura della matematica) e racconta di un bambino che odia la matematica insegnata a scuola, ma si ricrede dopo le visite notturne, in sogno, per dodici notti, di un bizzarro diavoletto, il mago dei numeri; infine quello del giovane fisico italiano Paolo Giordano, autore del romanzo forse anche troppo fortunato La solitudine dei numeri primi (2008), in cui l'intera vicenda deriva dalla constatazione iniziale che i due protagonisti, Mattia e Alice, sono paragonabili a due numeri primi gemelli, cioè separati da un unico numero pari che non permette loro di incontrarsi, nonostante siano così vicini.

Ma soprattutto vorrei segnalare, per la felice combinazione di gusto narrativo e interesse per la matematica, lo scrittore di romanzi gialli danese Peter Hoeg: egli, nel romanzo che lo ha reso popolare in tutto il mondo Il senso di Smilla per la neve (1992), dà, a un certo punto, al personaggio di Smilla la responsabilità della narrazione in prima persona.

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Quanto al terzo punto, esso è naturalmente il più controverso e sicuramente, per me, il più interessante. Fino a che punto lo scienziato, nel suo lavoro, per chiarire a se stesso e agli altri scienziati le proprie ipotesi interpretative dei fenomeni che sta studiando, è autorizzato a usare forme di linguaggio suggerite dall'esperienza letteraria, a fare ipotesi immaginarie, a porsi consapevolemnte il problema dello scarto fra cose e parole? Si pone qui la questione molto intricata e delicata, di cui ho già parlato nell'introduzione, delle metafore: quando e come esse trasmigrano dal discorso letterario e narrativo a quello scientifico o viceversa? Ed è utile che lo facciano? Nel discorso scientifico è bene che esse si limitino ad aiutare gli sforzi di divulgazione? Oppure esse hanno un compito concreto e funzionale, portatore di conoscenza, anche nel discorso scientifico?

Nel campo della fisica, e in particolare della termodinamica, dove si sono imposti i concetti di complessità e irreversibilità, due nuove teorie hanno fatto la loro comparsa nel Novecento, offrendo due grandi metafore al crocevia degli scambi fra scienza e letteratura: quella del caos e quella dell'entropia. La diffusione di queste metafore è strettamente collegata con alcuni processi di relativizzazione delle sicurezze filosofiche, epistemologiche e scientifiche.

La modernità, come è noto, ha avviato e portato a notevoli successi le scoperte e le conoscenze nei più diversi campi, incoraggiandone gli sviluppi disciplinari in aree ben delimitate (natura distinta da cultura, scienze naturali ben distinte dalle scienze umane) e le più ampie applicazioni tecnologiche. Nel corso del Novecento si sono sviluppati molti processi di relativizzazione e problematizzazione delle nostre forme di conoscenza. Nel campo stesso della filosofia della scienza, nell'epoca che possiamo chiamare postmoderna o della modernità liquida, si sono sempre più decisamente affermati concetti come diversità, molteplicità, probabilità e sistemi dinamici a confronto e revisione di quelli classicamente statici. Non solo si sono messi in discussione e rimescolati i tradizionali campi disciplinari, ma anche le metodologie della ricerca. Un caso tipico è offerto dalla cosiddetta "teoria del caos", che è stata applicata a una quantità di aree della conoscenza, compresa quella della letteratura (al punto che alcuni studiosi hanno denunciato questo come un deplorevole fenomeno di moda culturale, destinato all'estinzione, come quelli analoghi dell'entropia, dei frattali ecc.). Tuttavia non pochi filosofi e scienziati sostengono:

Il caos, inteso come complessità dinamica, ci circonda ai più diversi livelli della realtà e il paradigma dell'ordine atemporale dei sistemi chiusi, che ha costituito l'oggetto privilegiato dello studio scientifico in passato e ha portato a una concezione predominante della scienza basata su "fatti immutabili" e "leggi universali", ha anche prodotto un'immagine della realtà se non proprio "falsa" certamente "incompleta": nell'universo fisico e in quello culturale i sistemi dinamici sembrano essere non solo quantitativamente in maggioranza ma anche qualitativamente più rappresentativi della "realtà" di quanto ci fossimo mai immaginati. (Bruce 1994, p. 150)

Gillian Beer ha giustamente messo in rapporto l'improvvisa moda delle teorie del caos con l'avvento nella filosofia e nella critica letteraria del decostruzionismo (forse possiamo aggiungere: della liquidità post-moderna):

Noi tutti impariamo storie raccontandocele a vicenda. La lingua prende significato attraverso l'interazione. Lo scienziato lavora tenendosi alle storie che sono disponibili (gerarchia o semplicità, per esempio). Talvolta egli o ella ne aggiungono una nuova, o, più spesso, correggono il significato immaginario e il potere esplicativo di una vecchia storia. L'eccitazione generata fra i non-scienziati dalla teoria del caos richiama l'attenzione su irregolarità osservate e tuttavia escluse, asimmetrie e fluidità. Il fatto che la teoria del caos si sia sviluppata in parallelo con la decostruzione, con il suo rifiuto di parametri interpretativi, il suo tenace relativismo, dà parecchio da pensare come la riscoperta della tettonica a placche proprio nel momento più alto della moda dell'epistemologia derridiana, con il suo accento sulla decostruzione. (Beer 1996, p. 194)

Abbastanza complicata è la questione dell'entropia. Il termine, usato per indicare la dispersione del calore, che sembra valida per tutto l'universo, dalle stelle al bricco del tè posto sul fornello, è nato nell'Ottocento fra gli studiosi di termodinamica, quando il fisico tedesco Rudolf Clausius elaborò il concetto di entropia osservando il comportamento delle caldaie dei treni a vapore e riflettendo sul fatto che nessuna macchina termica può restituire al mondo il carbone che ha bruciato e tantomeno la foresta che ha generato quel carbone. Di qui una serie di applicazioni metaforiche molto comuni nell'immaginario esistenziale e sociologico contemporaneo, legate al concetto di tempo come degradazione: dissipazione dell'energia, irrecuperabilità delle condizioni iniziali, evoluzione verso il disordine. Di qui anche la battuta di Woody Allen secondo cui il dentifricio, una volta uscito dal tubetto, non potrà mai più rientrarci.

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Il mondo della letteratura ha rapporti forse più stretti con il mondo dei chimici che con quello dei fisici. Ha scritto il chimico Pierre Laszlo, professore al Politecnico di Parigi e all'Università di Liegi:

La chimica ha una robusta componente letteraria. Fra tutte le scienze, si può sostenere che è la più vicina alla letteratura. Le ragioni sono storiche, epistemologiche e tecniche. La chimica ha ereditato dall'alchimia la tradizione di un discorso speculativo sulle cose e le loro modificazioni. Lavoisier fondò la sua rivoluzione su riflessioni aventi per oggetto il linguaggio e sul progetto di costituire una lingua sistematica, coerente e razionale per la chimica. Ancor oggi noi non disponiamo di una strumentazione che ci permetta di osservare costantemente il cambiamento chimico mentre si svolge. Per questo, la chimica ha escogitato il suo proprio modo per affrontare la realtà, sotto forma di una discorsività operazionale, una serie di affermazioni circa le sostanze capaci di stabilirne le proprietà statiche e dinamiche, anche se le qualità postulate (come per esempio la elettronegatività, la nucleofilità, la lipofilità) possono essere prive di verità e di esistenza. In questo senso il discorso chimico risulta vicino a quello dell'invenzione narrativa, come in un romanzo. Questo risulta anche confrontando la chimica con le altre scienze. (Laszlo 1994, pp. 100-101)

Effettivamente i rapporti fra chimica e letteratura, in tutti e due i sensi, sono sempre stati molto intensi. Per quel che riguarda la letteratura, basta pensare all'uso metaforico che della chimica ha fatto Goethe in Die Wahlverwandtschaften (Affinità elettive, 1809) o alla grande utilizzazione in romanzi e film del tema delle erbe e pozioni curative, degli elisir di lunga vita o della ricerca della pietra filosofale. Non mancano, naturalmente, le rappresentazioni negative, con storie che hanno per protagonisti alchimisti, sognatori, chimici pazzi, avvelenatori e avvelenatrici, pericoli sociali; storie tenebrose, storie poliziesche, storie di fantascienza, fra cui, per esempio: E.T.A. Hoffmann , Der Sandmann (L'orco insabbia, 1816), Nathaniel Hawthorne , Rappacini's Daughter (La figlia di Rappacini, 1844), Edgar Allan Poe , Von Kempelen and His Discovery (La scoperta di von Kempelen, 1840), Heinrich Mann, Der Untertan ( Il suddito , 1918), Margaret Atwood, Murder in the Dark (Assassinio nel buio, 1983), Marguerite Yourcenar, L'oeuvre au noir ( L'opera in nero , 1968). E poi manipolatori di profumi, come dimostrato da Das Perfum ( Il profumo , 1985) di Patrick Süskind; manipolatori di veleni, in testi che vanno da Platone a Shakespeare a Flaubert, preparatori e utilizzatori di droghe, da Confessions of an English Opiumeater (Confessioni di un oppiomane, 1821) di Thomas De Quincey , a Connaissance par les gouffres ( Conoscenza attraverso gli abissi , 1961) di Henry Michaux, a Junky (La scimmia sulla schiena, 1956) di William Burroughs ; a inventori di nuovi miracolosi intrugli su sfondi cosmici o apocalittici in tanti romanzi di fantascienza.

C'è anche il movimento opposto, quello che mette in scena chimici che provano interesse per la letteratura. Esiste, per esempio, in Italia (e altre ne esistono in altri paesi), una importante associazione, che si chiama Società Chimica Italiana (SCI) e si pone come principale obiettivo di «promuovere una cultura e una formazione chimiche che da un lato contribuiscano alla soluzione dei problemi che affliggono l'umanità e quindi alla crescita della qualità della vita e dall'altro all'instaurarsi di un rapporto virtuoso con la società civile che le faccia sentire la scienza chimica come una preziosa alleata». Essa organizza convegni annuali con il titolo, per esempio, di "Non è magia, è chimica" e conferenze con titoli come "Chimica, scienza e arte" o "Nei meandri del cervello", in cui si sostengono tesi del tipo:

La tavola periodica come la tavolozza di un pittore, gli elementi chimici come colori da combinare per creare, plasmare la materia.

La materia che, nelle mani di un chimico, prende le forme più varie e dissimili. Ma anche l'affascinante varietà dei composti chimici, la suggestione estetica dei cristalli, la meraviglia della simmetria e dell'ordine nelle strutture che la chimica crea.

La chimica quindi come arte, come capacità di creazione originale a partire dagli elementi primi, oltre che come scienza alla base della nostra vita e del nostro benessere, ma soprattutto delle grandi sfide, dall'energia alla tutela dell'ambiente e della nostra salute, che l'umanità si trova ad affrontare all'inizio del XXI secolo. (Sito ufficiale della SIC)

Tra gli argomenti che vengono affrontati nelle discussioni fra i membri dell'associazione ci sono, per esempio, «La chimica e la vita», «La chimica e l'arte», «La chimica e la letteratura», «La chimica e il benessere».

Non sono pochi, inoltre, i chimici che si sono misurati essi stessi con la creazione letteraria. Ne ricordo, anzitutto, due: Oliver Sacks e Cari Djerassi. Sacks, inglese di nascita ma americano di studi e di adozione, è stato un importante neurologo, psichiatra e medico. In un libro intitolato Uncle Tungsten: Memories of a Chemical Boyhood ( Zio Tungsteno: ricordi di un'infanzia chimica , 2001) Sacks ha rievocato con gusto gli anni della sua infanzia in Inghilterra prima della seconda guerra mondiale, all'interno di una straordinaria famiglia di scienziati. Djerassi, nato a Vienna da padre bulgaro e madre austriaca emigrati negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo, ha a lungo insegnato chimica all'Università di Stanford e ha avuto una parte importante nella scoperta della pillola anticoncezionale. Negli ultimi vent'anni si è principalmente dedicato alla scrittura letteraria, pubblicando romanzi in un genere che lui stesso ha chiamato «scienza nella letteratura», nei quali viene presentato l'aspetto umano della vita dei ricercatori, sia dentro sia fuori dai loro laboratori, con i problemi della vita di gruppo, del rapporto fra maestri e allievi, fra maschi e femmine in gruppi di lavoro a larga predominanza maschile, delle grandi questioni etiche e sociali che le loro scoperte possono provocare. Fra i romanzi più noti Cantor's Dilemma (Il dilemma di Cantor , 1989) e The Bourbaki Gambit ( Operazione Bourbaki , 1994). In quest'ultimo libro è presentata, in forma romanzesca, la scoperta della reazione a catena della polimerasi (PCR), una tecnica di biologia molecolare che ha procurato al suo scopritore Kary B. Mullis il Premio Nobel per la chimica nel 1993. Essa ha numerose applicazioni e ha ispirato, anche se ciò non è stato riconosciuto, la storia del romanzo di Michael Crichton e del film di Steven Spielberg Jurassic Park , ed è stata il principale oggetto del contendere nel processo contro il giocatore di football americano 0.J. Simpson, che fu assolto dall'accusa di aver ucciso la moglie.

Djerassi si è ispirato alla scienza anche per alcuni esperimenti teatrali, fra cui Oxygen (Ossigeno, 2001), scritto in collaborazione con il chimico, premio Nobel nel 1981, Roald Hoffmann. Lo spettacolo teatrale mette in scena i principali protagonisti della scoperta dell'ossigeno: Antoine Lavoisier, Cari Wilhelm Schede e Joseph Priestley.

Il caso più notevole e interessante di chimico che si è misurato con grande successo con la letteratura è, naturalmente, quello di Primo Levi. Levi, torinese, ebreo, chimico di professione che divenne scrittore, prima con le celebri memorie della sopravvivenza dal campo di concentramento nazista, poi con molti testi letterari, romanzi, racconti, poesie, saggi, fra cui Il sistema periodico (1975), i cui racconti prendono il titolo ciascuno dai ventun elementi della tavola di Mendeleev; La chiave a stella (1978), dialogo tra un chimico e un montatore di gru; e L'altrui mestiere (1985).

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Quanto ai tentativi di promuovere un allargamento degli orizzonti e una collaborazione tra biologia e letteratura (e cultura), anche al di là del movimento abbastanza ristretto dei darwinisti o neo-darwinisti di cui ho parlato, c'è un altro avvenimento che mi ha colpito e di cui desidero qui dar conto. Nel 2007 la gloriosa rivista americana "New Literary History" fondata e diretta da Ralph Cohen ha pubblicato, nel fascicolo dell'estate, un numero speciale, curato da Leonard J. Davis e David B. Morris, dedicato alle "bioculture", cioè alla possibile convergenza fra cultura, biologia e letteratura. Il fascicolo si apre addirittura con un manifesto, steso dai due curatori: Bio-culture Manifesto (Manifesto delle bioculture, 2007). Leonard J. Davis è docente di Letteratura inglese, ma insegna anche in corsi di formazione medica e di recupero delle disabilità fisiche all'Università Vanderbilt di Nashville (Tennessee) ed è noto per i suoi studi sull'ossessione come malattia e sull'inseminazione artificiale. David B. Morris è professore di inglese all'Università della Virginia, è studioso di Pope e in anni recenti ha scritto un libro intitolato Illness and Culture in the Postmodern Age (Malattia e cultura nell'età postmoderna, 1998). Egli ha inoltre curato, insieme con due altri studiosi – un medico, Daniel Carr (primo firmatario del libro) e un neurologo, John Loeser – una raccolta di saggi intitolata Narrative, Pain, and Suffering (Narrazione, pena e sofferenza, 2005), che tocca questioni come l'anestesia, i centri di controllo della sofferenza, il racconto come forma di terapia.

Il piglio con cui Davis e Morris stilano il loro Manifesto delle bioculture è molto deciso:

Oggi è comune la nozione che lo studio della storia e della cultura serva a illuminare i testi letterari e numerose prospettive teoriche, dal femminismo al post-strutturalismo cognitivo, hanno arricchito la nostra conoscenza sia della storia sia della cultura. La storia letteraria, in questo senso, si presta a continue reinvenzioni. Perciò ora che siamo all'inizio del ventunesimo secolo, avanziamo una nuova (ma forse in breve tempo vecchia) e duratura (forse destinata a divenire un luogo comune) proposta: che la cultura e la storia debbano essere ripensate con la consapevolezza del loro inestricabile, e tuttavia altamente variabile, rapporto con la biologia. Noi diamo a questo fenomeno generale il nome di biocultura. (Davis, Morris 2007, p. 411)

Secondo Davis e Morris qualsiasi concezione della biologia che non tenga conto della cultura, o della cultura che non tenga conto della biologia, è inevitabilmente riduzionista. Oggetto della loro polemica sono soprattutto gli scienziati e i medici che considerano la propria missione neutralmente "scientifica" senza tener conto delle circostanze storiche e culturali in cui sono immersi quando operano sui corpi e sui sistemi psichici che li governano. Oggetto dell'interesse di Davis e Morris sono tutti quei centri di ricerca che, sia nel campo delle scienze umane sia in quello delle scienze biologiche, hanno avviato progetti di collaborazione: studi di "genere"; studi sul rapporto fra razza e forme di disabilità; studi di bioetica che si propongono di capire quanto i valori culturali influenzino le scelte mediche; scuole di specializzazione della formazione medica che si domandano se il discorso narrativo possa avere delle implicazioni terapeutiche; centri di igiene e salute pubblica; studi sulla giustizia criminale, sull'epidemiologia, sul corpo e l'identità; studi sulla cultura omosessuale; centri di antropologia medica, sociologia medica, storia della medicina, filosofia della medicina, e così via.

Ciò che unisce, da un punto di vista metodologico, studiosi delle scienze umane e studiosi delle scienze biologiche e naturali è la pratica dell'interpretazione: gli scienziati organizzano esperimenti da cui ricavano dati che bisogna interpretare; i critici letterari interpretano i testi; i giudici interpretano le leggi; i traduttori interpretano i segni linguistici trasferendoli da una lingua all'altra; i teologi interpretano la Bibbia o il Corano; i sociologi interpretano i comportamenti umani; gli antropologi interpretano i sistemi di parentela di una comunità tribale; gli psicoanalisti interpretano i sogni; i neurologi interpretano le emissioni tomografiche dei positroni (PET), e così via. Il dettato diventa aforistico:

Non è vero che le scienze umane sono il regno dei valori e quelle biologiche il regno dei fatti

Non è vero che le scienze biologiche sono hard e quelle umane sono soft

Lo scienziato non può capire pienamente i risultati di un dato senza conoscere le circostanze storiche, sociali e culturali che circondano quel dato

Non puoi studiare un soggetto che è un oggetto

Non puoi studiare un oggetto che è un soggetto

(Davis, Morris 2007, passim)


Il fascicolo comprende una decina di saggi su argomenti quali la soppressione forzata dell'elemento erotico nella pratica medica, il nuovo movimento globale per la salute, l'esibizione del seno femminile in pubblico e la politica bioculturale dell'allattamento materno, l'elemento razzistico nella retorica e nella pratica medica, il clima monsonico e l'acculturazione nella Description of the Great West Indian Hurricane of 1772 (Descrizione del grande uragano delle Indie occidentali del 1772) di Alexander Hamilton, il problema dell'empatia in medicina e nelle scienze umane in The Island of Doctor Moreau. A Possibility (L'isola del dottor Moreau. Una possibilità, 1896) di H.G. Wells, la cultura genetica dell'Ottocento e quella di oggi.

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Per abitudine a lungo meditata e profondamente introiettata, gli abitanti di New York evitano di fissare gli stranieri quando viaggiano in metropolitana, e perciò un uomo di Neandertal, viaggiando in mezzo a loro, potrebbe anche passare inosservato, ma non perché sia possibile confonderlo con la variegata fenomenologia dell'umanità moderna. I Neandertal possono anche essere considerati i nostri antenati diretti o i nostri più stretti cugini, e però nel loro aspetto essi erano al di fuori della gamma di varietà anatomiche possibili nell'homo sapiens moderno. (Gould 1994, p. 24)

Le considerazioni di Gould ci inducono a fare una riflessione: oggi viviamo in un'epoca in cui la mescolanza delle razze e delle culture, e i problemi del confronto con l'"altro" sono molto presenti nel dibattito intellettuale e producono sia motivi di speranza (al pensiero che la società globalizzata possa lentamente portare all'indebolimento dei pregiudizi e delle mitologie razziali) sia motivi di preoccupazione e di angoscia (alla constatazione della persistenza di tali pregiudizi e spesso del loro rafforzamento nelle nuove società localizzate, chiuse e tradizionaliste). Questo forse spiega il ritorno frequente, nei nostri media (nel cinema, nella letteratura), dell'interesse per i popoli cosiddetti primitivi e i continui ritorni agli studi paleologici, impastati di curiosità, senso di colpa, proiezioni utopiche.

Effettivamente colpiscono gli esempi, molto frequenti, di studi e discussioni sulla vita degli uomini primitivi. Anche in questo caso l'incontro fra paleontologia e antropologia da una parte e letteratura dall'altra è rappresentato, anzitutto, da un movimento che parte dalla letteratura, da una quantità di opere, narrative e romanzesche, che hanno per tema la vita degli uomini primitivi. Posso ricordare, per dare qualche esempio, alcuni racconti, come The Grisly Folk (Il popolo orrendo, 1896) o A Story of the Stone Age (Un racconto dell'età della pietra, 1897) di H.G. Wells, o una sua opera di divulgazione storico-scientifica, come The Outline of History (Un profilo della storia, 1920). Oppure posso ricordare un curioso libro di Jack London: Before Adam ( Prima di Adamo , 1906), divenuto lettura per bambini e spesso pubblicato in edizioni ridotte e rassettate. London era imbevuto di nozioni enciclopediche e spesso confuse provenienti dalla scienza positivista ottocentesca, ma forse aveva anche qualche ricordo di leggende e storie messe in circolazione dopo la conquista dell'America, per cercare di conciliare il racconto della Bibbia e la storia evangelica della redenzione con l'esistenza, in territori lontani e "altri", di genti che sembravano totalmente estranei sia alle vicende del popolo d'Israele sia, per secoli, alla predicazione del messaggio cristiano. London immagina che siano esistiti dei popoli prima di Adamo (pre-adamitici, come li chiamava la pubblicistica gesuita). Egli immagina che un uomo contemporaneo, che vive in California, abbia il curioso privilegio di rivivere, nei suoi sogni notturni, una vita precedente, svoltasi nell'era del medio Pleistocene, quando attorno a lui vivevano le tribù degli "uomini degli alberi", degli "uomini del fuoco" e dei "Folk": gli abitanti delle grotte. Avendo trascorso l'infanzia insieme con il suo popolo, quello degli "uomini degli alberi", egli ricorda con angoscia le sue paure ancestrali; fra queste, avanzando una spiegazione materialistica e pre- o anti-freudiana – London scrive pochi anni dopo la pubblicazione dell' Interpretazione dei sogni di Freud (opera che peraltro non conosce) –, egli rammenta con particolare angoscia la «paura di cadere» dall'albero, una paura trasmessa geneticamente ed ereditariamente, a seguito delle molte cadute e dei colpi in testa che avevano lasciato un imprint nel suo cervello.

Oppure posso citare un bellissimo romanzo di William Golding , ispirato dalla volontà polemica di riscrivere le storie troppo ottimistiche di Wells e intitolato The Inheritors (Gli eredi, 1955). Il romanzo ricostruisce lo scontro fra i Neandertal e i nuovi arrivati, i Cro-Magnon, nelle terre emerse dalla glaciazione. Esso descrive con finissima sensibilità i sistemi di percezione, linguaggio e modi di pensare, ricordare, prevedere e agire di quei lontani antenati. O ancora posso ricordare le memorie divertenti e parodistiche di un presunto protagonista della vita scimmiesca nell'Africa del Pleistocene scritte dal giornalista inglese Roy Lewis: What We Did to Father (Cosa abbiamo fatto a papà, 1960), più tardi pubblicate con il titolo The Evolution Man (in italiano: Il più grande uomo-scimmia del Pleistocene ), o una spiritosa intervista immaginaria di Italo Calvino a L'uomo di Neandertal, fatta per un programma radiofonico (1975), o anche le sue Cosmicomiche (1965). Ancora diverso, ma anch'esso interessante, il romanzo scientifico (e non fantascientifico) di uno scienziato italiano, professore alla Sapienza di Roma e studioso delle basi biologiche del comportamento: Alberto Oliverio. Il romanzo si intitola Neandertal (1991) e non tenta una ricostruzione pseudo-storica della vita dei nostri lontani antenati, ma piuttosto (riprendendo, forse inconsapevolmente, l'intuizione di Jack London) mette in scena, attraverso l'analisi e l'interpretazione dei sogni di uno scienziato moderno, il processo di formulazione di una sua congettura sull'incontro fra l'uomo di Neandertal e l'uomo di Cro-Magnon, e sul misterioso passaggio storico dall'una all'altra civiltà.

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Il binomio Law and Literature rinvia più precisamente a un movimento che si è sviluppato nell'accademia americana e che ha avuto un enorme influsso, propagandosi pian piano anche in altre aree culturali. La fondazione del movimento viene attribuita a James Boyd White, un avvocato che divenne professore prima all'Università di Chicago (1974-1983) e successivamente all'Università del Michigan, e che nel 1973 pubblicò un libro che ebbe un grande impatto sugli studi: The Legal Imagination (L'immaginazione legale). L'attenzione di White era particolarmente rivolta all'analisi stilistica, in parallelo, di testi legali e testi letterari, attribuendo a questi ultimi la capacità di cogliere in modo più approfondito gli aspetti umani delle questioni legali. La discussione molto ampia che è seguita si è svolta in tre direzioni:

1) lo studio della presenza di temi legali (processi, inchieste, interrogatori, sentenze) in molti testi letterari, dalle tragedie greche ai romanzi giudiziari contemporanei (law in literature);

2) lo studio del linguaggio legale (arringhe, leggi, sentenze) nella sua dimensione retorica e letteraria (law as literature);

3) lo studio delle ricostruzioni dei casi giudiziari, dei racconti di protagonisti e testimoni in base alle regole della narrazione e dell'interpretazione e confronto delle diverse narrazioni, secondo il celebre modello della novella Rashómon (1915) dello scrittore giapponese Ryúnosuke Akutagawa, da cui il regista Akira Kurosava ha tratto nel 1950 un celebre film.

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3) Lo studio dei casi giudiziari come strutture narrative.

Questo è l'aspetto più interessante e fruttuoso del rapporto fra mondo della letteratura e mondo della giurisprudenza. L'ambito stesso della legge viene visto oggi sempre più, a volte con qualche esagerazione, anziché come una serie di regole e norme, come una dimensione dove si mette in atto una costruzione narrativa delle esperienze umane, dove diverse storie individuali si proiettano sullo sfondo della normatività dei codici e interagiscono variamente con essa.

Già Robert Cover, nel suo saggio del 1983 Nomos and Narrative (Nomos e narrazione), aveva posto la questione in modo chiarissimo:

Noi abitiamo un nomos, un universo normativo. Noi creiamo costantemente e manteniamo un mondo di giusto e ingiusto, legale e illegale, valido e invalido. Lo studente di legge può essere spinto a identificare il mondo normativo con tutto l'apparato del controllo sociale. Le regole e i principi della giustizia, le istituzioni formali della legge e le convenzioni dell'ordine sociale sono certamente importanti in quel mondo; esse, tuttavia, sono solo una piccola parte dell'universo normativo che dovrebbe attirare la nostra attenzione.

Non c'è sistema di istituzioni o prescrizioni legali che possa esistere staccato dalle narrazioni che lo collocano in un tempo e luogo e gli danno significato. Per ogni costituzione c'è un'epica, per ogni decalogo una Scrittura. Una volta intesa nel contesto della narrazione che le dà significato, la legge diventa non solo un sistema di regole da osservare, ma un mondo in cui vivere.

In questo mondo normativo, la legge e la narrazione sono inseparabilmente correlate. Ogni prescrizione richiede che le sue istanze siano collocate in un discorso, dotate di storia e destino, inizio e fine, spiegazione e scopo. E ogni narrazione prevede, con le sue richieste, un punto prescrittivo, una morale.

La storia e la letteratura non possono sfuggire alla loro collocazione in un universo normativo, così come nessuna prescrizione, anche se incorporata in un testo legale, sfuggire alla sua origine e alla sua fine nell'esperienza, alle narrazioni che sono le traiettorie proiettate sulla realtà materiale dalla nostra immaginazione. (Cover 1983, pp. 4-5)

Il rapporto fra legge e narrazione è diventato un argomento costante di tutte le discussioni del movimento Law and Literature. Con una differenza, abbastanza rilevante, che si avverte fra le posizioni degli studiosi che si sono ispirati grosso modo alle teorie della cosiddetta Scuola di Chicago, e quelle degli studiosi, come Peter Brooks — forse l'esperto più autorevole in America di tecniche narrative e strutture formali dei testi — che si sono invece ispirati alla narratologia di scuola formalista, sul modello russo e francese.

Peter Brooks, nel saggio introduttivo alla raccolta curata insieme con Gewirtz, intitolato The Law as Narrative and Rhetoric (La legge come narrativa e retorica, 1996), polemizza contro coloro che, all'interno del movimento Law and Literature, assegnano semplicemente alla letteratura una funzione «umanizzante» della professione legale e alla retorica una funzione di chiarificazione e persuasività dei discorsi giuridici, e rivendica invece, richiamandosi alla tradizione degli studi russi e francesi, la funzione strutturante del discorso narrativo rispetto al disordine dell'esperienza.

Il compito dell'avvocato in un processo sembra essere quello di prendere una fabula spesso frammentaria e confusa e trasformarla in un sjuzet lineare e convincente. Non è tuttavia un semplice processo di addizione, infilando le perle degli eventi in una collana. Ci sono contraddizioni e incoerenze da sciogliere, alibi e giustificazioni da trovare, lacune da colmare. Delle ipotetiche narrazioni vengono costruite per coprire e spiegare gli eventi; sono narrazioni che modificano a loro volta gli eventi, cambiano la loro collocazione, producono altri eventi per riempire le lacune, attribuiscono intenzioni alle azioni. L'avvocato, con il suo cliente, deve immediatamente sollecitare e costruire una storia, e la distinzione fra quanto è sollecitato e quanto è costruito non è affatto chiara. Come potrebbe esserlo in un sistema contraddittorio, il quale prevede che accusa e difesa raccontino storie diverse e lascia a chi le ascolta – i giurati, sia pur guidati dal giudice – di decidere la plausibilità delle risultanze? (Brooks 1996, pp. 17-18)

Brooks sa benissimo che ogni narrazione è soggettiva e ubbidisce a modelli di genere e a convenzioni retoriche. In un altro saggio pubblicato in questa raccolta (Brooks 1995b) e successivamente in un bel libro (2000) ha esaminato a fondo il genere della confessione, sia di quella legale, sia di quella religiosa, sia di quella letteraria, realizzata nel genere autobiografico (in questi lavori affiora il suo interesse, tutt'altro che secondario, per la psicoanalisi). È tuttavia interessante la sua reazione a un saggio del professore di Harvard e prestigioso avvocato di tante battaglie civili Alan Dershowitz, che compare nello stesso volume Law's Stories con il titolo Life is Not a Dramatic Narrative (La vita non è una narrazione drammatica, 1996). La tesi di Dershowitz è semplice:

La vita non imita l'arte. La vita non è una narrazione finalizzata, che segue il modello proposto da Cechov. Gli eventi sono spesso insignificanti, irrilevanti rispetto a quanto verrà dopo: possono essere fuori sequenza, casuali, del tutto accidentali, privi di scopo. Se il nostro universo e i suoi abitanti sono governati dalle regole del caso, dalla accidentalità e dalla mancanza di scopo, allora molte delle storie – ammesso che si possa ancora chiamarle storie – sarebbero prive di significato. Gli esseri umani cercano sempre di imporre un ordine e un significato sul caos accidentale, sia per comprendere sia per controllare le forze che determinano il loro destino. Il tentativo disperato di estrarre uno scopo dalla totale casualità finisce sempre per alterare la realtà, come la altera la raccomandazione di Cechov. (Dershowitz 1996, p. 100)

Brooks commenta:

Fa effettivamente parte della logica della narrativa, è uno dei grandi modi che abbiamo di parlare al mondo, quello di spiegare per via eziologica, di dimostrare, attraverso la concatenazione degli eventi, come siamo arrivati al punto in cui siamo. Dershowitz può aver ragione quando protesta che la vita è più cieca e più informe della narrazione. E tuttavia la sua protesta può suonare invano. Perché la nostra conoscenza letteraria di come le storie sono messe insieme – del loro inizio, mezzo e fine – può governare la vita, al pari della letteratura, assai più di quanto egli voglia ammettere. La stessa nostra definizione in quanto esseri umani è strettamente collegata con le storie che raccontiamo della nostra vita e del mondo in cui viviamo. Non possiamo, nei nostri sogni, nelle nostre fantasticherie, nelle nostre fantasie più ambiziose, evitare le imposizioni con cui l'immaginazione dà forma alla vita. La vita da molti punti di vista narrativizza e crea serie e gruppi di storie che si intersecano, mai del tutto completi fino alla morte, ovviamente, e tuttavia orientati a una significativa divisione in capitoli della nostra esistenza. La vita in questo modo è portata a imitare l'arte. Quando Dershowitz pronuncia un importante caveat contro la tendenza a porre troppa fiducia nella nostra consapevolezza di come si svolgono le storie, non risulta sufficientemente chiaro come potremmo mettere insieme una storia, o costruire una storia altrettanto significativa, senza questa nostra competenza, acquisita molto presto nella vita, nel saper costruire storie. Se la forma narrativa fosse del tutto bandita dalla considerazione di una giuria processuale, non ci sarebbero più verdetti. (Brooks 1995, p. 19)

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